Let's approfondiamo the concetto of parcheggio

Il concetto di parcheggio, mi sa che non mi sono spiegato bene.

Facciamola breve.

Il bisogno di un parcheggio è un bisogno elementare e aspecifico. Spieghiamo il concetto di bisogno elementare e aspecifico. Se c’hai bisogno di un parcheggio, c’hai bisogno di un posto dove infilare la macchina e basta. C’hai bisogno di un posto e basta, non è che c’hai bisogno di un parcheggio così o colà. C’hai bisogno di tre metri liberi di asfalto, punto e basta. Altri bisogni elementari e aspecifici sono – chennesò – il bisogno di respirare ( con aria al 20% di ossigeno lo risolvi), il bisogno di fare la cacca (fai la cacca e lo risolvi) il bisogno di insulina per un diabetico (ti fai l’iniezione di insulina e hai risolto). Già la fame e la sete sono bisogni più complicati, perché si può decidere infilarsi in bocca un cocomero piuttosto che un calippo, un pollo arrosto piuttosto che un uovo di struzzo. Chennesò. Una birra ghiacciata piuttosto che una tisana bollente.

Perché esistono pure i bisogni complessi.

Se uno necessita di pittura, per esempio, sceglierà un Renoir piuttosto che un Matisse, se vuole la musica sceglierà fra quello che li pare; se si droga di letteratura come me, sceglierà fra Pennac e la Tamaro (per dire) oppure fra Hesse e Bevilacqua (per dire) oppure oppure oppure.

Poi c’è il bisogno dell’averci qualcuno a fianco, strettamente collegato ai bisogni del volere bene e dell’essere voluti bene. Questi bisogni – according to the sottoscritto – sono dei bisogni complessi, molto complessi. Però per qualcuno ( per molti qualcuno, in verità) paiono essere bisogni elementari e aspecifici. Come il parcheggio. Sta cosa del parcheggio non mi piace, ma cosa posso fare, ne prendo atto. E poi, dopo averne preso atto, produco sbrodeghezzi su sto blogghe. Ne produrrò ancora in futuro, su sto argomento, mica mi fermo qua. Eh, No.

Ho finito.
Andate in pace.

un parcheggio vale l'altro

e poi ci sono questi ragazzi di oggi che si ritrovano compagni di corso all’università, e allora siccome sono compagni di corso all’università decidono di mettersi insieme, e magari vanno pure a vivere assieme, e in mensa li vedi pure pranzare assieme, lui e lei sempre assieme, che uno li guarda e pensa Sono una Coppia, sono proprio una Coppia questi qua che stanno sempre assieme.

poi magari lei si laurea prima di lui – o lui prima di lei, poco importa, ma in questo caso si laurea prima lei – e chi fra i due si laurea per primo deve tornare al suo paesello e lasciare la città universitaria. E allora succede che i due si lasciano poco dopo della laurea  – o poco prima, poco importa, ma in questo caso poco dopo – e così finisce tutto, tutto quell’essere Coppia di poco tempo prima, e ognuno se ne va per i fatti suoi, senza tragedie.

Io che sono cresciuto con Marco Se Ne è Andato e Non Ritorna Più (Tuo padre e i suoi consigli che monotonia/ lui con il suo lavoro ti ha portato via) guardo ste cose e mica le capisco, tutte ste cose che vedo.

Io guardo ste cose e non le capisco, ma non mi pare che si tratti di relazioni sentimentali – in questi casi – o di problemi nelle relazioni sentimentali, o di svolte nelle relazioni sentimentali o di qualsiasi cosa che abbia a che fare in qualche modo con le relazioni sentimentali.

Cosa dire, questi mi paiono problemi – questi problemi qua – che andrebbero incasellati nella stessa casella del cervello dove si incasellano normalmente i problemi di parcheggio. Esempio di problema di parcheggio: ho trovato da parcheggiare vicino all’ipercoop, vuol dire che parcheggerò vicino all’ipercoop; ho trovato parcheggio di fronte alla lavanderia, vuol dire che parcheggerò di fronte alla lavanderia.

E infatti.

E infatti, se non trovi parcheggio vicino di fronte alla lavanderia, è possibilissimo che ti dici Vabbè, proviamo più avanti, e quindi parcheggi vicino all’ipercoop.
Tanto parcheggiare si deve, e un parcheggio vale l’altro.

incontenibili

a spiare sui monitor degli altri scopri un mondo che non ti aspetti, scopri che la gente davvero scrive mail e costruisce presentazioni in power point con il Comic Sans verde pisello su sfondo azzurro puffo, o col font giallo canarino su sfondo fucsia, o che compone messaggi costellati di smileys malati di parkinson che si muovono a scatti fra le righe farcite di punti esclamativi agglomerati in triplette.

quando mi passo la matita sotto gli occhi

Quando mi passo la matita sotto gli occhi – in occasione delle serate importanti – poi gli occhi mi piacciono di più la mattina seguente, quando la matita sotto gli occhi è sbavata e sfumata.

Una PersonaCheNonDicoIlNome, che da tempo si dichiara sofferente per recenti pene d’amore, ieri sera gestiva un harem di quattro donnine perbene – durante la festa in onore di Billigiò – e tutto sofferente com’era si divideva tra una e l’altra donnina perbene.

