al piano di sopra

Al piano di sopra vive un infermiere gay libanese – ne ho già scritto – che fino al 2001 per colpa di suo padre politico importante libanese non aveva mai indossato un paio di jeans (libanesi, a sto punto). Uno che dichiara che lui non mangia quando è da solo, che per la tristezza preferisce saltare il pasto, e te lo dice stringendoti la coscia e confermandoti (casomai non l'avessi capito) che sei tanto tanto sweet. Ha due amici libanesi probabilmente altrettanto gay, e un armadio umano francese e ciccioso lui certamente gayissimo.

 

L'unica volta che sono stato a casa loro l'ho salutato (l'armadio) e poi non ci ho parlato più. Un armadio di carne bianchiccia e le tempie sudate e i polpacci enormi. Sono sempre stupito dalla gente con i polpacci enormi, saranno le mie gambe magre che mi fanno sembrare alieni tutti gli altri. L'ho ascoltato raccontare le differenze regionali della lingua araba in Nord Africa, e sul fatto che tali differenze si acuiscono se si parla di cibo. Poi niente più. Mai più visto, mai più sentito. Per settimane.

 

Poi stamattina trovo un biglietto infilato sotto la porta. Dice:

 

“Ciao, sono il ragazzo francese che hai conosciuto a casa di <nome dell'infermiere>. Lascio la sua casa, vado a vivere con degli italiani. Quindi se vuoi, ci possiamo sentire. Ti lascio il mio numero.”

 

Ed io che, a proposito di francesi, speravo di svegliarmi invece nel 1976, e di trovare sotto la porta un biglietto di Aurore Clément com'era nel 1976 in Caro Michele di Monicelli – c'è solo una foto disponibile e non rende neanche l'idea.

 

Ultimamente se resto in casa c'è il sole, se esco piove.

 

Oggi sono uscito, ho presto tantissima acqua. Però ho visto un re (cit).  

so this is christmas

In questo momento è andata via la luce. Scrivo al buio affondato in un enorme letto pieno di cuscini rosa. E bianchi. L’annuncio su internet diceva che la stanza è arredata in stile 1890-1914. Cioè, in altre parole, anteguerra. Io non c’ero a quei tempi quindi non posso confermare. Un bambino che non mi conosce piagnucola al piano di sotto. Ne sento la voce attraverso il pavimento. Quando nella neve di questi giorni in Paese Basso la mia scarpa si è bucata, facendo quindi bagnare il mio piede in continuazione, avrei dovuto prenderlo come avvertimento, invece ho ignorato la cosa. Oggi sarebbero dovute cominciare le mie vacanze di Natale dell’anno 2009, ma la strada dal Paese Basso all’aeroporto di Charleroi in Belgio è stata troppo lunga e lenta, sono arrivato troppo tardi e ho perso l’aereo. Allora mi sono incazzato per circa due minuti, poi ho preso una camera nella periferia di sta cittadina della Vallonia, ché una notte in Vallonia alla fine è pur sempre vacanza. Il bambino mi pare di capire non è un bambino, sono invece due bambini, e giocano dietro la mia porta. Se esco si spaventeranno? Saranno abituati agli estranei che affittano le camere dei genitori? La madre mi ha detto – aveva un enorme neo sul mento che mi distraeva mentre parlava, ed era molto gentile – che se entro a casa devo suonare una campanella per far capire a tutti che sono arrivato. Ho pure una vasca da bagno enorme che mi guarda dal letto. Devo metterci una foto per rendere l’idea. Fuori ci sono meno dieci gradi e il mondo è lastricato di ghiaccio. Non posso andare in giro a fare una passeggiata per via della mia scarpa bucata. Avevo un altro paio di scarpe ma sono più affezionato a queste. Farò un bagno nella vasca – da quant’è che non faccio un bagno in una vasca? Saranno tipo sei anni.

