Perdere il sonno per troppe notti consecutive non mi fa bene. Poi succede di tirarmi su dal letto dopo l’ennesima notte, e non ho nemmeno la forza per muovere le dita. Eppure sto scrivendo, no? Dunque sono vivo. Eppoi, vivere in una micromansarda incastonata fra le tegole del tetto di una casa barbara – dove parte delle tegole sono state sostituite dal vetro delle finestre – significa che quando piove di notte è come se ti stesse piovendo direttamente sul cranio. Ieri tornando a casa ho visto un cowboy – giuro – seduto in salotto assieme alla padrona di casa, che bevevano un the. Poi ho aperto la porta e invece c’era un filippino mai visto fino a quel momento, che si infilava le scarpe in corridoio. Era il fidanzato filippino di una filippina che avevo visto due volte. Una che le docce la notte se le fa tra l’una e le due, di solito le notti che non piove, così ho una uniformità continuativa di insonnia assicurata.
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portare me stesso
Portare me stesso al concerto di Roy Paci in un parco di Amsterdam una domenica pomeriggio che profuma di barbecue e di vento e di sedile di treno, e vedere un Roy Paci saltellante con gli occhi allegri da italiano in gita e la corporatura panciottosa proprio come ci si aspetta debba essere un italiano – addirittura urla dal microfono un “are you TirEd?” dando notevole importanza a tutte le vocali, tutte – ecco, tutto questo nel 2009 da emigrante all’ estero é come se negli anni 60, ma pure 70, fossi andato coi baffoni e i basettoni ad un concerto di Mino Reitano in una birreria di Francoforte. Scoprire che nel gruppo ci suona il tuo amico del paesello che dodici anni fa ci suonavi assieme, e vedere che lui ancora suona e gira il mondo cosi’, non ha prezzo. Non é vero: ha un prezzo. Il prezzo da pagare é quello per cui ti chiedi cosa significherebbe per te fare solo quello ti piace fare, e il misurare il coraggio che ti manca, eccetera eccetera, eccetera eccetera che tanto é inutile soffermarsi su sta cosa é la solita domanda che arriva, poi se ne va, ma poi torna.
update: Toh! contributo video.
perché poi una cosa che ho capito
Perché poi una cosa che ho capito del vivere esperienze internazionali, è che in giro ci sono tante persone che si portano questa internazionalità come condizione di vita. Che internazionali non significa soltanto – per fare un esempio – essere nati in Italia e vivere in Paese Basso. No: è proprio una malattia che ti accompagna per la vita.
Ieri sera c’era sta festicciola qui vicino, per fare un esempio. Il festeggiato si proclamava tedesco, eppure era da una vita in Paese Basso. Ovviamente parlava anche un poco di francese, e sua moglie era messicana. Il loro pappagallo invece salutava in spagnolo. Poi c’erano due polacche, che però non arrivavano dalla Polonia, ma da Parigi. Infatti a tratti parlavano francese. Una di loro viveva a Londra. Ma ricordava con piacere gli inverni sulle montagne francesi. Poi c’erano quelli che venivano dalla Francia, ma che non erano francesi, erano marocchini. Non andate mai a mangiare nei ristoranti marocchini che non siano in Marocco, hanno detto. Poi c’era l’olandese che era cresciuta in Francia. Poi c’era quello appena arrivato, che ti hanno detto: quello è greco. Perfetto: una razza una faccia, hai pensato. Solo che era biondo con gli occhi azzurri, e invece del greco, parlava tedesco e olandese. Poi c’era il portoricano che suonava bene la chitarra. Poi c’era l’amica indiana che a parte il fatto di essere indiana, aveva fra tutti quelli il nome più facilmente pronunciabile in italiano. E poi c’erano quelli che non sapevi esattamente da dove venivano, ché non si può stare tutto il tempo a parlare con tutti.
Gli ambienti internazionali, uno che non ci è mai stato, come se li immagina? Oggi fanno parte del quotidiano, e non sono affatto come me li immaginavo. Forse sono io diverso dal me stesso che li immaginava, o forse bah. In ogni caso sono diversi. Soprattutto, non sono ambienti sofisticati. Non ci sono vezzi assurdi, non esistono snobismi. Si mangiano dolci buonissimi sui vassoi posati direttamente sul prato, mentre un cane fa finta di niente e allunga la lingua. Quando uno dei signori afferra il pezzo di torta al cioccolato e se lo porta alla bocca, prima che lo morda tu glielo dici – guarda che lo ha leccato il cane, quello – e lui ti risponde Pazienza, non importa, e se lo caccia tutto in bocca.
dunque si parlava di cinesi, mi pare.
Da premettere che i cinesi di questa casa, innnanzitutto non sono cinesi. Voglio dire, di fatto ci sarebbe soltanto un cinese. Gli altri due – maschio e femmina – sono thailandesi. Per quanto mi riguarda peró, qui dentro sono tutti cinesi. Incontro cinesi per le scale e dico Ciao. Oppure non dico niente. L’unico cinese veramente cinese in questa casa, é effeminato, magrissimo, e si dichiara cinese atipico. Mi pari cinese normale, vorrei dirgli. Qualsiasi cosa dica, la babbiona di questa casa ride sguaiatamente. Lei ci prova a non ridere, ma é peggio. Perché poi resta in silenzio, provando a frenarsi – non puó parlare altrimenti scoppia – quindi il cinese atipico dice una cosa delle sue, e quella scoppia, e non si ferma piú. Il cinese la guarda sbigottito facendo le mossette che in tutto il mondo sono uguali (quindi pure in Cina) aggravate dal fatto che si mette la mano a paletta davanti alla bocca per l’imbarazzo. I thailandesi, lo so che non sono cinesi, ma se il mondo intero mi considera un Tony Montana, e in quanto meridionale mi considera d’ufficio un siciliano – voglio dire, se il mondo intero generalizza con me – allora io generalizzo con loro, e comincio a generalizzare partendo dall’asia. Cinesi.