“Allora, qual è la prescelta?”
“Mah, diciamo che mi piacciono le due con le tette più grosse
“Non farmi fare queste misurazioni corporali, adesso. Qual è che hai scelto?”
“Sai, una mi piace di più, però ho baciato quella di Santo Domingo.”
“Ah, ecco.”
“Sì, ho combinato un casino, ho combinato.”
“Tutto questo nell’ambito della tua sofferenza, giusto?”
“No, sai una cosa?”
“Cosa”
“Non soffro più”
“Ah, bene, sono contento.”

Poi più tardi, fra il fumo e la musica assordante, ho visto una sua mano “non più sofferente” posata su di un culo rivestito di jeans nero, e dalla mia prospettiva non ho potuto valutare se si trattasse di un culo Santo Domingo oppure No – credo di No comunque – e in ogni caso da allora non ho più notizie di lui.

Per il resto.

Per il resto, quando sottolineo gli occhi con la matita – in occasione delle serate importanti – a volte mi succede di dimenticare di avere gli occhi truccati, e se mi stropiccio col pugno poi le palpebre si insozzano di grigio scuro. L’effetto è comunque gradevole, se non fosse per quei due o tre intellettuali e semiotici che per un po’ di trucco sulla faccia di un maschio sentenziano allegramente con la mano a paletta: “Quanto sei un ricchione”.

E poi cos’altro.

Uno si apre il blogghe con l’obiettivo di scriverci sopra tutto ma proprio tutto tutto, ed invece poi scopre che non è sempre praticabile, questa cosa di scriverci tutto ma proprio tutto tutto. Scopre che esistono dei paletti, che c’è troppa gente che ti conosce e che ti legge, molta più di quanto pensi, che ci sono troppi simpaticoni che quando ti incontrano ti fanno l’occhiolino e la battuta col sorrisetto.

E quindi niente, cosa volevo dire ancora?

Omissis.

i viaggiatori dei treni e altre cose

I viaggiatori dei treni usano il tempo del viaggio in treno per lunghe telefonate a voce alta. I viaggiatori dei treni pensano: tanto c’è tempo da spendere, spendiamolo a parlare al telefono, checcefrega. I passeggeri dei treni non pensano che parlare a voce alta abbia qualcosa a che fare con la maleducazione, perché la parlata al telefono a voce alta non rientra nel comune immaginario di maleducazione. Uno pensa: scaccolarsi col dito nel naso, è maleducazione, altroché. Io a volte mi scaccolo, solo quando non mi vede nessuno. Mai quando mi vedono tutti. E’ maleducazione – mi chiedevo – quando non ti vede nessuno? Boh, non lo so. Non è maleducazione – invece, si pensa, nell’immaginario – telefonare alla mamma dal sedile del treno per chiederle di scongelare la carne di vitello che così per stasera è pronta, e poi dopo cominciare una conversazione di quaranta minuti su quanto è stronza la Teresa, ma come Teresa chi, Teresa l’amica della Franci, una che si atteggia a donna di classe con gli amici della Teresa, ed in particolare col Pepi, il fratello della Cosa lì che non mi ricordo come si chiama, massì mamma hai capito, quello che entrato in Finanza, e che se non ci credi chiediglielo alla Franci stessa se è vero o non è vero che la sua amica Teresa è una grandissima stronza, eccetera eccetera per quaranta minuti.

E poi vabbè, lasciamo perdere.

E poi ci sei Tu – tra le altre cose – che quando mi guardi così mi sembra di essere molto migliore di quello che sono, mi sembra di essere uno che non sono io, certe volte quando mi guardi io quasi mi sento uno molto meglio di me. Poi invece mi guardo allo specchio e sono proprio io.

E poi cos’altro.

E poi vabbè, domani si laurea Billigiò.

Oltre agli scannamenti ed alle processioni di rito che avranno luogo domani mattina per le vie di Bologna, pubblicizzo qui la serata della festa di dopodomani in onore dell’ingegnere Billigiò – visto che così mi viene chiesto dalla regia e visto che è aperta al pubblico tutto indistintamente – festa che si terrà sabato sera al Covo di Bologna, col concerto dei Thousands Millions, band di amici e compari salentini che paiono ammericani e che se li ascoltate un paio di minuti sul loro myspace, sono sicuro che vi convincete immediatamente e che poi accorrerete numerosi al Covo col vestiario adeguato e con l’animo da groupie.

Dai, su.

ai tempi della scuola elementare

ai tempi della scuola elementare, dopo averti costretto con inaudite violenze psicologiche a portare in classe per l’ottomarzo dei rametti di mimosa per le tue compagne donne – che tu le guardavi e pensavi, il concetto di donna è veramente ampio – e dopo averti costretto con la forza a consegnarlo a chi volevi tu fra le compagne donne, anche se poi non era vero che le consegnavi a chi volevi tu perché c’erano sempre due o tre fra le ciofeche più clamorose della classe che restavano senza mimose sul banco, e allora qualcuno doveva comunque consegnare un qualcosa alle somme ciofeche  della classe, ti veniva spiegato dalle maestre (introducendo così il concetto molto democristiano del politically correct all’interno della scuola elementare) dopo che tutto sto strazio era finito dicevo, ecco che dopo una decina di giorni le maestre ti annunciavano orgogliose – credendo così di pareggiare il conto – che era arrivata la festa del papà.