così tanta pioggia

Così tanta pioggia e vento ieri sera mentre uscivo dal mio studiolo nell’universita’ e cercavo di raggiungere la macchina, cosi’ tante avversita’ una dietro l’altra – la pioggia laterale, il vento che fischiava fortissimo, l’ombrello che si rivoltata dall’altra parte come nei film, l’autobus che passa e ti schizza, un fiume che si forma all’improvviso dove prima non esisteva e che lo devi saltare senza scivolare nel letto di foglie marce, l’ombrello che ti scappa di mano e comincia a rotolare trascinato dal vento in un pozzanghera enorme – tutte queste cose insieme, quando sono arrivato finalmente alla macchina mi aspettavo di trovarci il mostro finale, quello che nei videogiochi anni 80 e 90 dovevi uccidere per passare al quadro successivo.

esco per strada a prendere un po' di aria

Esco per strada a prendere un po’ di aria, ché la mia camera è un buco, eppoi mi piace questo paesaggio che ho appena dietro la porta di casa: un lungo prato verde a dividere i due lati della strada e poi alti alberi che dall’alto della mia finestra vedo agitarsi al vento – e le foglie gialle, le foglie gialle che mi piacciono, ce ne sono anche adesso che non è autunno.

Esco per strada per prendere un po’ di aria e appena richiudo la porta dietro di me penso: le chiavi? Mi palpo i pantaloni e mi dico: le chiavi? Accavallo entrambi gli avambracci sulla sommità del mio cranio e mi ripeto: e le chiavi? Suono il campanello, ma lo so che non c’è nessuno. La padrona di casa a volte non torna per giorni. I cinesi e i filippini sono tutti andati via. Per una volta che mi sarebbero serviti…Ho un telefono in tasca, con il credito…? La vocina dice thirty-two cents. Benissimo. Chiamo la padrona di casa, le mando un SMS. Non ho il suo numero. Benissimo. Mi tocco di nuovo i pantaloni: le chiavi? Che faccio? Prendo il treno e vado a casa della Meisje? Non ho i soldi per il biglietto, e neanche i documenti. Be’, se mi arrestassero potrei trascorrere la notte al caldo, no? Meglio di No.

Il vicino di casa aveva letto un giorno la mia targa italiana e mi aveva salutato con un “Buongiorno!”. Che trascorreva tutte le estati a Riccione e un poco di italiano lo sapeva pure lui, ormai. Ho citofonato, mi ha aperto,mi ha riconosciuto, siamo andati insieme da suo fratello due case più in là.
Suo fratello aveva un neonato in mano che ha posato da qualche parte, ha aperto il suo camioncino di lavoro ed ha tirato fuori una scala. Una bellissima scala. Sulla scala sono salito io, e poi intrepido mi sono infilato nella finestra lasciata aperta della mia padrona di casa, ho visto il suo materasso posato direttamente sul pavimento, e la mancanza di libri lì attorno – sempre convinto, io, che ci debbano per forza essere dei libri attorno al letto, come le forchette attorno al piatto – e sono entrato in casa. Ho salutato la folla giù al marciapiede, donne e uomini e pure la neonata, e li ho ringraziati: avrei rischiato di dormire in strada, stanotte. E il barbaro-zio della neonata che mi dice Mannoòò, avresti dormito a casa mia.

Due giorni dopo la mia padrona di casa si presenta mentre apro il frigorifero e mi fa:
“Tu ogni tanto mangi certe insalate già pronte…”
“ Già”
“ Mi serve la confezione di plastica che hanno queste insalate, potresti perfavore ricordarti di..”
“Sì sì certo, te la lascio qui. Domani.”
“Perfetto, devo fare degli esperimenti”
“Aha”
“Vabè. Ciao”
“Ciao”

Ho visto il tuo materasso, pensavo, l’ho visto. Adesso mi dice che lo sa. Adesso me lo dice. Adesso mi dice, ho le prove che tu eccetera eccetera, sai la privacy, eccetera eccetera. Adesso me lo dice.
Non me lo ha detto, poi.

che il signore li abbia in gloria

Questo viaggio ha inizio nella fornitissima libreria dell’Aereoporto di Brindisi, dove il sottoscritto prende in mano un libro ancora non letto di Amélie Nothomb, autrice belga, e invece di portarselo via come avrebbe fatto negli anni passati, decide di lasciarlo al suo posto. Questo smacco al Belgio verrà poi pagato nel seguito di questa storia. Una troupe televisiva intanto cerca qualcuno da intervistare riguardo ai disguidi aerei del giorno prima, io dico che No, non ho niente di cui lamentarmi (ancora non sapevo).             