Il punto é che con i cinesi, hai presente il ristorante cinese? La cucina e gli odori del ristorante cinese? Ecco, non c’entra niente. Da quando sono qui ne ho conosciuti tantissimi, ne ho visti pranzare tantissimi, e la prima cosa che ho scoperto é che la storia degli involtini primavera é una bufala. Il gelato fritto, quelle cose lí, non esistono. Non esiste. E per quanto ne so, nemmeno in Thailandia. Dice: razzista. Sí, probabile. Ma lo scaffale del cibo della thailandese in cucina quando lo apro puzza di piedi europei, sudati. Ora posso metterci tutta l’amore del mondo, ma puzza. Sono nato e cresciuto in una parte del mondo dove quell’odore lí, é puzza. La storia del mondo basata sulle divisioni in base al colore della pelle, in base alla religione: tutto sbagliato. La puzza. Dovevano prendere il concetto di puzza, e andare avanti con quello.
ce lo racconto ai nipoti
Ieri sera una ragazza che assomigliava tantissimo ad una mia vecchia compagna delle scuole medie, nel corridoio di casa sua, mi ha chiesto di volare.
credevi sarebbe stato facile
Invece proprio per niente. Breve rivisitazione delle recenti mie esperienze alla ricerca di una nuova camera qui in Paese Basso. Un breve riassunto che tiene conto del fatto che le mie esperienze non sono mica finite, ho da continuare ad esperare chissà per quanto. Espera e spera che poi si avvera, direbbe il saggio.
Casa numero uno. Tristezza cosmica. Casa che si preannuncia lugubre già all’ingresso, con una montagnetta di scarpe abbandonate appena dietro la porta di ingresso. Soggiorno illuminato da luce fioca cimiteriale e tavolino rotondo attorniato da tre sedie degne dei miei incubi peggiori. Sensazione di Hansel e Gretel. Uno degli inquilini è ben vestito e mi scruta sorridendo senza sosta, viene da pensare che da un momento all’altro dica che si tratta di uno scherzo, che non è vero che vogliono affittare la camera. Poi mi indicano un corridoio che sarebbe la cucina, e praticamente di fianco al fornello c’è una porta, e dietro la porta, il cesso. Più tardi qualcuno mi spiegherà che questa cosa di associare cucina e cesso oggi non è più legale, in Paese Basso. Un altro coinquilino esce dalla sua camera per presentarsi, ha una strana escrescenza sulla fronte, occhiali spessi a montatura nera e si spaccia per illustratore “free lance”. La mia camera è al piano di sopra. Scopro che essa, la camera, non è una camera ma in realtà sono due micro camere, in una c’è il letto, nell’altra la scrivania. Non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi di sdoppiare così la mia vita – sebbene qui poi non si fa altro che sdoppiare e sdoppiare e sdoppiare. La sera stessa mi inviano un sms per dirmi che hanno scelto un altro. Ma pensa, dico io. Io leggendo l’sms ripenso all’escrescenza dell’illustrator “free lance” ed ho un brivido.
Casa numero due. Mi accoglie una damigiana bionda che mi presenta alla sua coinquilina, la brutta copia della brutta copia di Kate Winslet in quel film, come si chiama, Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Dev’essere per la tinta dei capelli. Qui la camera sarebbe anche buona, supera i 15 metri quadri – che da ste parti è un lusso – ma la cucina è nel corridoio, senza porte, di nuovo di fianco al cesso. Scopro che hanno avuto 70 richieste e che io sono uno dei fortunati Quattordici ad essere stato invitato. In quel momento me la gioco con una matricola che sputacchia saliva mentre parla della sua confraternita universitaria Pace e Amore. Kate intanto fuma quattro sigarette in mezz’ora, e secondo me la pelle del suo braccio è troppo bianca per essere vera, pare ricotta, potrebbero addirittura vedersi le ossa. Alla fine io vado via prima degli altri perchè mi è parso di aver lasciato la Meisje da sola a casa attorniata da una combriccola di motociclisti omosessuali. Il giorno dopo mi fanno sapere che non sono il prescelto. I motociclisti non erano omosessuali. Peggio.
Casa numero tre. L’intervista me la fa un turco che subito mi fa sapere che lui non vive lì. Chi ci vive, allora? Altri, dice. Ad un certo punto passa di lì un nano capelluto ed il turco si rianima e mi dice, ecco lui, per esempio, vive qui. Il nano ride e si presenta. Il momento più bello è quando vogliono mostrarmi la doccia. Per di la’, mi dicono, e mi indicano un tunnel nero – giuro, era nero – e mi incitano, se vai oltre, si può accendere la luce. Io faccio tre passi nel buio più totale e torno indietro. Per quanto mi riguarda potrei risvegliarmi John Malkovic. Il turco sparisce nel tunnel e infine accende la luce, perchè la luce c’era davvero. Ed io che non mi fidavo. La cumpa allegra di turchi, nani e ballerine, comunque ha imbrogliato sulla metratura della camera, è almeno la metà di quello che avevano detto. Al posto dei mobili ci sono due bauli da isola del tesoro. Uno dei lati è lungo quanto il letto, l’altro lato sono tre passi e mezzo dei miei. Improvvisamente mi sento un criceto, dico che ci devo pensare, che al massimo entro la serata farò sapere se mi va bene, nonostante l’imbroglio sulla metratura. Ed è proprio quello che farò, appena finisco di scrivere qui, mandare sta benedetta mail e dire al turco col nome che comincia e finisce per U che mi dispiace, sono contento che mi abbiano invitato – frase che ruffianissimo ripeto sempre – ma non se ne parla proprio di fare il criceto, nei tempi prossimi venturi.
tu – ovvero me stesso che leggerai queste pagine
Tu – ovvero me stesso che leggerai queste pagine in un futuro di cui ora non so niente – ti stai chiedendo come trascorrevi una giornata di quelle che ti senti di stare bene e non sai nemmeno il perchè?
Mh, te lo stai chiedendo? E allora te lo racconto.
Stamattina ti sei svegliato nemmeno tanto presto, e hai preso l’auto per andare a trovare due dottori che in questo edificio enorme dell’autorità sanitaria del Paese Basso ti aspettavano per discutere la tua ricerca dei prossimi mesi. Non è stato quello che vi siete detto – non è nemmeno il fatto che adesso ti danno retta, mentre parli di cose serie, ancora ti stupisci di questo fatto, ma non è questo – è stato piuttosto che poi quando sei uscito faceva sto freddo da Europa del Nord, e i gli steli d’erba attorno alla strada erano brinati epperò c’era il sole, e sole e ghiaccio assieme ti hanno fatto pensare a quante giornate si perdono, giornate stupende, seduti a lavorare. Non è che lavorare che ti pesi, è solo il perdere queste giornate, che ti basterebbero cinque minuti al giorno di autostrada senza automobili, non chiedi mica cose impossibili.
Sulla strada avevi le cuffie, e nel lettore c’avevi Astor Piazzolla che però hai snobbato ripetutamente a favore di Amy McDonald, e questo perchè sei giovane, e l’album ti piace tutto intero. E poi lei ti sta simpatica, con quella facciotta da bombolona si chiama pure McDonald, hai pensato: chissà quanto l’avranno presa in giro a quando non cantava e andava ancora a scuola.