Il pinolo col grembiule rimuginava seduto dietro al banco di smalto verde acqua: la festa del papà, cosa c’entro io con la festa del papà? Me la vedo da solo con mio papà, gli farò gli auguri per i fatti miei, ma cosa volete voi da me, maestre perfide e democristiane?

Ennò, ti spiegavano le maestre perfide – che avevano nella testa il concetto di parità, di equilibrio e di occhio per occhio dente per dente – ti dicevano No!, questa festa è dedicata a tutti i maschietti, e indicavano col braccio i pinoli grembiulati presenti seduti fra i banchi. Uno poteva obiettare che non era la festa del pinolo grembiulato ma la festa del papà – ed io in effetti protestai – ma la maestra mi spiegò che bisognava celebrare i maschietti esattamente come si erano festeggiate le femminucce qualche giorno prima (maschietti, femminucce, diminutivi del cazzo) perché noialtri maschietti un giorno lontano saremmo diventati anche noi dei papà, e quindi meritavamo di essere celebrati adeguatamente e solennemente in vista del nostro futuro da genitori.

Voi provate a dire ad un bambino di sette anni che lui è potenzialmente un papà – un bambino come me per esempio – che a sette anni non è che avessi ben chiaro nella testa il concetto di spermatozoo, a quei tempi avevo solo un concetto molto vago di spermatozoo, ma a causa di questo concetto vago nella crapa mia di bambino, e a causa di questa improvvisa responsabilizzazione inculcataci dalla maestra, vi dico che un giorno lontano nella metà degli anni ottanta tutto grembiulato com’ero, durante la ricreazione ho cominciato a camminare impettito fra i banchi con un pesante senso di responsabilità addosso, e mi sentivo tutto pregnante di concetti vaghi di spermatozoi e di potenzialità procreative al punto che ero convintissimo che se mi avessero spremuto, se in qualche modo mi avessero munto – non so da dove, non so esattamente come – certamente avrei stillato neonati a profusione lì sul pavimento.

Ecco, volevo dire, non si fa così, non si dicono ste cose ai bambini.

giovinetti di belle speranze

La giovinezza – in linea generale – non può mica essere una giovinezza di brutte speranze, deve essere necessariamente una giovinezza di belle speranze, e noi di conseguenza siamo giovinetti di belle speranze che vanno in giro in questo mondo dotati della adeguata speranza che si addice a dei giovanotti di belle speranze come noi siamo a tutti gli effetti.

Detto questo.

Detto questo, ieri sera ero seduto all’ingresso di un cinema del centro di Bologna, e avevo il mio amico Bollo con me, e tutti e due ci rigiravamo nelle mani i biglietti appena acquistati per l’ultimo spettacolo della serata a sette euri virgola cinquanta cadauno, in attesa di entrare in sala.

– Noi si paga il biglietto tutto intero, in pratica.
– Il biglietto intero, certo.
– Eh, non siamo mica militari.
– Non siamo neanche anziani. E non siamo studenti.
– Cioè, io sarei studente ancora per poco, ma tanto qui non esiste nessuna riduzione studenti.
– E non siamo bambini.
– Non siamo bambini, certo.
– E neanche handicappati.
– Niente. Non siamo niente.
– Non siamo niente di niente.
– …
– …
– Si però io ho sete, cazzo.
– Eh, hai sete.
– Però  non voglio versare ulteriori tre euri al barista. Non voglio.
– …
– Io vado a bere al cesso.
– Ma dai.
– Io vado a bere al cesso.
– …
– Così magari mi prendo una malattia, divento handicappato e la prossima volta entro con la riduzione.
– Ecco, bravo.

Tralasciando il fatto che i lavandini dei cinema del ventunesimo secolo non sono fatti per bere, ché devi tenere conto dei sensori ad infrarossi che si azionano soltanto se infili tutta la testa sotto al rubinetto,  per cui è molto più facile farsi uno shampoo in un lavandino del cinema del ventunesimo secolo piuttosto che bere un sorsetto di acqua, e tralasciando il fatto che per bere da questi rubinetti è necessario l’ausilio di un amico – in questo caso l’amico Bollo – che ti aziona col movimento della mano l’infrarosso mentre tu ti lanci con la bocca aperta sotto al getto d’acqua, tralasciando tutto questo dicevo, noi giovinetti di belle speranze troviamo posto in sala e ci sediamo nelle puzzose poltrone di cinema del centro di Bologna.

Io e l’amico Bollo abbiamo il nostro canovaccio collaudato di argomenti di discussione, che sono più o meno sempre quelli da molto tempo. Lui mi parla del suo ultimo colloquio di lavoro dove non lo hanno preso, o dove ha scoperto che in realtà per “operatore culturale” intendevano la vendita porta a porta di lampade culturali e tappeti culturali o enciclopedie culturali, ed io invece parlo dell’inevitabilità della mia laurea; lui mi racconta le sue vicende di lavoratore non retribuito, ed io mi spanzo dalle risate secondo l’abituale protocollo. Quindi conveniamo entrambi sulla precarietà del mondo lavorativo odierno, su tutta una serie di disgrazie che ci capiteranno nel futuro prossimo, infine ci diciamo Vabbè e poi non ne parliamo più. In un certo senso, una catarsi.