Che poi, questa storia comincia in realtà a Barcellona, dove l’aereo che mi avrebbe riportato a Parigi (e da lì in treno fino in Paese Basso) va a scontrarsi con un muletto porta bagagli. Niente aereo Myair quindi (Sì, diciamolo, Myair, che poi se vogliono querelano). Al suo posto, si presenta un anonimo aeroplanino tutto bianco, che poi si scopre essere aeroplanino moldavo. E munito di personale di bordo anch’esso moldavo. Il personale di bordo (Myair, se non è vero querelami) è costituito da uomini vestiti alla bavarese e chiaramente incinti, una palla sferica al di sotto della camicia. L’aereo, sgarrupatissimo, non riesce neanche a trasmettere le comunicazioni attraverso gli altoparlanti, che la voce va e viene. Tranquillità e fatalismo nei sedili sgarrupati, traducendo a caso le pubblicità moldave per ingannare la paura. Al posto delle solite pizzette e coca cole, vengono distribuiti bicchieri di plastica e acqua direttamente dalla bottiglia, ovviamente aggratis. Robe d’altri tempi, o anche – se vogliamo – robe da sequestro di ostaggi in banca.          

Arriviamo a Parigi con due ore di ritardo, io che smadonno dentro di me – ho un treno per il Paese Basso che non devo perdere – ma poi gli smadonnamenti diventano inutili quando non vedo arrivare il mio bagaglio, e capisco che non solo il treno è palesemente perso, ma pure il bagaglio è anch’esso perso; il mio autcontrollo invece No, nonostante mi trovi nel mezzo dell’Europa privo di ricambio di mutande. La signora dell’ufficio bagagli arringa la folla inferocita, squittendo in francese. Io mi avvicino e le chiedo qualcosa in inglese, lei strabuzza gli occhi e vomita parole a caso. Non parla inglese. Io vorrei prenderla per le orecchie come il manubrio di una motocicletta e urlarle che Cazzo, non si può lavorare in un aereoporto internazionale, e non sapere l’inglese. Sta cosa mi irrita, lo ammetto, e vorrei davvero tenerla per le orecchie, così per fare, e recitarle il Sabato del Villaggio nell’italiano arcaico di Leopardi tanto per fare, perchè se lei si ostina a dire Oui Oui allora perchè io non posso dirle che «I fanciulli gridando/su la piazzuola in frotta,/e qua e là saltando,/ fanno un lieto romore;/e intanto riede alla sua parca mensa,/fischiando, il zappatore »?   

Lascio perdere, e mi precipito scapicollandomi alla stazione dei treni. Nella metro che porta in stazione, un fisarmonicista suona La vie en Rose e a me viene da ridere, nonostante un termolìo della palpebra che vorrebbe dirmi qualcosa di diverso.

In stazione mi fanno notare che il mio biglietto per il Paese Basso, a quell’ora, posso anche usarlo per fare un aeroplanino. Ne compro un altro, allora,  dico io. Niente treni a quest’ora, mi dicono. Niente treni!?! Niente, mi dice la Maria Maddalena della biglietteria, e tra l’altro, se ne vuoi uno fino a Bruxelles dimmelo ora, che io chiudo fra quattro minuti, altrimenti Taci Per Sempre. Aspetta, fammi pensare, dico io. Tre, dice lei. Tre cosa? Tre minuti. Dammi sto cazzo di biglietto. Tra parentesi, un’ora e ventitre di viaggio per modici novanta euro.  