Arrivato all’università sei andato alla tua scrivania. Adesso buona parte della tua settimana la spendi in questa stanza-alveare condivisa con altri studenti di qualche anno più giovani di te, di cui la metà con origini chiaramente indiane, e l’altra metà non lo sai, e però tutti hanno belle facce, studiano pochissimo e non ti danno fastidio mentre parlottano sullo sfondo. Avevi un panino semi cotto nello zaino, di quelli che vanno riscaldati nel forno o nella piastra sennò li mangi e muori. Hai preso in prestito la piastra da una abitante dell’alveare, ma quando hai infilato la spina è arrivato un Tizio Autoritario a dirti che non si poteva, tu gli hai detto che oggi non avevi altro da mangiare, gli hai fatto vedere il panino che se te lo mangiavi semicotto rischiavi di finire male, allora lui ti ha lasciato fare. Hai preso l’ascensore per recuperare un piatto dalla mensa, e nell’ascensore un signore vestito elegantemente ma con la faccia di Mick Jagger ha scherzato sul fatto che prendere un piatto vuoto dalla mensa non costa nulla. Gli ho detto Sì Sì, non so cosa ci sia da ridere ma comunque Sì. Il panino nel frattempo si era bruciato – e pazienza – lo hai comunque consumato sul tavolo del Dipartimento sfogliando un settimanale locale. Nel paginone centrale c’era la foto di quella che ti ha prestato la piastra che rispondeva all’intervistatrice su cose tipo “verso che età hai intenzione di diventare madre?” solo che non sei riuscito a decifrare la risposta dalla lingua arancione. Glielo avresti chiesto di persona, dopo, “a proposito: a che età avresti intenzione di diventare madre?” ma l’hai trovata che puliva la piastra dai resti del tuo panino bruciato. Le hai detto “lo faccio io, lascia stare” lei ha detto “sono tre settimane che non la pulisco, dovevo farlo prima o poi”.
Sei sceso poi a prendere pezzi dell’ultimo sole sulla panchina, lì un ragazzo di due metri e dieci ti ha dato del francese, c’hai proprio l’accento francese, ha detto. Tu gli hai detto subito: ma quale francese, sono italiano, e allora quello ha cominciato a dire che c’è la mafia a San Marino, che tu sta cosa non l’avevi mai sentita prima. A San Marino? Per bruciare il silenzio hai detto Burocrazia, Governo, Always, e lui ha detto Sì. Era un po’ confuso. Di dove esattamente? ti ha chiesto. Del Sud Est, gli hai risposto, e quello ha battuto le mani e ha detto Aaaah! Cievo Veronna! No No, hai detto tu, da Lecce. Aaaaahh! Lecce in italiano significa Latte! No, quello è spagnolo, gli hai detto tu. Quando sei andato via ti ha salutato con un Take it Easy e poi urlando un EPERRICULOUSU SPARGARSAI. Tu gli hai ripetuto, non sono francese, quello ha detto che era una frase in italiano, e tu solo alla quarta volta hai capito che intendeva È PERICOLOSO SPORGERSI, frase letta su qualche espresso dalle parti di Venezia.
Sei andato ad una conferenza sulle macromolecole che passano o non passano la barriera ematoencefalica. Non ti interessava, ci eri costretto. La presentava Phil Collins. Tu osservandolo durante l’orazione, intristendoti della sua enfasi e delle risate che si procurava da solo commentando grafici di Excel, e seguendo attentamente la grandissima capacità che aveva di sollevare e abbassare le sopracciglia (trascinando di conseguenza tutto il cuoio capelluto e il ciuffetto di capelli rimasti al centro) hai pensato che tu non ce la faresti mai – ma davvero mai – a dedicare la tua intera vita ad una sola cosa come fanno gli scienziati.
Sei andato in palestra – adesso hai ricominciato con queste cose, ti costa solo 11 euri al mese – e hai pensato per l’ennesima volta che a fare girare il sangue poi gira tutto il resto, anche le idee, anche la voglia di fare, e infatti poi sei tornato a casa e hai messo le robe in lavatrice prima di pistolettare come uno scemo su internet.
Hai preparato la cena, e nel frattempo hai parlato con due dei tuoi coinquilini, lo psicologo metallaro innocuo, e il super uomo biondo gay. Gli hai parlato di Phil Collins, e per questo siete finiti a parlare delle diverse forme di intelligenza toerizzate da quelli che ste cose le studiano, dei Nerd e dei fisici premiatissimi che poi finiscono male. Nel frattempo, gli spagnoli che dovevano venire a visitare il super uomo erano in ritardo di due ore, lui mescolava l’impasto per il pancake e li immaginava caduti nel fiume.
Hai pensato – non c’entrava niente ma lo hai pensato lo stesso – che ci sono amici tuoi che stanno diventando proprio quello che non volevano essere. Ci sono quelli che si sposano in Chiesa sennò sembra brutto, per fare un esempio.. Tu non stai diventando quello che volevi essere – cioè, non lo sai, non hai mai avuto le idee chiare in merito – però non stai nemmeno diventando l’opposto. È complicato da spiegare, ma io mi sono capito, e tutta sta cosa come ho detto all’inizio, la scrivo soprattutto per me.
che il signore li abbia in gloria
Questo viaggio ha inizio nella fornitissima libreria dell’Aereoporto di Brindisi, dove il sottoscritto prende in mano un libro ancora non letto di Amélie Nothomb, autrice belga, e invece di portarselo via come avrebbe fatto negli anni passati, decide di lasciarlo al suo posto. Questo smacco al Belgio verrà poi pagato nel seguito di questa storia. Una troupe televisiva intanto cerca qualcuno da intervistare riguardo ai disguidi aerei del giorno prima, io dico che No, non ho niente di cui lamentarmi (ancora non sapevo).
Che poi, questa storia comincia in realtà a Barcellona, dove l’aereo che mi avrebbe riportato a Parigi (e da lì in treno fino in Paese Basso) va a scontrarsi con un muletto porta bagagli. Niente aereo Myair quindi (Sì, diciamolo, Myair, che poi se vogliono querelano). Al suo posto, si presenta un anonimo aeroplanino tutto bianco, che poi si scopre essere aeroplanino moldavo. E munito di personale di bordo anch’esso moldavo. Il personale di bordo (Myair, se non è vero querelami) è costituito da uomini vestiti alla bavarese e chiaramente incinti, una palla sferica al di sotto della camicia. L’aereo, sgarrupatissimo, non riesce neanche a trasmettere le comunicazioni attraverso gli altoparlanti, che la voce va e viene. Tranquillità e fatalismo nei sedili sgarrupati, traducendo a caso le pubblicità moldave per ingannare la paura. Al posto delle solite pizzette e coca cole, vengono distribuiti bicchieri di plastica e acqua direttamente dalla bottiglia, ovviamente aggratis. Robe d’altri tempi, o anche – se vogliamo – robe da sequestro di ostaggi in banca.
