sono sullo scoglio

Sono sullo scoglio ad un metro dal mare. Un gennaio gentilmente offerto dal globalwarming, con il sole e 15 gradi.

Penso che il mio invecchiamento consisterà nel ripetere sempre le stesse cose: nel pensarle, e quindi nello scriverle qui. Ripetere sempre le stesse cose come fa mia nonna: non vuol dire aver perso la lucidità, vuol dire semplicemente ripeterle continuamente perché ne hai voglia, perché sei affezionato a certi concetti – a certi ricordi, nel caso di mia nonna.

Fossi rimasto sempre a vivere qui, a pochi metri dal mare verde e i 15 gradi di gennaio, come sarebbe stato. E’ una domanda senza punto interrogativo. Immagino più o meno tutto: privilegi e frustrazioni, una casa dalla metratura decente e qualcuno che mi ringhia di sposarla. Mia nonna mi mette in guardia: sì beddhru, attento che in giro ci sono quelle che ti rubano.

Mi bagno la faccia con acqua di mare che poi lascio asciugare sulla pelle.

Fossi rimasto come sarebbe stato. Ripetere la stessa cosa significa rispondersi che non ha senso farsi la domanda. Quando una decisione esclude l’altra, allora entrambe le opzioni saranno sempre leggermente sbagliate, e dunque proprio per questo, ognuna sarà quella giusta. Quindi la decisione giusta è sempre quella che hai preso, in qualunque caso. Non devi chiederti se hai sterzato correttamente, devi premere l’acceleratore e goderti il paesaggio.

Questo appena descritto è uno di quei pensieri che ripeterò, in altre forme, in altri momenti, magari ad un certo punto, perfino contraddicendomi.

due cose sul “choosy”

Due cose veloci sulla frase della Fornero e i giovani che sarebbero “choosy” ossia esigenti nella scelta del primo lavoro. Molto di contorno, ché sul tema ci sono tornato spesso – e figuriamoci se non ci torno ancora.

– Lavoro in inglese da cinque anni. Studio in inglese da più tempo. Biliardi di conversazioni coi madrelingua. Io choosy non l’avevo mai sentito. Mai.

– Molto poco rilevante la polemica di quelli che dicono che loro non sono choosy. E ti spiegano perché non sono choosy. E ti fanno la lista delle umiliazioni subite.

Ecco, se non siete choosy, perché avete accettato perfino di pulire le cacchine di colibrì allo zoo, perché fate gli impacchettatori di caramelle per la tosse: benissimo, non ce l’ha con voi.

Dunque non c’è bisogno di sentirsi offesi. Dunque non c’è bisogno di protestare a meno che non crediate che il problema dell’essere choosy non esista affatto, voglio dire, in generale.

Il problema, se vi fermate un momento e ragionate, è storico, nel senso che se ad un periodo di benessere segue un periodo di recessione, è ovvio che i pargoli cresciuti in contesti di medio benessere poi si debbano trovare spiazzati dall’improvvisa povertà circostante.  E che debbano resettare la mente ricalibrandola sul concetto di sopravvivenza.

Ci sono quelli che lo capiscono e lo fanno. E poi ci sono altri che vivono ancora in un mondo che non esiste (più). Per questi ultimi, il concetto di choosy, se fosse tradotto adeguatamente, può solo fare del bene.

vivere in un posto che ci sei arrivato già grande

Vivere in un posto che ci sei arrivato già grande significa che le persone che cominci a conoscere, non le conoscevi quando loro erano più giovani. Le conosci direttamente con l’età che c’hanno. Quando li guardi in faccia – come invece succede con gli amici del paesello – non ci puoi sovrapporre l’immagine di quando erano più giovani. Non puoi. Tu non c’eri. Neanche loro. C’era qualcun’altro. E allora siccome non puoi sovrapporre l’immagine di loro versione più giovane, ti rendi conto che pure tu potresti dare quell’impressione. L’impressione che ti stanno dando a te. Di sembrare così incredibilmente “cresciuto”. Ti preoccupi. Solo che poi ti guardi allo specchio, e quello dentro lo specchio è la persona che conosci da più tempo in assoluto, e proprio a lui, hai voglia a sovrapporre, non finiresti mai. Non so se mi spiego.