Nel treno scopro la superiorità delle Ferrovie dell Stato italiane che almeno hanno inventato quei portelloni a scorrimento per i cessi. In questo treno da novanta euro per ottanta minuti di viaggio (quasi un euro al minuto, se ci pensi) le porte si chiudono all’interno, così poi succede che se c’hai uno zaino sulle spalle, puoi anche pisciare, ma poi ti devi rassegnare a trascorrere il resto della tua vita incastrato lì dentro.           

A Bruxelles ci sono meno nove gradi, e una volta giunto lì chiamo amico compare che pratica la sua avvocatura da quelle parti.Gli spiego la cosa nel metodo più scarno possibile. Sono ostaggio di forze avverse in paesi stranieri, gli dico, e non so dove andare. Lui, gentilissimo, mi dice che mi verrà a prendere volentieri in stazione. Io che mi porto una sfiga addosso che ormai credo sia diventata visibile pure ai passanti, scopro in seguito che l’ho chiamato nel mezzo di una litigata con la sua ragazza. Io non so cosa dire, penso solo ai meno nove gradi di Bruxelles. Gli dico che evidentemente è colpa mia, di sta nuvola di cacca che mi segue dal Salento. Ho visto per la prima volta la sede della Commissione Europea, comunque. Spero che emanino regole condivise sulla portellatura dei cessi di treno, perlomeno, in futuro.              

Sono riuscito ad arrivare a casa verso le due del pomeriggio, oggi, dopo un viaggio di ventisei ore. C’era il sole. Ho sbagliato pure l’ultimo treno, estasiato dal sole, quando ero a due chilometri da casa. Alla fine tutto sto casino, è vero che palle, ma c’era comunque il sole. Amelie Nothomb la comprerò sempre, prometto. Mi portavo appresso invece “Brothers” di Yu Hua e l’ultimo di Paolo Villaggio. Ed il Corriere, che a comprarlo all’esterno non solo costa il doppio, ma macchia pure le mani. E poi non penserò che i musicisti da metropolitana danno fastidio. Anzi, certe volte fanno pure ridere, senza motivo.

mantenere la concentrazione

Ho un nuovo paio di jeans che se mi metto le mani in tasca e spingo nelle tasche, mi si apre la cerniera sul davanti. Siccome se parlo o ascolto mi perdo in me stesso e non penso a quello che faccio, succede che invece di parlare e ascoltare sto attento a non spingere nelle tasche, così la cerniera non si apre ma intanto non ho capito nulla di quello che mi viene detto.  

Poi invece poco fa salgo in cucina, e come succede spesso in questa casa portodimare, incontro qualcuno che non conosco, e come ogni volta dico Ahi, oppure Ehi, e cominciamo a parlare. Stavolta dovevo lavare numero un piatto e numero una forchetta nel lavandino, ma nel frattempo parlavo con una ragazza mai vista prima, che parlava giuliva e mi spiegava della sua scivolata in bicicletta sul ghiaccio (siamo in Olanda, e fa freddo) e dei supermercati in Perù che non è come qui, lì sono aperti fino a tardi. Il collegamento fra scivolata e Perù l’ho perso a causa delle sue orecchie, due orecchie improponibili su di un ragazza in fondo anche carina. Due orecchie enormi e pendenti verso il basso. Non orecchie a sventola, che sarebbe troppo facile, ma qualcosa di espanso. Carne espansa nello spazio circostante. Mentre parlava la guardavo in faccia, in un punto preciso fra i due occhi, e mi sfrozavo di non guardarle le orecchie. È stato molto difficile. Ce l’ho fatta. Ma alla fine, anche in questo caso, cerniera oppure No (in questo caso No) non ci ho capito nulla. E comunque i supermercati in Perù – sennò chiudo un pezzo e non ho fornito nemmeno un messaggio che sia uno – chiudono tardi, più tardi che qui. E qui, invece, sappiatelo, in bicicletta di questi tempi sul ghiaccio, si scivola.

ai tempi del liceo

No, appunto dicevo, ai tempi del liceo feci una sola occupazione da vero partecipante. Avevo quattordici anni, e cosa vuoi dire ad uno che ha quattordici anni? Niente. Se intravedi la possibilitá di farti una notte di guardia davanti alla scuola, lo fai. Ma hai solo quattordici anni, c’è poco altro da aggiungere.  