Ieri sera i discorsi sulla precarietà e sulle disgrazie sono stati messi da parte per bestemmiare contro le poltrone di cinema del ventunesimo secolo, così strette e incollate le une alle altre da farci stare – ambedue giovini di belle speranze notevolmente lunghi di femore – schiacciati nelle poltrone puzzose come due sardine.

– Ste poltrone di cinema sono troppo strette, porca puttana.
– C’ho le ginocchia sulla nuca di quello davanti, in pratica.
– Eh, ma le avranno costruite nel 1920, ste poltrone qua.
– Eh, nel 1920, quando l’altezza media della popolazione era di molto inferiore.
– Eh già, poi è arrivato il benessere e siamo cresciuti.
– Eh già, il benessere.
– Meno male che i nostri figli..
– I nostri figli cosa?
– No, dico, i nostri figli non avranno certamente di questi problemi.
– Ah, dici, che senza benessere torniamo a calare?
– Eh, direi.
– Eggià, meno male che i nostri figli non avranno di questi problemi.
– Meno male per i nostri figli.
– Meno male.

finisce l'era della mia vita in trentesimi

Ieri pomeriggio ho partorito mollemente il mio ultimo esame, seduto in un’aula calda col sole texano che filtrava dalle finestre a rammollire gli atteggiamenti dei presenti, col professore storto e mollo sulla sedia che mi faceva domande molle su argomenti molli e aspettava mollemente le mie risposte davvero tanto tanto molli.

L’esame stava mollemente volgendo al termine fra molli sospiri dei presenti – tutti appollaiati dietro di me con una mollezza da messicani col sombrero della pubblicità dell’Estathé – quando in un guizzo di disperazione (l’ho già detto che non mi voglio laureare, no?) ho provato a cambiare il corso degli eventi improvvisando una dei numeri principali dello studente medio di tutti i tempi: la scena muta. Da bravo secchione, la scena muta non faceva parte del mio repertorio, però mi sono detto: ora o mai più. Ho provato a stare zitto, a fare la faccia da ebete che cerca la risposta fra i meandri del cervello, con l’espressione ingrugnita alla Scamarcio che ha dormito male, ma niente, non ha funzionato, l’esame l’ho comunque passato e adesso sono qua, con la mia vita che non si misura più in trentesimi, mentre mi chiedo seriamente se abbia senso  – nel tempo che resta da qui alla laurea – iscrivermi ad un corso di tortellinaggio bolognese artigianale o, che ne so, meditazione tradizionale panamense o che ne so.

Ma comunque.

Il premio di scena muta più spudorata ieri pomeriggio l’ha vinto una studentessa interrogata prima di me che, paralizzata dalla paura (la paura esiste anche per gli esami pernacchia, pare) è riuscita a restare in silenzio così:

– Signorina mi dica almeno un nome di una specie ittica velenosa.
– …ngghhh…
– Il nome di questa specie è facile, si ispira alla forma del pesce..
– …
– Alla forma, signorina!
– …
– Ad una forma che si può anche, diciamo, gonfiare.
– …
– Che si gonfia, cosa si gonfia? Eh, cos’è che si gonfia, signorina?
– …
– …
– …

E poi finalmente:

– Il pesce palla?
– Ecco, brava! Ha visto che lo sa? Il pesce palla!

Mi chiedo quante probabilità ci fossero a quel punto che la signorina, invece di rispondere correttamente, avesse risposto con qualcosa tipo il Pesce Triangolo Isoscele.

ce lo sapevate?

Certi momenti di esagerata bellezza, di gioie indecenti, certi momenti di perfezione spudorata, che vanno oltre ogni limite di perfezionatezza spudorata e di gioia che fino a quel momento poche volte avevi provato, quando l’imbuto delle sensazioni si intasa per la troppa perfezione in arrivo, in quel momento, in quel preciso momento, il tuo cervello si arrende e alzando bandiera bianca ti dice Sai Cosa? Tutta Sta Bellezza e Perfezione, Io A Registrarla E Ricordarla Così Com’è, Proprio Non Ce la Faccio, Registratela da Solo, Tutta Sta Bellezza e Sta Perfezione, e così, di fronte all’esagerazione della bellezza delle cose, la porzioncina del cervello deputata alla registrazione degli eventi sotto forma di ricordi va in tilt, si ingarbuglia, si intortiglia, si ubriaca ed inciampa, con il risultato che alla fine tutto quello che doveva essere registrato viene impresso in modo vago nella tua capoccia, e i ricordi che avrai di tutta quella esagerata bellezza e spudorata perfezione saranno come quelli di un sogno, sfumati come quelli di un sogno, incerti come quelli di un sogno, perchè la porzioncina del cervello si è ubriacata e non ha registrato per benino come doveva fare, e come per un sogno non sarai sicuro se quello che ricordi è successo per davvero oppure No.

Come quando – da pischello – si giocava a calcio in immensi campi di erbetta secca dove i limiti del campo non erano affatto segnalati con le linee bianche, ma solo dalle opinioni convergenti di noi calciatori pischelli dalle maglie di gioco tutte diverse. In questi immensi campi di erbetta secca, se il pallone si allontanava troppo dal gioco allora era fuori, e se il pallone era fuori allora doveva essere recuperato dal giocatore pischello più vicino al pallone.