paura per i giovani d'oggi

Dici: è solo una pubblicità, lascia perdere. Sì però se la mandano, vuol dire che funziona. Vuol dire che i ragazzini poi ci si identificano. Dice: ma tu da dove sei guardi la tv italiana? No, è che metto su Blob mentre durante la cena. E prima del filmato ci mettono qualche pubblicità, e di solito c’è questa. Paura.

update

comunque non tutto e’ perduto. Basta dare uno sguardo ai commenti del video. Fra tutti, il migliore:

io mi chiamo fiammetta
aaah ecco xke sento caldo
…no testa di caxxo, è x via della sciarpa in piena estate…

portare me stesso

Portare me stesso al concerto di Roy Paci in un parco di Amsterdam una domenica pomeriggio che profuma di barbecue e di vento e di sedile di treno, e vedere un Roy Paci saltellante con gli occhi allegri da italiano in gita e la corporatura panciottosa proprio come ci si aspetta debba essere un italiano – addirittura urla dal microfono un “are you TirEd?” dando notevole importanza a tutte le vocali, tutte – ecco, tutto questo nel 2009 da emigrante all’ estero é come se negli anni 60, ma pure 70, fossi andato coi baffoni e i basettoni ad un concerto di Mino Reitano in una birreria di Francoforte. Scoprire che nel gruppo ci suona il tuo amico del paesello che dodici anni fa ci suonavi assieme, e vedere che lui ancora suona e gira il mondo cosi’, non ha prezzo. Non é vero: ha un prezzo. Il prezzo da pagare é quello per cui ti chiedi cosa significherebbe per te fare solo quello ti piace fare, e il misurare il coraggio che ti manca, eccetera eccetera, eccetera eccetera che tanto é inutile soffermarsi su sta cosa é la solita domanda che arriva, poi se ne va, ma poi torna.

update: Toh! contributo video.

uscendo dal parcheggio

Uscendo dal parcheggio del lavoro ho incrociato un tizio in sedia a rotelle che con la testa piegata di lato guidava la sedia mediante un sensore infilato in bocca. Tipo con la lingua, credo, ma non mi sono fermato a chiedere spiegazioni. Qui intorno si vedono tante carrozzine spinte da infermieri che traportano vecchissimi a fare un giro sotto gli alberi. I vecchissimi, molto spesso, dormono per tutto il tragitto del viaggio. Stamattina ho ucciso un centinaio di moscerini che mi hanno assalito sulla scrivania. Minuscoli e fastidiosissimi, ho provato prima con le dita, poi ho trovato un sistema comodissimo con un pezzo di scotch usato come carta moschicida mobile. Da un paio di settimane –saranno tutte ste carrozzine, saranno particolari malori che mi affliggono da qualche tempo – penso che potrei morire all’improvviso. E se dovesse succedere, se non fosse che sono morto, non me ne meraviglierei affatto (questa è complessa). Però oggi c’è il sole e nonsotante i moscerini non mi sembra un giorno accettabile per morire. Ma la morte è comunque un punto di vista, tu puoi parlare di tutto ma se poi ci includi la possibilitá della morte hai un nuovo punto di vista. Per esempio ho detto alla Signorina, non aspirare i ragni che ti infestano la casa con l’aspirapolvere, piuttosto schiacciali con i piedi, che con l’aspirapolvere non è detto che muoiano subito e poi gli fai fare la fine dei fratellini di Gravina. Lei ride ma io mica dico per scherzare.