Le ragazze del quinto anno ti portavano il caffè ed i cornetti alle sei di mattina, per “sostenere i valorosi guardiani notturni della scuola”. Bello.    

Poi a quindici anni giá mi accorsi di come stavano le cose e poco prima delle occupazioni prendevo il microfono in palestra per dire davanti a tutti: ecco insomma, se proprio vogliamo trovare una scusa per non venire a scuola, almeno cerchiamo di informarci un minimo, no? Invece i miei compagni non volevano venire a scuola e basta, i giornali non li leggevano e non potevano dire ai genitori: io oggi non ho voglia di andare a scuola. Io invece potevo, e allora montare tutto quel casino solo per saltare dieci giorni di scuola, mi pareva esagerato. Mi volevano morto.    

E si andava avanti così, negli anni “protestarono” per tutto: per le guerre, per le finanziarie, per le riforme, per il governo, per le bonifiche, per non cosa altro. Io lo so che un liceale è un cazzone, e che bisognerebbe lasciargli una certa libertá di essere cazzone, ma a me tutta sta farsa solo per farsi il giro in vespa al sole pareva un modo triste di svendere le idee. Del tipo: a quanto la vendi la tua idea sul mondo, sulla politica? Per me era come se ti stessero rispondendo: al prezzo di un giro in vespa. Tu dammi un giro in vespa di mattina ed io sono contro o a favore di tutto quello che vuoi. Poi dicono il voto di scambio. Poi dicono il clientelismo. Ste cose nascono quando non c’hai nemmeno un pelo di barba sulla faccia.     

Oppure era come se ti dicessero: non abbiamo nessuna idea. Qualsiasi prezzo è buono.      

E allora io il giorno della manifestazione contro il bombardamento in Jugoslavia, entravo a scuola da solo. Gli altri facevano due ore di corteo, oppure nessun corteo – spessissimo nessun corteo – e poi giro in vespa verso mare. Oppure a casa a dormire. Il punto era che la guerra in Jugoslavia mi dava fstidio per davvero, non mi andava di scambiarla con il giro in vespa a mare (che potevo fare quando volevo). E ci tenevo a dare una testimonianza – a me stesso – che a modo mio stavo celebrando la schifezza. Il prezzo da pagare era disegnare cerchietti con la matita sullo smalto verde del banco per cinque ore. Lo facevo. Se fossi stato al mini corteo pre-giro in Vespa al mare, nessuno avrebbe parlato della guerra in Jugoslavia, o della finanziaria, o di quello che era.       

Allora quando dicono che ci sono i licei occupati, i cortei di studenti delle superiori, sti numeri vanno presi con le pinze. Lì in mezzo ci sono pure quelli che ci credono, ma la massa non sará mai credibile. Un liceale farebbe di tutto per saltare un giorno di scuola. Un giorno di scuola saltato è una benedizione del cielo. C’ è gente che ha allagato la scuola per saltare un giorno di scuola. Saltare la scuola è bello, ti cambia l’umore, ti rinvigorisce. Non è certo una dimostrazione di impegno.


E’ come se dicessi che la guerra in Iraq mi fa così schifo, ma così schifo, mi fa così che guarda, addirittura adesso vi lascio tutti qui e mi vado a mangiare una pizza.