Poteva succedere – e ogni tanto succedeva – che un giocatore pischello che quella mattina si era svegliato un po’ più Mazinga degli altri, tirasse dei calcioni spropositati al pallone, che così veniva sparato via molto più lontano del solito, dall’altra parte della strada o nel campo di erba alta. In questi casi non veniva più raccattato dal giocatore più vicino al pallone, ma dal Mazinga pischello che aveva sferrato il calcio spropositato. Dopo il calcio spropositato, tutti i pischelli sudati e coi pantaloni segnati dalle strisce verdi dell’erba, si voltavano verso il giocatore Mazinga e dicevano severi: Adesso vai a prenderla tu, la palla, così impari!

cosa distingue l'ottomarzo da tutte le altre feste che non sono l'ottomarzo

La caratteristica fondamentale che distingue l’ottomarzo da tutte le altre feste che non sono l’ottomarzo è una caratteristica evidentissima che sta proprio sotto gli occhi di tutti, ed è così esageratamente evidente che davvero mi chiedo se sia necessario spiegarla oppure lasciare perdere questa spiegazione che mi pare davvero inutile e superflua.

Ma la spiego lo stesso, la caratteristica fondamentale.

La caratteristica fondamentale per capire la peculiarità dell’ottomarzo, per comprenderla appieno bisogna innanzitutto tener presente i lavavetri cingalesi sordociechi che trovi ai semafori delle grandi città come per esempio Bologna, quel tipo di lavavetri che a vederli così non sembrano affatto essere sordociechi, ma che quando si avvicinano alla tua auto con lo strumento gocciolante per lavarti il vetro, tu intanto sei dentro l’auto che ti sbracci per dire NO NO NO per carità NO PussaVia Lavavetri, NO, ma il lavavetri cingalese si avvicina ugualmente al tuo vetro e te lo insapona tutto nonostante tutti i tuoi sbracciamenti e minacce di morte e cazzotti sul cruscotto che ti fai male soltanto tu, mica il lavavetri cingalese.

Quel tipo di lavavetri cingalese che ti insapona tutto il vetro e che ti fa sorgere dubbi sulle tue reali inclinazioni progressiste, sulla tua mente aperta e sulle tue reali convinzioni a favore della pace nel mondo e cose del genere, ti fa sorgere dubbi che sono dubbi belli grossi, se ti incazzi al punto tale che per un secondo ti senti un calderoli qualsiasi e vorresti scendere dalla macchina per prendere a craniate il lavavetri cingalese ma poi subito ci rifletti e ti calmi e pensi che evidentemente deve trattarsi di un lavavetri sordocieco se non si è accorto dei tuoi sbracciamenti e delle tue urla di rifiuto e ti sta insaponando il vetro sorridendo beato e tranquillo. Quello che non ti spieghi è come mai tutti i lavavetri dei semafori di Bologna siano altrettanto sordociechi, ma evidentemente dev’esserci un’apposita organizzazione umanitaria che convoglia tutti i sordomuti cingalesi specializzati in lavavetraggio dalla Cingalia fino qui a Bologna, così come – per esempio – quelli che non riescono ad avere un figlio vanno a Lourdes, loro cingalesi non credendo alla madonna non possono mica andare a Lourdes allora giustamente vengono qui a Bologna. E lo sai benissimo che è una spiegazione che potrebbe apparire assurda, ma ci devi credere fortemente altrimenti l’alternativa sarebbe quella di scendere e cominciare con le craniate ed è una cosa che non sta affatto bene, che fa molto poco pace nel mondo, che fa molto poco convinzioni progressiste.

Non cominci con le craniate, allora.

E invece cominci a crederci per davvero, alla tua spiegazione strampalata, soprattutto se dopo che il lavavetri cingalese numero uno ti ha appena lavato il vetro, trovi al semaforo seguente un lavavetri cingalese numero due che non si accorge del vetro umido appena lavato – eccerto che non se ne accorge: è sordocieco! –  e te lo insapona di nuovo tutto sorridendo beato, e tu intanto sei nella macchina che non sferri alcun pugno sul cruscotto perché senti dentro di te che stai facendo una buona azione aiutando la comunità bolognese di sordociechi cingalesi che tra tutte le sfighe che li potevano capitare, oltre a nascere in Cingalia ed essere sordociechi sono nati pure con la religione sbagliata in dotazione e quindi non possono neanche rivolgersi al noto centro internazionale di miracoli situato in Lourdes, Francia.

Quello stesso tipo di lavavetri cingalese che se per caso una mattina ti svegli ed è l’ottomarzo – la festa della donna – e se per caso ti svegli e dopo quando sei uscito di casa ti accorgi che il parabrezza della tua auto è sommerso sotto un immenso stronzo sganciato in volo da un esemplare di Aquila Mastodontica, un rarissimo uccello sconosciuto al grande pubblico ma caratterizzato da una bizzarra propensione alla stitichezza a causa della quale non defeca quasi mai – però quando defeca son cazzi amari perché si sfoga di tutto l’arretrato – se l’Aquila Mastodontica ha scelto proprio l’ottomarzo per svuotarsi le interiora sulla tua automobile, ecco che potrai girare e girare per i semafori di Bologna alla ricerca di un lavavetri cingalese – a quel punto poco importa se sordocieco oppure No – ma troverai soltanto gli stessi cingalesi degli altri giorni che per l’occasione si sono armati di dieci mazzetti di mimose per ogni mano e hanno lasciato lo strumento per il lavavetraggio a casa e non possono insaponarti il vetro.