Arriviamo a Parigi con due ore di ritardo, io che smadonno dentro di me – ho un treno per il Paese Basso che non devo perdere – ma poi gli smadonnamenti diventano inutili quando non vedo arrivare il mio bagaglio, e capisco che non solo il treno è palesemente perso, ma pure il bagaglio è anch’esso perso; il mio autcontrollo invece No, nonostante mi trovi nel mezzo dell’Europa privo di ricambio di mutande. La signora dell’ufficio bagagli arringa la folla inferocita, squittendo in francese. Io mi avvicino e le chiedo qualcosa in inglese, lei strabuzza gli occhi e vomita parole a caso. Non parla inglese. Io vorrei prenderla per le orecchie come il manubrio di una motocicletta e urlarle che Cazzo, non si può lavorare in un aereoporto internazionale, e non sapere l’inglese. Sta cosa mi irrita, lo ammetto, e vorrei davvero tenerla per le orecchie, così per fare, e recitarle il Sabato del Villaggio nell’italiano arcaico di Leopardi tanto per fare, perchè se lei si ostina a dire Oui Oui allora perchè io non posso dirle che «I fanciulli gridando/su la piazzuola in frotta,/e qua e là saltando,/ fanno un lieto romore;/e intanto riede alla sua parca mensa,/fischiando, il zappatore »?
Lascio perdere, e mi precipito scapicollandomi alla stazione dei treni. Nella metro che porta in stazione, un fisarmonicista suona La vie en Rose e a me viene da ridere, nonostante un termolìo della palpebra che vorrebbe dirmi qualcosa di diverso.
In stazione mi fanno notare che il mio biglietto per il Paese Basso, a quell’ora, posso anche usarlo per fare un aeroplanino. Ne compro un altro, allora, dico io. Niente treni a quest’ora, mi dicono. Niente treni!?! Niente, mi dice la Maria Maddalena della biglietteria, e tra l’altro, se ne vuoi uno fino a Bruxelles dimmelo ora, che io chiudo fra quattro minuti, altrimenti Taci Per Sempre. Aspetta, fammi pensare, dico io. Tre, dice lei. Tre cosa? Tre minuti. Dammi sto cazzo di biglietto. Tra parentesi, un’ora e ventitre di viaggio per modici novanta euro.
Nel treno scopro la superiorità delle Ferrovie dell Stato italiane che almeno hanno inventato quei portelloni a scorrimento per i cessi. In questo treno da novanta euro per ottanta minuti di viaggio (quasi un euro al minuto, se ci pensi) le porte si chiudono all’interno, così poi succede che se c’hai uno zaino sulle spalle, puoi anche pisciare, ma poi ti devi rassegnare a trascorrere il resto della tua vita incastrato lì dentro.
A Bruxelles ci sono meno nove gradi, e una volta giunto lì chiamo amico compare che pratica la sua avvocatura da quelle parti.Gli spiego la cosa nel metodo più scarno possibile. Sono ostaggio di forze avverse in paesi stranieri, gli dico, e non so dove andare. Lui, gentilissimo, mi dice che mi verrà a prendere volentieri in stazione. Io che mi porto una sfiga addosso che ormai credo sia diventata visibile pure ai passanti, scopro in seguito che l’ho chiamato nel mezzo di una litigata con la sua ragazza. Io non so cosa dire, penso solo ai meno nove gradi di Bruxelles. Gli dico che evidentemente è colpa mia, di sta nuvola di cacca che mi segue dal Salento. Ho visto per la prima volta la sede della Commissione Europea, comunque. Spero che emanino regole condivise sulla portellatura dei cessi di treno, perlomeno, in futuro.
Sono riuscito ad arrivare a casa verso le due del pomeriggio, oggi, dopo un viaggio di ventisei ore. C’era il sole. Ho sbagliato pure l’ultimo treno, estasiato dal sole, quando ero a due chilometri da casa. Alla fine tutto sto casino, è vero che palle, ma c’era comunque il sole. Amelie Nothomb la comprerò sempre, prometto. Mi portavo appresso invece “Brothers” di Yu Hua e l’ultimo di Paolo Villaggio. Ed il Corriere, che a comprarlo all’esterno non solo costa il doppio, ma macchia pure le mani. E poi non penserò che i musicisti da metropolitana danno fastidio. Anzi, certe volte fanno pure ridere, senza motivo.
dopo undici anni
E poi comunque pensavo che il corrispettivo attuale del Jack Frusciante, se proprio vogliamo trovarlo – non se la prendano gli estimatori dell’uno e dell’altro, anche se qui chiaramente si parteggia per l’uno e non per l’altro – sarebbe Tremetrisoprailcielo di Moccia. Il punto è, lasciando perdere tutte le critiche facilissime in cui si potrebbe perdersi non appena si mettono in fila le sei lettere che compongono la parola Moccia, di cui peraltro già si è discusso tempo fa, il punto è, dicevo, che il successo di una cosa, o il suo insuccesso, sono un segno dei tempi. E se il Jack Frusciante negli anni 90 venne fuori da un Brizzi appena diciannovenne, che nel momento in cui scriveva le sue righe aveva le mani e gli occhi ancora brucianti delle esperienze vissute da diciassettene, o se anche la Ballestra produsse la Guerra degli Antò a vent’anni, con i protagonisti del romanzo anch’essi appena ventenni, invece Moccia scrittore era autore e regista televisivo e cinematografico trentenne, e praticamente quarantenne al momento della riscrittura del romanzo stesso. Cioè uno che le storie le raccontava già per lavoro. E non storie d’amore, capiamoci. Semplicemente storie, quello che serviva in quel momento. La sceneggiatura de “I ragazzi della terza C”, per esempio.
E dunque, il romanzo giovanilistico di maggior successo degli anni duemila è stato scritto (anzi riscritto, perchè è stato modificato dopo la stesura originale) da uno che poi ha continuato a fare l’autore dei programmi di Bonolis alla tivvù. Negli anni novanta invece le storie venivano fuori da chi ci stava ancora dentro, a quelle storie raccontate, o da chi ne era appena uscito fuori con la testa ancora fumante. Poi noi possiamo anche perdere qualche ora a discutere cosa è cambiato nel mondo adolescenziale fra gli anni novanta e gli anni duemila, ma sta cosa del Raccontare da una parte, e del Farsi Raccontare dall’altra, già da sola rappresenta abbastanza bene – secondo me – questa differenza.