Per chi fosse interessata, una fugace apparizione del Cuggino Rasta pronto per la firma degli autografi.

tutta la vita davanti

Io sono un cinefilo distratto – purtroppo – e i film mi passano accanto mentre sono distratto, oppure succede che li vedo e poi li dimentico. Detto questo, in questi giorni ho letto qualche recensione molto positiva sul nuovo film di Paolo Virzì (Tutta la vita davanti) e sto Paolo Virzì mi comincia ad essere pure simpatico: ho ascoltato qualche intervista, ho letto qualcosa qua e la’. Davvero una persona gradevole, sto regista Virzì. Il film non l’ho ancora visto (aspetto che venga messo in groppa, ehm, diciamo così, al mulo) ma già da ora mi sovvengono tutta una serie di considerazioni.     

Ora, il film parla di precari laureati col massimo dei voti che finiscono a lavorare in un call center. Questa figura del “laureato precario impiegato nel call center” è ormai una figura costante di libri e film e canzoni e opere teatrali dell’Italia duemilesca. Non è certo una novita’. C’è la velina, il partecipante al GF e il precario del call center. È giusto che se ne parli perchè si tratta di cose vere, di problemi reali. Quindi va bene, parliamone. Parliamone, facciamo i dibattiti, scriviamo i saggi, andiamo a vedere i film e poi usciamo dal cinema piú o meno incazzati o emozionati.      

Però, cerchiamo di metterci d’accordo su di una cosa: qual’è il messaggio?     

Voglio dire, si intuisce che nella figura del “laureato precario operatore di call center” ci sia un qualcosa di negativo. Su questo sono tutti d’accordo. Ma cerchiamo di capire precisamente cosa c’è negativo. Il negativo è legato al fatto di lavorare in un call center? Forse. Ma insomma, i call center esistono e qualcuno dovra’ pure lavorarci dentro, no? Mica possiamo bombardare i call center solo perchè è un brutto lavoro. Anche i call center hanno diritto di esistere.          

E allora? Il negativo è essere laureati? Non credo, la gente studia per anni per poter dire che c’ha la laurea. Non è certamente una cosa negativa in termini assoluti.        

Dunque ne risulta che il negativo sta nella somma laureato+call center. È questo che non va bene. Da cui ne deriva il messaggio implicito che il laureato “dovrebbe” essere da un’altra parte, ma non nel call center. E di chi è la colpa se il laureato va a finire nel call center?     

Di chi è la colpa?          

Questo punto divide me stesso dal resto dell’umanità. Quando si parla di laureato nel call center, generalmente si punta il dito contro qualcuno/qualcosa che non si capisce bene chi sia. Lo stato? La società? Il mondo di oggi? Mastella? La fame nel mondo? La globalizzazione? Facciamo il film su questi benedetti laureati nel call center, scriviamo gli articoli, cantiamo le canzoni: a chi è rivolta l’accusa?           

Voglio dire: io lo sapevo che con la mia laurea potevo fare ben poco, e me ne sono andato. Ma per il resto, se l’Università continua a sfornare centinaia di sociologi e scienziati politici, migliaia di comunicatori e letterati, poi questi dove li mettiamo? In un Paese in declino verso la povertà, dove li mettiamo? I primi dieci scienziati della comunicazione riusciamo a sistemarli, i primi mille ce la facciamo ancora, ma poi? E se diventano duemila? E se poi sono tremila? E se poi arrivano a cinquemila? A quale cifra possiamo dire che la colpa è (forse) del laureato?             

Io – per quanto mi riguarda – mi sono preso la mia parte di colpa. La vado a recitare in giro, la mia colpa, le mie scelte sbagliate. Ho fatto due palle così alle persone che mi conoscono. Adesso sono qui, e cerco di venirne a capo. Ogni anno ne escono mille con la mia stessa laurea, e mille sono troppi, e per questo motivo il lavoro non c’è. Ma gli altri? Finiscono a lavorare nei call center, o a contare scatole di pelati di notte nei supermarket, ma se le cose stanno così di chi è la colpa? Del governo ladro? Il laureato in giurisprudenza numero cinquantamila della lista dell’anno duemilaeotto, fino a che punto – e su quali basi – può davvero inscenare un piagnisteo?

ma quante lavatrici

Ma quante lavatrici avrò caricato da quando vivo qui? Non lo so, migliaia? Migliaia. 