Quindi insomma, per ricapitolare, la festa dell’ottomarzo si distingue dalle altre feste che non sono l’ottomarzo per il fatto che se per caso ti cacano il vetro dell’auto in una grande città come Bologna, allora il vetro, a causa di questa festa, resterà tranquillamente cacato.

Ora.

Io personalmente altre differenze non ne vedo, ma siccome sono stato ripetutamente accusato di misoginia e maschilismo (accuse tra l’altro clamorosamente infondate) allora per evitare di essere nuovamente maleinterpretato, riporto qui di seguito una serie di parole che testimoniano la mia non-misoginia e al contrario la mia conoscenza e rispetto del mondo femminile tutto intiero.

margherita hack, rita levi montalciuini, tube di falloppio, omaggio donna/riduzione uomo, gallette di riso, dismenorrea.

nota a margine

io tenutario e dittatore di codesto blogghe dichiaro di essere l’unico che può essere sfanculato o preso in giro sul blogghe medesimo, e perciò dichiaro anche che gli sfanculamenti e le prese in giro fra commentatori non sono assolutamente ammessi, in quanto in dittatura c’è solo uno che decide e gli altri al massimo ciucciano ghiaccioli all’amarena in silenzio e a testa bassa.

quanto ai ripetuti attacchi sarcastici alla signorina flavia vento, invece, espongo qui il mio pensiero: puntoprimo, tutti i commentatori sono i benvenuti, tutti nessuno escluso, e i commenti in generale fanno sempre piacere; puntosecondo, la signorina flavia vento è bella, molto bella, e questo vale già un punto. Sono sicuro che anche lei sia cosciente di non essere particolarmente brillante nella scrittura, ma se fosse anche brillante allora saremmo a due punti. Altri parametri come l’intelligenza, l’onestà e la trasparenza non sono quantificabili, ma anche per questi vale la regola del punto.

ora, quello che mi pare assurdo è che la bellezza di una persona diventi la lente di ingrandimento attraverso la quale si valutano tutte le altre caratteristiche. Voglio dire, se una persona è bella poi la sua eventuale ingenuità o stupidità viene automaticamente moltiplicata per dieci. E tutto ciò è assurdo, perchè accade in un mondo pieno zeppo di femmine cesse e stupide con zero punti all’attivo. Nella mia vita ho incontrato molte più donne brutte che erano contemporaneamente antipatiche, acide e irritanti di ragazze belle con la serenità negli occhi. La bellezza non è una colpa, è solo una delle tante virtù di cui il signore iddio ti può fare dono. Fra i tremila e passa commenti di questo blogghe la stragrande maggioranza sono stati dei “bei commenti”, ma ce ne sono stati anche alcuni stupidissimi e molto poco divertenti, alcuni che avevano intenzione di far ridere ma che non facevano ridere per niente, alcuni fatti da gente stupida e a volte anche volgari, ma io non dirò mai quali sono, non farò mai alcuna distinzione.

e se non lo faccio io che sono il dittatore assoluto incontrastato, figuriamoci se potete farlo voi.

ho un quaranta percento di tristezza che porto nascosto nelle tasche

Ho un quaranta percento di tristezza che porto nascosto nelle tasche, in questi giorni di studiacchiamenti pallidi e riflessioni sterili, che se  proprio devo dargli una forma o rappresentarlo con una metafora – il mio quaranta percento di tristezza –  allora lo rappresento con il primo accordo di pianoforte che viene ripetutamente suonato nell’introduzione di Stop Crying your heart out degli Oasis, poco prima che Liam cominci col miagolio della sua voce.

Le metafore dovrebbero semplificarti la vita, dovrebbero in teoria esprimere al meglio i concetti e le sensazioni complesse ma purtroppo sta metafora che m’è venuta non mi semplifica un bel niente. Non è che se mi chiedono Come Stai? posso rispondere “sto come il primo accordo di pianoforte di Stop Crying your heart out degli Oasis, hai presente? Quello suonato poco prima che Liam cominci col miagolio della sua voce, hai presente? ”.  Direi che No, non posso proprio. Sto pastrocchio di parole non rende affatto l’idea. Allora come sempre si produce un omogeneizzato di pensieri e ci si arma di minimalismo:

“Come stai?”
“Sto.”

Che detta così, sembra qualcosa a metà fra una confessione intimista ed una esclamazione da partita di poker. A pensarci bene, continuando così sulla stessa linea potrei partorire altre belle risposte pregne di significati nascosti.

“Come stai?”
“Passo.”

Fino a sfociare nel non sense più spudorato.

“Come stai?"
“Cambio tre carte.”

Che poi, in fondo, uno spicchiolino di significato metaforico lo si potrebbe trovare in ognuna di queste risposte, avendo voglia di fare gli aruspici delle intenzioni. Se gli antichi riuscivano a fare previsioni sugli esiti delle guerre sbirciando le budella degli animali morti, e se una casalinga qualsiasi nel pieno della sobrietà è capace di vedere la faccia di padre pio nella macchia di umido dell’intonaco, allora si potrebbe benissimo dare un senso a qualsiasi risposta pronunciata a casaccio da un Rafaeli con le percentuali di tristezza appena oltre la soglia di tolleranza.