No, non credo. Però lui lo capiva. E insomma, vi giuro, qualsiasi immagine
si potesse avere di lui dall’esterno, illo si sentiva
aperto e spontaneo come mai in vita sua."
il Cuggino Rasta, sempre lui
Il Cuggino Rasta – per i pochi che ancora non sanno chi sia, leggere per esempio qui oppure qui – in preda ad una crisi dei trent’anni anticipata, qualche mese fa molla tutto, lavoro, famiglia e innumerevoli amanti, e scappa a Londra in compagnia di mio fratello Il Piccolo. Io seguo le loro gesta da lontano – neanche tanto lontano – e mi impedisco di scriverne, solo che poi come al solito la tentazione diventa troppo grande, mi arrendo e ne scrivo.
Il Cuggino Rasta e mio fratello Il Piccolo sono a Londra, se chiedi perchè sono a Londra ti dicono che ci sono andati per imparare (per l’ennesima volta) l’inglese. Il Cuggino Rasta specifica però che lui l’inglese già lo conosce abbastanza bene, e che a Londra più che altro ci è andato per un «perfezionamento». Anche se poi, prima di andare ad una prova di lavoro, mi chiede via Skype se «unpaid trial» significa che la prova di lavoro te la pagano dopo. Il fratello Il Piccolo, invece, quanto ad inglese è fermo al livello di “noio vulevon savuàr” di Totò.
I due avvocati (perchè sono entrambi sono avvocati, capiamoci) a Londra trovano ospitalità nella casa superlusso dell’amica di un’amica del Cuggino, una casa che è parte dell’eredità degli Onassis, confinante con un punto vendita di D&G e vicini di Flavio Briatore. Il Cuggino ha detto che secondo lui la casa potrebbe valere qualcosa come quattro miliardi. Nel frattempo però, i due sono senza lavoro, e in mancanza di soldi non escono quasi mai di casa, consumano un solo pasto al giorno e si cibano prevalentemente di patate e fagioli. Il Piccolo riesce a trovare lavoro come sguattero in un ristorante, dopo due giorni però, forse per l’eccessiva lentezza, viene licenziato. Il Cuggino rifiuta un’offerta di lavoro come modello – dobbiamo ricordarci che il Cuggino è bellissimo, affascinantissimo, e già tempo fa rifiutò un provino come VJ a Mtv – sostiene un colloquio per fare il rappresentante di carne nei ristoranti e il receptionist in un’ambasciata, ma alla fine resta comunque senza far nulla. A questo punto il vortice casa lussuosissima/mancanza di soldi/inglese stentato costringono i due avvocati a trascorrere sempre più tempo chiusi in casa. La prima conseguenza è che il Cuggino, instancabile cacciatore di ragazzine in ogni parte del mondo, resta privo della sua occupazione principale per oltre un mese (“un mese e mezzo” arriva addirittura a dichiarare oggi pomeriggio). Con la consapevolezza della propria condizione attuale il Cuggino rivaluta mentalmente la sua vita in Italia, molto più semplice e agiata, ma cerca anche di collegare le sue sventure professionali con la crisi mondiale dei crediti e i tonfi di Wall Street. Ciò nonostante, l’altra sera racimola 3 sterline e novantanove centesimi (in seguito affermerà: ma ti rendi conto? Tre e novantanove?!?) e acquista numero tre preservativi con l’intento di inseguire certi suoi piani di gloria. Con piccole pacche sulla tasca del giubbotto, dove tiene nascosti i suoi oggettini, il nostro eroe affermerà in metropolitana ( e ci sono testimoni):
« Adesso mi sento più sicuro. Ecco: adesso questa città mi fa meno paura. »
È chiaro che siamo di fronte ad un genio dei nostri tempi. Il piano va a vuoto ma lui non si abbatte, non perde la speranza e racconta che presto farà un certo viaggio in un certo Paese, e lì avrà modo di rifarsi di tutte le sventure appena trascorse.
A questo punto, si viene a sapere che una sua VecchiaFiamma andrà a Londra a trovarlo fra qualche giorno. Il Cuggino ha già affermato che, per la sua salute mentale, dovrebbe evitare qualsiasi contatto con questa persona, ed è anche il consiglio che gli stato dato più volte. Ora però le condizioni sono tali – non so se mi spiego – che il pericolo di un «incontro ravvicinato» con la VecchiaFiamma, sebbene dannossissimo per entrambi, possa comunque avvenire. Qui si fa il tifo per il No, ma si ha paura che invece sia Sì. Qui si fa il tifo per il No, perchè si vuole pensare ad un Cuggino capace di autocontrollo e analisi del rischio di medio-lungo termine. Un Cuggino che finalmente diventa persona adulta. Le previsioni di tutti gli esperti della materia “Cuggino” sono pessimistiche. Sapendo di diventare nuovamente protagonista di una pagina su questo blogghe,il nostro eroe ha dichiarato:
«Lasciatemi stare che devo costruirmi una vita sentimentale seria, e con il vostro aiuto non riuscirò a farlo.»
Per il resto, se qualcuno si trova da quelle parti, e volesse incontrare il Cuggino e il Piccolo, offrire loro un pasto caldo, può mettersi in contatto con me. Se lo si distrae in qualche modo, forse si potrà scongiurare anche l’inevitabile. Se invece siete lontani, ma avete anche voi avuto esperienze di VecchieFiamme portatrici di danni, di problematiche Minestre Riscaldate, proponete qui qualche motivazione che riesca a convincere il Cuggino a fare il bravo. L’idea è quella di compilare una lista da stampare e dare al Cuggino, sperando che funzioni. Ma le previsioni, come detto, sono pessimistiche.
nel 2001 mi collegavo ad internet
Nel 2001 mi collegavo ad internet una volta ogni tre-quattro mesi. Ricordo di aver trovato un computer a libero accesso in un centro commerciale di Londra e di aver controllato la mia casella di posta (a quel tempo si chiamava angelboom@hotmail.it e non capivo come mai non volesse accettare l’accento dopo il «boom») e di aver anche scoperto che la casella si era praticamente addormentata per il prolungato inutilizzo. Erano i tempi che le caselle di posta si addormentavano per il mancato utilizzo. Insomma, quello era il 2001.
Questo invece è Google come era il primo gennaio 2001 – tirato fuori nell’occasione dell’anniversario – e ci sono dentro solo i siti che c’erano nel 2001. Nel 2001 – sembra ieri – ma praticamente se ci guardi bene non c’era nulla. Potrebbe sembraer una cosa da niente, ma a me pare la cosa più vicina ad una macchina del tempo che io abbia mai avuto a disposizione. Non c’era nemmeno Wikipedia, che è arrivata il 15 gennaio dello stesso anno. Tutto sti fèisbuk e blog e youtube sono arrivati dopo. Siamo solo muschio di superficie.
sovrappensiero
Oggi guardavo le mie scarpe e pensavo: queste scarpe le ho prese qualche mese fa ad Utrecht. Poi le calze e pensavo: queste vengono dal Salento, invece. Poi i pantaloni, direttamente dal centro di Bologna. E poi la maglietta, comprata un giorno tristissimo a Colonia. Eppoi la felpa nuovissima, che arriva da l’Aja. Le mutande invece, ci ho pensato un qualche minuto, ma le mutande proprio non ricordo.