Poi il senso di precarietà e di stare andando via lo avverti quando caricando la lavatrice per l’ultima volta calcoli se i pantaloni ce la faranno ad asciugarsi prima di doverli mettere in valigia. Ma quante volte avrò messo ad asciugare i pantaloni da quando sono arrivato in questa casa? Non lo so, migliaia? Migliaia.   

Avevo 19 anni. 

Devi averci il sangue freddo – ma davvero freddo – a svuotare i cassetti ripieni di carte e fotografie e cartoline e elastici per capelli e monete da 100 lire. Serve la freddezza del killer a decidere cosa buttare e cosa No, e nei primi momenti continuare a pensare Questo No, Questo No, Questo No, per poi capire che non puoi andare avanti così, e fare un grosso mucchio – tappare il naso della tua coscienza sentimentale – e gettare tutto nella spazzatura.

Qui si gettano cose ingiallite nella spazzatura. 

E con il coinquilino Billigiò, aver vissuto otto anni insieme, finisce che una persona la riconosci dal rumore dei passi, come i cani. Se ci pensi in otto anni fai in tempo a far nascere un bambino e farlo crescere fino all’età in cui potrebbe addirittura essere capace di leggere queste righe.  

Vabbè, non proprio queste righe – che queste mie righe non le capisco nemmeno io – ma diciamo in generale delle righe qualsiasi. 

Questo mood da omelia di funerale finirà presto, abbiate pazienza.

se ne va

Se ne va il grande giornalista Enzo Biagi e giustamente tutti ne piangono la scomparsa. Scompare un bravo signore coi capelli bianchi che conosci da quando sei nato e, cacchio, ti dispiace. Uno non è che si fa domande Era un Maesto, Non lo Era, uno si dispiace come quando vieni a sapere che è morta quell’amica di tua nonna che veniva a casa portandoti il tegamino con un po’ delle cicorie che aveva cucinato per se stessa.    

Poi il coinquilino Billigiò, con il cinismo che lo contraddistingue, alla notizia del malore se ne esce blaterando che sti personaggi devono proprio morire per uscire dalla scena. Tu che davanti a ste parole vuoi fare il democristiano che mette d’accordo tutti – e magari vorresti contraddirlo – ti rendi conto che comunque qualcosa non va, se davvero qui stiamo attaccati ai nonnetti fino a quando non schiattano. E non è neanche colpa loro, se sono ancora lì che lavorano con la prostata ipertrofica, la colpa semmai è di chi si fida esclusivamente dei capelli bianchi e delle rughe scavate dei Pieri Angela e dei Pippi Baudi. Che si fa presto a dire C’Hai Trent’anni Sei un Bamboccione, se poi alla tivvù i presentatori c’hanno la dentiera e i tuoi professori dell’università vanno in pensione a trecento anni e c’hanno gli assistenti con l’osteoporosi.    

Che questa iconografia del matusalemme ci accompagna sempre e ci rassicura, porca miseria, al punto che inizi a far confusione. Un giorno uscendo di fretta dal bagno della facoltà mi trovai all’improvviso di fronte alla grandissima Rita Levi Montalcini, e davvero la salutai con un Uei Ciao! come si usa fra compari, credendo per un istante di trovarmi di fronte ad una vecchia zia/conoscente del paesello di cui non ricordavi il nome. E per fortuna che la Rita Levi – con tutto il rispetto che tutti noi portiamo nei confronti del suo capoccione da premio nobel – già al tempo era mezza cieca e non si accorse di nulla. 

L’uomo, qualche volta, è come le scimmie: ha il gusto dell’imitazione.
(E.Biagi)