Lo scrivevo qualche anno fa

Lo scrivevo qualche anno fa sulla colonnina del blogghe: «Quando diventerò dolce e disponibile con tutti, allora andrò a fare il missionario in Burundi.». Poi ieri ho scoperto che il mio compagno di corso, quello che ci devo anche lavorare assieme, è proprio del Burundi. Come tutti gli africani in occidente che non siano rapper esagitati, veste abiti formali e rassicuranti. Io quando avevo scritto Burundi manco lo sapevo dov’era sto Burundi, e nemmeno adesso lo so, però la differenza è che adesso c’ho una faccia nera a due metri da me con cui devo discutere di problemi epidemiologici, senza farmi distrarre dall’interno roseo delle sue labbra.   

Oggi nell’ordine mi sono imbattuto con: il traffico criminale, la paura di non fare in tempo, la consapevolezza di non aver fatto in tempo, la consapevolezza di non sapere perchè dovevi fare in tempo, una sedia calda, una cosa giusta pronunciata al momento giusto, una canzone che la volevo cantare per forza anche non avendo alcuna voglia di cantare, la sorprendente capacità di rispondere a domande ovvie impostando la voce, la frenesia del lavoro al computer, la frenesia del lavoro al computer, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, una corsa sotto la pioggia con due panini caldi appena usciti dal forno in mano, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, l’indecisione al reparto ortofrutta, una birra in lattina fredda ma non come la volevo io, poco pochissimo tempo per scrivere come invece vorrei scrivere.

ma che bello



Dice: che cos’è? Ebbene, è lo strumento del mio nuovo sport. Dopo un mese di prova, posso dirlo con sufficiente sicurezza: è il mio nuovo sport. Si chiama floorball, ed è una derivazione dell’hockey. Si pratica senza pattini, si corre e si suda. Ci si prende a mazzate sui piedi e a volte, come ieri, se non resti vigile ti prendi una pallinata diretta nell’occhio.    

Si sente ssstassch!!! e poi tutti intorno a chiedere come va.      

Io sono contentissimo, sono il giocatore peggiore della storia mondiale di questo sport. Io sono il peggiore giocatore e contemporaneamente il piú contento giocatore di questo sport. Faccio schifo, mi alleno con quelli del livello piú basso che hanno cominciato giá a settembre, e quindi fra i principianti sono il piú principiante. Ma va benissimo così. Sta cosa di correre con la mazza e spintonarsi come gorilli, va bene così. Le istruzioni vengono date in olandese, per cui ho pochissime speranze di migliorare. Qualcuno si offre di tradurre, di solito nel momento in cui cerco di riprendere fiato e sono ad un passo dalla morte, quindi non mi arriva comunque niente. Una ragazza in particolare parla un inglese british impeccabile, e di conseguenza per me incomprensibile, e per sfoggiarlo si offre spesso di tradurre le istruzioni per me. Ha una faccia da gerarca nazista invasa da un tripudio di brufoli. È devastata da un acne carnevalesco, per cui anche quando potrei capire le sue parole non le capisco lo stesso, perchè penso: pattapatapapatpaa! Che poi sarebbe il rumore dei brufoli che scoppiano tutti  assieme a mitraglietta.         

Perchè fra di noi principianti terremotati, si gioca maschi e femmine insieme. Ci sono almeno altri tre femmine gerarchi nazisti e un paio di bomboloni che cominciano a sudare non appena c’hanno la mazza in mano. E poi è uno sport poco diffuso, popolare solo in Svezia e conosciuto in qualche Paese del Nord. Quindi la mia spocchia può avere campo libero, posso dire floorball di qua e floorball di la’, è uno sport nordico poco conoscituo, e bla bla bla e nessuno può capirci niente.         

Qui invece una partita giocata da gente che ne sa, tanto per avere un’idea.       

fosse successo a me

Fosse successo a me, come è successo a questo violinista di 27 anni, di inciampare in prossimità del palco e distruggere cadendo un violino Stradivari di trecento anni fa, mi sarei suicidato con le schegge di legno dello stesso violino conficcandomele negli occhi.