Lo scrivevo qualche anno fa
Lo scrivevo qualche anno fa sulla colonnina del blogghe: «Quando diventerò dolce e disponibile con tutti, allora andrò a fare il missionario in Burundi.». Poi ieri ho scoperto che il mio compagno di corso, quello che ci devo anche lavorare assieme, è proprio del Burundi. Come tutti gli africani in occidente che non siano rapper esagitati, veste abiti formali e rassicuranti. Io quando avevo scritto Burundi manco lo sapevo dov’era sto Burundi, e nemmeno adesso lo so, però la differenza è che adesso c’ho una faccia nera a due metri da me con cui devo discutere di problemi epidemiologici, senza farmi distrarre dall’interno roseo delle sue labbra.
Oggi nell’ordine mi sono imbattuto con: il traffico criminale, la paura di non fare in tempo, la consapevolezza di non aver fatto in tempo, la consapevolezza di non sapere perchè dovevi fare in tempo, una sedia calda, una cosa giusta pronunciata al momento giusto, una canzone che la volevo cantare per forza anche non avendo alcuna voglia di cantare, la sorprendente capacità di rispondere a domande ovvie impostando la voce, la frenesia del lavoro al computer, la frenesia del lavoro al computer, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, una corsa sotto la pioggia con due panini caldi appena usciti dal forno in mano, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, l’indecisione al reparto ortofrutta, una birra in lattina fredda ma non come la volevo io, poco pochissimo tempo per scrivere come invece vorrei scrivere.
è tutto da vedere
Se vogliamo fare una vita roack and roall, e se vogliamo cominciare oggi, allora basta metterci d’accordo, ho detto alla Signorina fresca emigrante come me, appena arrivata qui in Paese Basso. Adesso anche tu c’hai un lavoro da queste parti – le ho detto – e siamo diventati vicini di casa. Adesso c’hai un lavoro da queste parti, e davvero chi lo avrebbe mai detto. Tu lo avresti mai detto? Io non lo avrei mai detto. Nemmeno nella mia più selvaggia fantasia, avrei potuto immaginarlo. Ma adesso siamo qui, ed è tutto da vedere.
Che poi cosa intendi per vita roack and roall, fammi capire bene?
Intendo esattamente quello che stiamo facendo: lasciare tutto, tapparsi il naso e ricominciare da un’altra parte. Ho sentito dire che mantiene giovani. Tra l’altro noi siamo ancora giovani, e quindi insomma, meglio di così si muore.
No, non morire, altrimenti mi offendo.
Ma insomma dicevo, lasciare tutto e ricominciare: ti va? Perchè a me va. Ho una voglia di problemi da risolvere e nuovi lavandini che perdono acqua, che non ti dico. Davvero, non scherzo. Eppoi di padroni di casa con strani tic facciali, e nuove fermate di autobus, e pizze al taglio da mangiare per terra la sera del trasloco. Voglio dire, tutte queste cose, piuttosto che non provarle più, io preferisco avercele di nuovo. Questo vuol dire roack and roall. Vuol dire che non dovevamo per forza venire fino a qui, eppure ci siamo. E siccome ci siamo, allora balliamo. Roack and roall, appunto.
Poi succede che nel centro città si cerchi un posto per farsi un panino, ma nel frattempo la squadra nazionale del Paese Basso sta strapazzando la Francia agli europei, e quindi non c’è nessuno disposto a fabbricarti un panino. L’alternativa sarebbe spostarci in Danimarca, ma è un attimo fuori mano, preferirei restare nei paraggi. Facciamo un pollo al turco sotterrata di maionese, e poi si torna a casa. L’azienda ti paga l’albergo cento stelle, posso venirci a fare la pipì che mi scappa? Ti giuro mi scappa, non ce la faccio a guidare così fino a casa, dall’altra parte della nazione.
No no, non ti faccio entrare che sennò quelli dell’albergo cosa devono pensare? Niente, che saliamo un momento in camera, cosa devono pensare? No no, sono appena arrivata, e qui nessuno deve pensare male di me. Va bene, allora niente pipì nel bagno dell’albergo a cento stelle, resto qui nel parcheggio ad aspettarti, con le gambe strette a non farmela scappare. Tira pure un vento freddo, porca miseria, e questo peggiora le cose. Certamente fra le cose da raccontare, un giorno, ci sarà pure questa, ci sarà quella volta che rimasi con le game incrociate strette in un parcheggio di albergo a cento stelle, per fare in modo che nessuno potesse pensare male di te.
Roack and roall, appunto.
ho trascorso gli ultimi quattro giorni
Ho trascorso gli ultimi quattro giorni ad un congresso di capoccioni scientifici ad Amsterdam. Io non c’entravo quasi nulla lì dentro, ero solo stato invitato dal capo, e allora ci sono andato. Certe volte penso che va bene il contesto internazionale interessante, però poi tutta questa internazionalità – soprattutto prolungata per quattro giorni di fila – finisce anche per farmi venire la nausea. Se vedo un altro giapponese io stamattina potrei anche vomitare. Sti giapponesi che si addormentano durante i convegni e fanno le fotografie a tutte le cose come nei film che prendono per il culo i giapponesi. Sti benedetti giapponesi, che insomma capiamoci, vengono dal Giappone, mica dal paese qui dietro l’angolo: intraprendono sti viaggi lunghissimi e poi si svegliano presto in albergo per venire in tempo al convegno, e poi una volta seduti in poltrona si addormentano. Che ti verrebbe da infilargli la penna nelle orecchie. Cazzo dormi, che vieni dal Giappone?
Eppoi noi tutti delegati – che c’avevo scritto delegato pure io di fianco al mio nome – siamo stati caricati su di un battello che ha attraversato lentamente tutti i canali di Amsterdam. Uno spettacolo. Le case galleggianti, le papere coi pulcini di papera. Ci hanno riempito di pessimo vino bianco sudamericano e io ho ho preso a fiorellate la mia collega che non riusciva ad aspettare che il battello si fermasse per accendersi la sigaretta. Le fiorellate sarebbero i colpi con i fiori sulla fronte, perchè avevamo tutti un crisantemo in regalo sul nostro banchetto del battello. Anzi non erano crisantemi, erano gerbere, io li confondo sempre.