“Come stai?”
“Mela Pera Banana Caffè.”

Qualche giorno fa, sul balcone della casa di fronte (che poi sarebbe quello della finestra di fronte) ho visto le tre donzelle damigiane lì domiciliate che mostravano i loro pigiami fiorellati al caldo sole di marzo. Una di loro era immobile con la faccia rivolta verso il sole mentre un’altra si adoperava sul viso della coinquilina nell’inconfondibile gesto a mani convergenti con il quale – di solito al riparo di occhi indiscreti – si scoppiano i brufoli e punti neri. La terza si limitava a supervisionare l’operazione di dermatologia a cielo aperto. Il mio sguardo indiscreto si è sentito male, mentre tutto il resto di me stesso voleva condividere l’orrore con qualcun altro, forse per ricavarne un minimo sostegno morale, e allora ho urlato a Billigiò di venire subito a vedere. Lui – che è una persona delicata e col senso del bello – appena ha saputo di cosa si trattava, è rimasto sulla porta della mia stanza con un pacco di tarallini salentini fra le mani, e sgranocchiando un tarallino ha rifiutato di avvicinarsi alla finestra per ammirare lo spettacolo dicendo:

“No per favore, non mi fare vedere queste cose che sto mangiando.”

Disclaimer: riporto questo episodio senza alcun motivo: non c’è nessun significato nascosto. E’ solo in nome di un approssimativo realismo pasoliniano di questa cippa. Per quanto mi riguarda, ognuno è libero di sforuncolarsi dove meglio gli pare.  

il famoso attore scamarcio

Partendo dal presupposto che sia inevitabile, per l’essere umano femmina di una certa età – diciamo nella fascia 14-21 anni – impazzire in modo squinternato per un belloccio vip qualsiasi, sia esso un attore, una rockstar o un ballerino o che ne so io, partendo da questo presupposto che dicevo è abbastanza inevitabile e si verifica da sempre nella storia dell’uomo sin da quando le femmine di essere umano si innamoravano e si strappavano i capelli per il giovane Carlo Magno, oggigiorno il problema si pone nel momento in cui le femmine di essere umano si innamorano improvvisamente e violentemente di quel belloccio divenuto famoso ultimamente che si chiama Scamarcio, e che Google mi dice chiamarsi di nome Riccardo e non Leonardo, io che fino a tre minuti fa ero convinto si chiamasse Leonardo Scamarcio.

No, si chiama Riccardo Scamarcio.

Ora, è ovvio che mai mi sarei sognato di scrivere di questo Scamarcio nella mia vita, e se lo faccio è solo perchè adesso mentre sto scrivendo – e sono le 17 e 30 di pomeriggio di una giornata bellissima – il famoso attore Scamarcio si trova a cinquanta metri da me in un locale qui sotto la finestra della sala studio che presenta il suo ultimo film. C’è una automobile con la scritta stampata “Ho voglia di te Tour” e anche dei loschi figuri che si aggirano con le giacchettine stampate sul retro con la scritta “Ho voglia di te Tour”. Sono tutti qua sotto, tanto che se mi metto ad urlare Scamarciooooo dalla finestra possibilissimo che quello mi risponde.

Che faccio: urlo? Non urlo.

Ma dicevo: il famoso attore Scamarcio.
Io non ho idea di quali siano le capacità attoriali del famoso attore Scamarcio, né se possiede delle qualità nascoste o se è effettivamente dotato di bellezza irresistibile come dicono. Io non ho mai visto un film del famoso attore Scamarcio – e se l’ho visto non me lo ricordo – e comunque se devo pensare ad un attore bello, allora penso a Jude Law o che ne so, a Raoul Bova, non penso al famoso attore Scamarcio, ma comunque il punto non è questo.

Il punto è l’espressione facciale dell’attore Scamarcio.

Il famoso attore Scamarcio è dotato di una sola espressione facciale, quella ingrugnita da cinghiale intristito, che poi è quella della locandina del film. La stessa faccia che si vede nel trailer del film, e che il famoso attore Scamarcio copia e incolla dappertutto, ovunque sia richiesta la sua faccia, perchè giustamente se la faccia funziona e se la bambina si innamora, perchè la dovrebbe cambiare? E allora ecco che si trova il cinghiale ingrugnito tenebroso di lato, ingrugnito tenebroso alla guida, ingrugnito tenebroso in bianco e nero, ingrugnito tenebroso interrogativo,  ingrugnito tenebroso motociclista eccetera eccetera.

Uno si chiede: ma non ride mai, il famoso attore Scamarcio? Sì che ride, ma solo qualche volta. Battiato diceva “c’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e fantomatico mistero”. E’ evidente che per l’attore Scamarcio il fantomatico mistero, in mancanza di occhiali da sole, viene raggiunto grazie all’ingrugnimento tenebroso. E infatti quando ride, di botto perde tre quarti di fantomatico mistero.