Siccome da cosa nasce cosa, vado a leggere la biografia del violinista in questione, che scopro essere mio coetaneo, talentuosissimo e pure figo (ma anche un po’ Claudiano Bisio, perchè sono invidioso). Aveva quattro anni quando gli hanno messo un violino in mano  – del fratello maggiore, che studiava violino – e quello senza aver mai studiato lo strumento, si è messo subito a suonare. A quattro anni era già un genio riconosciuto, a otto anni suonava con la Filarmonica di Londra, a 27 è famoso in tutto il mondo (e vabbè, inciampa sugli Stradivari).  

Io penso: e che culo, però. C’hai il talento del violino e lo scopri col violino del fratello. Magari ti davano in mano un flauto, facevi un bruttissimo piripiripiri e tutto finiva lì. E invece ti hanno dato un violino. Cosa facevo io a quattro anni? Urtavo con la fronte sul bordo dei tavoli della casa? Rincoglionivo davanti alla tv? Cercavo di non farmi calpestare? Cosa facevo? E cosa sarebbe successo se mi avessero dato in mano un.., che ne so, un oboe? Magari potevo scoprirmi il mago quattrenne dell’oboe dell’europa meridionale, no? Magari sono il talento sprecato del clavicembalo mondiale e non lo saprò mai.

ragazzi di altre latitudini

Tra un paio di giorni si lascia questa casetta e si va nella nuova – poco distante da qui – dove ho pronta una camera di diciotto metri quadrati per i prossimi sei mesi, un water ed una doccia da condividere con una tipa che ancora non so chi sia, più un totale di sette (uno,due,tre,quattro,cinque,sei,sette) coinquilini. Ma non si vuole parlare della casetta nuova, e non si vuole parlare nemmeno della casetta vecchia: si vuole parlare invece del ragazzo che mi offre la sua camera per i prossimi mesi.  

B. è un olandese alto e biondo. Lascia la sua camera per un Erasmus in Spagna. Potrebbe benissimo fare il modello, coi suoi muscoletti e la sua presenza di giovine alto e biondo. E invece studia biologia all’università. La prima volta che ci siamo incontrati ho pensato, che ragazzo gentile, sto ragazzo qua. Proprio gentile. Eccolo che mi spiega dove firmare, eccolo che mi spiega cosa significa quella frase sul contratto, mi spiega che mi pulirà tutta la camera prima di andare via, che se ci sono problemi basterà scrivere una mail e lui mi risponderà. E davvero ogni volta che hai un dubbio glielo scrivi, e quello ti risponde con lunghe mail dettagliate e addirittura ironiche, e quindi tra le qualità ci devi mettere alto, biondo, muscoloso e pure ironico. Ti chiedi: sarà mica gay? Capisci che non è gay. Poi firmi il contratto, e tra i suoi libri scovi tante guide sul Sudamerica e la Spagna. Poi leggi ad alta voce qualche titolo di romanzo, e quello subito ti parla della trama del romanzo, di questo e di quello, e del contesto storico eccetera eccetera. Non fa la figura del precisino, falsifica pure la firma del padre e poi appena fuori dalla porta c’ha un paio di calzini vecchi in simbiosi con una palla di polvere. Hai bisogno di un certificato e quello te lo procura subito, scusandosi del ritardo. Ti chiede di andare a prendere il certificato al suo posto di lavoro. Perchè non solo studia, sto ragazzo, ma lavora anche. In un negozio di cremine cosmetiche nel centro della città. Allora pensi: sarà gay? Non è gay. Però arrivi lì che sta consigliando una vecchina grigia sulla prossima cremina da acquistare. E’ alto e biondo, muscoloso ma non appariscente, gentile ma non precisino, gentile ma anche cazzone quanto basta, cazzone ma apprezza anche la letteratura, pulito ma con una certa percentuale di backstreetboys nello stile, studente ma lavoratore, nordico ma interessato alla cultura mediterranea e sudamericana.    