E poi ci hanno scaricato in un capannone enorme con un palco per concerto, e c’era una cena organizzata con così tanto cibo che non sono riuscito nemmeno a guardarlo tutto. Non mi andava di scegliere. E poi c’era il toro di quelli che fanno le sfide alla televisone che inizia a roteare e si deve cercare di non cadere, e poi donne vestite in stile ottocentesco con le parrucche bianche, e una signorina che distribuiva gelati travestita pure lei da cono gelato. Una palla di ferro che scendeva dal soffitto, si apriva e dentro c’era una signorina vestita di bianco che cantava sospesa nel vuoto. E camerieri che continuavano a portare da bere, ed io che in tutto quel cibo ho deciso di darmi alle pannocchie di granoturco lesse senza sosta, che per me terrone sono una fra le cose più esotiche che esistono.
In tutto questo casino ho pensato che sei mesi fa non conoscevo nessuna delle persone con cui oggi parlo ogni giorno, eppure queste persone con cui parlo ogni giorno sarebbero la mia vita di adesso. L’ho spiegato alla collega, e lei mi ha guardato strano. Gliel’ho spiegato: il battello che va in giro per Amsterdam, le palline di gelato, e tutte queste facce, e questi giapponesi. E queste novita’. Non ha capito. Il punto è che le cose cambiano, e ad una velocità tale che se fra sei mesi dovesse cambiare tutto a questa velocità allora potrei aspettare di trovarmi dappertutto, anche a prendere un caffè da un mio amico calzolaio di Praga. Perchè capiamoci, io non ci sono mai stato, a Praga. Ma se va avanti così potrei diventare anche il sindaco di Praga. Oppure qualcos’altro. Vai a capire cosa.
poi io ogni tanto
Poi io ogni tanto non dormo. Dovrei dormire e non dormo. Sveglio ancora alle tre del mattino, decido di mettermi a sedere sul letto per calmare il nervosismo che non sto dormendo, e il nervosismo non riesco a calmarlo. Oggi poi avevo cose importanti da fare, e proprio per quello non ho dormito. Perchè il mio corpo spesso si ribella, sa che ho biosogno di lui, e si ribella. Maledetto.
Poi ci sono certe giornate che nemmeno te ne rendi conto, ma potrebbero cambiare il corso delle cose di tutta una vita. Per esempio oggi era un giorno di quelli. Hai passato una vita a dare importanza a cose da nulla, a farti venire il batticuore per cose da nulla, tipo – per fare un esempio – il giorno della laurea o del primo dente caduto, e poi invece i giorni importanti sono altri. Un mercoledì qualsiasi con le nuvole e poco traffico, era un giorno importante. Te ne dimenticherai. Eppoi, che ne sapevi, tu. Non ne sei nemmeno cosciente, ma i giorni importanti sono altri, e ci arrivi con molto meno batticuore di quanto sarebbe adatto, oppure – al massimo – mordicchiandoti la pelle di un dito.
Questa la sigla di chiusura di stasera, costruita appena oggi dall’amica Xxxna «perchè non aveva tanta voglia di studiare».
io c'avevo bisogno di fermarmi un attimo
Io c’avevo bisogno di fermarmi un attimo che a pedalare col peso della signorina seduta dietro – la Signorina in questi giorni è qui– e poi anche tutto il peso delle buste dei miei acquisti del fine settimana, tutto insieme al peso della bici, ero sfinito e le gambe non ce la facevano più. Ci siamo seduti alle poltrone di un bar all’aperto, con la piazza assolata piena zeppa di gente sorridente e la pinta in mano. Pochi metri più in là tre ragazzi giocavano a Jenga, questo gioco che si devono costruire delle torri coi mattoncini di legno e poi il primo che provoca il crollo della torre paga da bere a tutti. Questa cosa del pagare da bere era una regola aggiunta da loro, abbiamo scoperto in seguito. Lo abbiamo scoperto perchè quelli avevano notato che noi li stavamo spiando, e allora hanno avvicinato il tavolo alla nostra poltrona e ci hanno coinvolto nel gioco. Eravamo a giocare alle torri di legno in un bar di un paese straniero con tre sconosciuti. Un paio di giri di birre più tardi ci avevano invitato a casa di uno di loro, la casa del Ciccione Alto, per una cena a base di Sushi. Io non ci volevo andare, e la Signorina nemmeno ci voleva andare, ma questo lo avremmo scoperto solo il giorno dopo, quando io avrei detto: «Ma io non ci volevo andare, a casa di quelli!», con la Signorina che avrebbe subito risposto «E nemmeno io ci volevo andare, credevo ci volessi andare tu!».
Vabbè.
Il Ciccione Alto ospitava gli altri due nel suo monolocale: il suo amico Ciccione Biondo – in libera uscita grazie alla temporanea assenza delle moglie dall’Europa, e che a fine serata avremmo salutato mentre era addormentato sul divano – e il Ciccione Basso, che aveva imparato l’inglese grazie a cinque anni di lavoro a Londra e che per questo parlava velocissimo smozzicando le parole. Io al Ciccione Basso in due ore ho rivolto tanti Sì Sì alle sue battue ma ne ho comprese nemmeno il venti per cento. Aveva sto problema di ridere delle sue battute e di prodursi in espressioni facciali da talk show americano una dietro all’altra, che alla fine potevi solo dire Sì Sì, sperando di non fare figure di merda. Tre bravi ragazzi di trent’anni, ma con una insana passione per il Death Metal e la techno tedesca, musica prelibata che amavano ascoltare a volume massimo anche durante la cena. Il Ciccione Biondo, quello che si addormeterà poi sul divano, aveva incontrato sua moglie ad un concerto metal chissà dove. Tre bravi ragazzi, comunque, e qui si scopre la superiorità di un popolo dove è normale invitare a cena due sconosciuti conosciuti in un tavolino all’aperto, giocando a costruire torri con i mattoncini di legno. Tre bravi ragazzi, solo che la techno berlinese durante la cena proprio No, e nemmeno sta brutta abitudine di leccarsi rumorosamente le dita prima di avvolgere il sushi dentro i fogli di alga nera. In particolare questa cosa di leccarsi le dita preparando la cena, devo dire che proprio No.
