un videogioco

Da qualche anno per motivi familiari trascorro il periodo natalizio in un videogioco.

In teoria si tratterebbe di un luogo reale situato nella Grecia continentale appena al di sotto della Bulgaria e non troppo lontano dalla Turchia – e le influenze culturali di entrambi i paesi – una Grecia lontana dalle immagini delle cartoline con le casette bianche e le finestre in legno verniciate di blu.

Una Grecia lontana dallo stereotipo che ho deciso sia un videogioco. Ai bordi delle strade della prima periferia si accumulano carcasse di veicoli abbandonati, case semidiroccate, pensiline di autobus arrugginite appena di fianco a bar scintillanti e villette curate. Siamo ai confini estremi dell’Europa quando io che credevo i confini dell’Europa fossero quelli del mio paesello, con paesaggi, riti, forme del cranio, religioni e sgarrupamenti estetici balcanici che presi tutti assieme suggerirebbero che sei fuori dall’Europa, non fosse che geograficamente ci sei ancora dentro e che la moneta e’ ancora l’Euro – moneta che peraltro circola tantissimo.

Esistono due livelli di distanza con i personaggi che si muovono in questo ambiente: una lingua per me ancora largamente sconosciuta e la mancanza di argomenti di conversazione. A causa di questi due livelli di distanza sono giunto alla conclusione che le figure umane attorno a me sono solo degli avatar, esattamente come quelli di un videogioco, con i quali puoi interagire ad un livello molto superficiale ma restano comunque degli avatar. Osservo gli avatar mentre guidano scooter diroccati, senza casco esattamente come nei videogiochi, e che poi parcheggiano di fronte ad una delle sale scommesse di cui e’ infestata la strada principale del paesino, uno dei tanti passatempi dopaminici assieme alla nicotina per gli uomini ed ai programmi televisivi sensazionalistici per le donne.

Arrivati a questo punto della descrizione si potrebbe supporre che sono disperato per questo mio ciclico esilio natalizio: e invece No.

Gli ultimi giorni dell’anno sono diventati una vera vacanza dal mondo: trovo finalmente il tempo per letture, scritture ed epiche camminate ai piedi dei monti, anche se un paio di volte ho rischiato di essere sbranato da un branco di cani randagi. L’enorme tempo a disposizione e la mancanza di obblighi sociali mi permette ricerche e scoperte e di leggere tutto il leggibile su qualsiasi argomento – tipo scoprire la camminata nordica – oppure avere il lusso di non fare assolutamente nulla e attendere l’anno nuovo immobile all’interno di una crisalide dalla quale pero’ poi sbuca fuori piu’ o meno il bruco dell’anno prima, solo un piu’ riposato. In tutto questo, come fossero radiazioni da pianeti lontani, leggo i meme su internet sugli estenuanti cenoni e le frenesie dei regali e su cosa fare a capodanno.

Nei videogiochi sei sempre il protagonista e tutto parla di te.

E infatti mi trovo in una zona dell’Europa dove per motivi a me oscuri esiste un’ammirazione inspiegabile ed esagerata per qualsiasi cosa italiana anche se qui gli italiani non esistono, non hanno motivo di esserci: e’ l’unico posto al mondo dove non ne ho mai incontrato uno e quando spiego che io sono italiano non sembrano crederci veramente. I nomi degli esercizi commerciali o dei brand sono spesso in italiano: a volte hanno senso, a volte meno, come un negozio di vestiti per signore chiamato ‘Paranoia’, un set di valigie dal brand  ‘Artisti Italiani’ (come se in un supermercato italiano si trovassero dei salami italiani brandizzati chesso’, ‘filosofi greci’) o nomi eccessivamente didascalici come ‘Scarpini per Bambini’ per un posto che vende, appunto, scarpe per bambini, e dove ogni volta immagino di entrare solo per spiegare col ditino sollevato: eccomi qua, ebbeneSi’, sono italiano, e lo sapete che da noi gli ‘scarpini’ sono quelli da calcio, non le scarpe piccole per… ma poi lascio perdere, perche’ mica ti metti a discutere con degli avatar, giusto?

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