E’ quel tipo di crossover umano che ti capitato rarissime volte di incontrare nella tua vita. Quel tipo di personaggi che non li puoi infilare in una sola casella, che una sola casella non ti basta. Quel tipo di mescolanza a cui tu in un certo senso ti ispiri, a cui vorresti arrivare, sebbene poi a te non riesce altrettanto bene, oppure riesce in un modo più sghembo: forse perchè non ne sei altrettanto capace, o forse per quella parte di albertosordi impacciato e sconclusionato che vive dentro di te.

cosa ho fatto

Cosa ho fatto oggi? Ho preso una violenta craniata contro un mobile in cucina, piccolo taglio sul cranio e sangue che lo tengo bloccato dentro di me  premendo con il dito sulla testa. Prima di sta piccola tragedia, mi ero fatto assalire da uno dei miei momenti di operosità: Faccio, Pulisco, Sistemo. Ve li raccomando, i miei momenti di operosità. Ma comunque niente, il momento è stato breve perché ho cominciato col Pulisco, e per andare a gettare una confezione di biscotti in cucina ho preso sta craniata che ho bestemmiato in dialetto serbocroato. Quando ho smesso di tenere il dito premuto sulla capoccia, non ho continuato col Faccio e Sistemo ma sono uscito a correre nel freddo gelido fra le papere e i laghetti, che questa è una di quelle cose che sul momento non le gradisci però poi quando ritorni a casa sei contento, c’è una soddisfazione low cost tutta particolare, ché il freddo gelido non c’è più, che non devi correre più e ti puoi infilare tutto ansimante sotto l’acqua della doccia. Che poi sarebbe come andarsi a cercare la Quiete dopo la Tempesta, ma in termini molto più banali e contemporanei.  

per giungere in paesello – questa volta

Per giungere in paesello – questa volta – sarà un viaggio in treno, dopo anni che non era più viaggio in treno. Per arrivare al tacco d’Italia – a quei tempi – si usavano certi treni espressi da nove ore e mezza di viaggio, tutti di un color marrone mortificato ed olezzanti di un olezzo che ti penetrava nell’anima. Di solito i compagni di viaggio contribuivano allegramente a speziare l’olezzo con nuove fragranze speziate per cui alla fine era una bella mistura di puzze a cui ti potevi soltanto arrendere con le mani in alto e magari anche qualche lacrima spontanea. Una breve lista delle cose che ricordo di questi anni in treno (giusto per sdrammatizzare quanto successo l’altro giorno): 

– Il treno zeppo che non c’era più spazio nemmeno nel bagno, e tu che trascorri il viaggio steso in corridoio calpestato dai passanti ma sei contento lo stesso, che almeno non sei finito nel bagno. 

– Il treno zeppo che non c’era più spazio per cui decidono di attaccare un nuovo vagone, poi un altro e poi un altro ancora. Alla fine ci sono tanti di quei vagoni in più che il treno deve procedere lentissimo e arrivi al paesello con un ritardo tale che avevi pure dimenticato il motivo per cui eri partito.  

– Il treno zeppo di emigranti di ritorno dalla Svizzera con certi baffoni da mangiafuoco; cinque di loro finiscono per essere tuoi compagni di cuccetta e allo scoccare della mezzanotte decidono tutti assieme di togliersi le scarpe. La tua faccia da quel momento in poi diventa quella dei pesci rossi che nelle bocce di vetro stanno a boccheggiare sul bordo dell’acqua, non so se avete presente.

– Il treno che si ferma in aperta campagna, senza un perchè.

– Il treno che entri nel tuo scompartimento col posto prenotato e ci trovi otto persone (su sei posti disponibili) più un coniglio da ingrasso tenuto in una enorme gabbia di legno. Sono senza biglietto ma nessuno vuole lasciarti il posto. Decidono di farti un po’ di spazio. Trascorri la notte con loro e al mattino c’è un casertano che ti vuole uccidere perchè secondo lui sei troppo vicino alla sua fidanzata slava, sebbene lo stesso poteva dirsi anche per il coniglio da ingrasso, volendo essere pignoli.