L’altra sera – invece – mi sono trovato seduto al tavolo di un ristorante spagnolo, e c’avevo di fronte un sosia di Franco del famoso duo Franco e Ciccio che mi cantava i Gipsy King con la chitarra a quaranta centimetri dall’orecchio, producendo vibrati con la voce e occhi semichiusi come ci si aspetta da un cantante spagnolo in un ristorante spagnolo. Era ispiratissimo. Ad un certo punto si è aperta la porta del locale ed è entrata una sorta di Virgina Woolf di sessantacinque anni che danzando si è tolta sciarpa e cappotto ed ha cominciato a ballare freneticamente vicino a me e al Franco con la chitarra. Muoveva i fianchi sfidando il concetto di osteoporosi, ma confermando allo stesso tempo quello di demenza senile precoce. Io non mi vooevo permettere di ridere, e ho cercato di stare buono, però poi non ce l’ho fatta e ho cominciato a ridere piano, invece di esplodere, sempre piano ma in modo continuo, e quando è partita Volare in versione spagnola ho avuto anche qualche sussulto, però – in linee generali – posso dirmi abbastanza soddisfatto della mia capacità di autocontrollo.
ieri sera
Ieri sera una collega della mia etá mi spiegava che stava per comprare casa. Io fino all’altro ieri non ero capace di comprare nemmeno il dentifricio. Questo per dare un’idea delle distanze spazio-temporali-monetarie che mi trovo ad attraversare in questi mesi. Nel frattempo i quattro euri promessi dagli schiavisti, che qualche mese fa mi portarono a lavorare nei centri commerciali di notte, devono ancora arrivare. Qui certe volte penso che vorrei essere pagato pochissimo – in realtá sono pagato poco, ma arrivo a desiderare un ulteriore pochissimo – solo per poter mantenere la vita così com’è stata fino ad ora, in bilico fra il pomodoro che va a male e quindi va consumato per forza e la carta igienica riciclata. Tutta una poesia che potrebbe sparire dietro l’angolo, giá vedo la fine dietro l’angolo, fra promesse di miglioramenti e crescite professionali e pacche sulle spalle per il buon lavoro.
Il gallo che ipnotizzavo ogni mattina nel frattempo è morto, un gatto rosso selvatico lo ha sbranato qui vicino. La collega che piu’ si era affezionata a lui ha preso un giorno di malattia per piangere a casa. I pavoni sono difficili da ipnotizzare, invece. I pavoni in generale sono animali noiosi, urlano per la stagione dell’amore e fanno la ruota, per colpa del sole di primavera si incazzano anche con le pietre.
Ieri pomeriggio calciando una punzione nel giardino dell’ufficio ho perso l’equilibrio ed ho rischiato di fracassarmi la testa contro il muro. Una delle poche volte che mi sono visto giá morto. Tutta la vita da questo momento in avanti è praticamente regalata. Oppure – come credono alcuni devoti della religione dello SlidingDoors – il blog prosegue la sua programmazione in una realtá parallela, perchè nella realtá precedente sono morto facendo goal in una porta in giardino ricavata fra lo spazio di due biciclette parcheggiate.
breaking new (s)
Numero uno.
Il ragazzo che mi ha lasciato la camera in questa casa? Quello di cui tanto ho parlato bene? Quello che avevo detto che era il ragazzo perfetto per ogni ragazza? Quello che avevo detto che bla bla bla? E’ gay.
Ed io che dicevo che non era gay. E invece è gay. Me lo hanno confermato i conquilini tutti in coro dopo una cena a base di pancake alla banana. Pancake alla banana, che poi uno dice l’importanza dei simboli premonitori. E i miei coinquilini che se la ridono dicendomi Pensa Cosa E’ Successo in Quel Letto! (ah ah ah ah) e poi, appena le risate si smorzano: Pensa Cosa E’ Successo in Quella Doccia! (ah ah ah ah). Che grasse risate, eh? Maledetti.
Numero due.
La coinquilina Fiocco di Neve, la ragazzina bionda e delicata di qualche post fa? Indovina indovinello? E’ gay. La sua ragazza è praticamente un rinoceronte, però femmina. Si vogliono bene, abusano di budini alla fragola e di telefilm americani. Vorrei fare notare l’elevatissima percentuale, due su otto, siamo al venticinque per cento. Un partito di governo, in pratica.
Numero tre:
non ho capito se il cespuglio è obbligatorio oppure No, comunque pare che dal prossimo autunno da queste parti la libertà diventerà ancora più libertà.
Signore abbi pietà di noi miseri peccatori.
Abbi? Abbi, abbi.
apritemi l'audio con la casa
Ad oggi non ho ben chiaro in mente quali siano i veri conquilini di questa casa. So che sono sette, e alcuni di loro li ho già incontrati più volte. Molto spesso ci sono ospiti, e questo rende tutto più confuso. Nella camera di fianco alla mia vive l’Equina, e l’Equina la conosco bene perchè condividiamo cesso e doccia. L’Equina vive in simbiosi con un tizio bassino con i capelli drizzati verso l’alto, che forse vive qui e forse No, e che usa il water in stile Rudy l’Ivoriano. Per andare sul sicuro, ogni volta che incontro qualcuno nei corridoi mi presento, dico il mio nome e poi chiedo se anche lui/lei vive qui. Ciao! Vivi qui? No, perchè io vivo qui. Ciao! Chi sei? Io vivo qui e tu?
L’altro giorno Fiocco di Neve, che è un’altra coinquilina minuta e delicata, aveva invitato degli amici per una cena, ed io mi sono presentato a tutti chiedendo se anche loro vivevano qui, quando poi io ero l’unico tra di loro che effettivamente vive qui. Gli amici di Fiocco di Neve – si parlerà anche di Fiocco di Neve quando si avranno ulteriori elementi – sono quattro femminucce magre e secche e timide, più un armadio di carne che è certamente il fratello bianco di Lenny Kravitz. Quattro Olivie di Braccio di Ferro e un Lenny Kravitz, per capirci.
Ieri un gattone bianco ha cercato di entrare dalla finestra. Oggi ho acceso la tv e ho trovato Raiuno. Poco fa in salotto ho stretto la mano ad un tizio ricciuto e simpatico che non aveva la mano.
Sul tavolo della cucina c’è sempre una tazzona ripiena di impasto per fare le torte. Questa tazzona è lì ogni giorno. La procedura è fare l’impasto per la torta, separarne una piccola parte e con la parte maggiore si fa la torta. La piccola parte che rimane la si regala ad un amico, che la userà per mescolarla ad un nuovo impasto. Dal nuovo impasto si farà una nuova torta, ma una piccola parte sarà regalata ad un altro, che farà la stessa cosa. Questa – mi hanno spiegato – viene chiamata la Torta dell’Amicizia, e la Torta dell’Amicizia certe volte la sera emana puzzette lievi che comunque si mescolano agli altri odori della casa.
Tanta gente, insomma. Forse compilero’ gli identikit di ciascun personaggio, per avere una guida pronta da consultare. Per adesso, soltanto la sigla è sicura.