Ma il problema sono le ragazzine, porcaccia la miseria. Le ragazzine – ho già detto – è inevitabile che si innamorino del belloccio di turno. Che si carampanizzino, che si  squinternizzino e che sbiellino per il primo giovinotto che vedono alla tivvù. Però se passa l’equazione Ingrugnito Tenebroso = Bono, ecco, questo non è bello. La tenebrosaggine, il muso lungo, la faccia inespressiva e cupa, sono tutti caratteri – ho imparato nella mia adolescenza e giovinezza – che appartengono all’ideale dell’ omo che non deve chiedere mai, ovvero a quello che non chiede mai in quanto semplicemente non saprebbe cosa chiedere, a causa del suo encefalogramma piatto. Se passa l’idea che atteggiarsi a Fonzie con la faccia seria e tenebrosa fa fico, poi facciamo crescere tutta una generazione di giovani femmine con questo ideale di cinghiale ingrugnito nella testa, e questo non va bene.

Voglio dire, la tecnica seduttiva del tenebroso appoggiato al muro con le mani in tasca è anche giustificabile, e in tempi remoti l’ho usata pure io in mancanza d’altro – ma appunto in mancanza d’altro e quando c’avevo la luna storta e poche parole da dire – ma non deve diventare il modello, il punto di riferimento. E poi io me li ricordo bene, quelli che sono rimasti per anni  tenebrosi appoggiati al muro con le mani in tasca: sono gli stessi che se li sentivi aprire bocca ti facevano venire i brividi per la pochezza dei pensieri scaturiti da quelle capocce misteriose e tenebrose. Ho visto ragazzetti fumare solo per darsi un motivo di esistenza, ingobbire le spalle e non ridere mai, con la stessa caparbietà di sembrare tosti e fichi che ci mette il ragazzino di undici anni che non si rade i primi peli sotto al naso per sembrare più adulto.

Quindi per favore Scamarcio, ridi. Che la mamma ha fatto gli gnocchi.

Update. Rettifica: le donnine urlanti che vedo qui sotto sono mooolto oltre la fascia 14-21. E  ce ne sono anche un paio che abbaiano come dei cani Yorkshire indemoniati. Paura.

Disclaimer: l’espressione "femmina di essere umano" non è mia, è di Billigiò. La inventò sulle Dolomiti l’estate scorsa vedendo un gruppo  di ragazze  scendere da una stradina  di montagna.

sto caldo estivo lo percepisco soltanto io

Sto caldo estivo lo percepisco soltanto io, evidentemente, se in giro vedo ancora sciarponi di lana, guanti e cappotti col pelo sul cappuccio così eclatanti che forse te li vendono – i cappotti col pelo, intendo – già dotati di collare antipulci e shampoo antizecche. Le spiegazioni possono essere due, a questo punto. La spiegazione numero uno è che effettivamente sto caldo estivo lo percepisco solo io e non tutti gli sciarpati incappucciati col pelo eclatante. Anche Billigiò va in giro svestito come me, ma lui non è attendibile perché è un hombre caliente che pure nei dieci gradi sotto zero gradi di Monaco non volle evitare la maglietta a maniche corte e il giacchettino leggero primaverile. La seconda spiegazione è che esiste una grossa fetta di popolazione italiana che ha approfittato dei saldi per andare a far gli acquisti, e adesso che si è finalmente comprata il cappotto col pelo a metà prezzo, il cappotto pesantissimo deve indossarlo per forza che sennò l’anno prossimo è già vecchio, e allora fa finta di non vedere le rondini che volano nel cielo oppure le scambia per mosche transgeniche ipertrofiche che volano più in alto delle mosche normali.

La mia amica XXXna (di cui già qui) sempre sullo stesso divano, ci racconta della sua prima ceretta inguinale. Ci racconta del dolore e del sanguinamento e della conseguente disinfezione che ha dovuto sostenere per avere adesso una patata col profilo perfettamente delineato. Ci spiega che si è auto-cerettata, e che l’auto-cerettamento è una operazione molto difficile a causa del dolore che ci si auto-provoca. Per superare le incertezze si è auto-imposta di strapparsi i peli ogni otto battute di tempo del disco di Jeff Buckley. Praticamente Jeff Buckley le ha fatto da estetista, alla mia amica XXXna.  Direi che son cose, direi.

Nell’anno del signore 2007, in una casa del centro di Bologna – cioè la mia – un essere umano qualsiasi – cioè io – non riesce a farsi installare una cazzo di linea Adsl. Sono giorni di guerre infuocate condotte verso un nemico invisibile, in cui spedisco mail al vetriolo al servizio assistenza, ma ho il sospetto che queste mail vengano lette da piccoli robottini programmati per essere insensibili alle minacce fisiche e alle suppliche piagnucolanti. Ieri i robottini satanici del servizio assistenza mi hanno scritto per avvertirmi che è inutile lamentarmi del mancato invio del modem, perché il modem a loro risulta già inviato in data primo marzo. Ho ricevuto un modem invisibile, allora. Dopo il wire-less, la nuova era: il modem-less. Ho cominciato a emettere lembi di fuoco dalle narici e poi, calmandomi, ho capito che questa è solo una strategia per sfiancarmi, per farmi perdere la difficile guerra dei nervi. Ma io non mi arrendo, cari robottini satanici, no no no. Io prometto di continuare a rompervi le palle in eterno, in salute ed in malattia, finché adsl attiva non ci separi. 

E poi – non c’entra nulla – ma ho la pancia che produce strani rumori mugolanti che non riesco a bloccare sul nascere: che figure di merda nelle biblioteche silenziose, che figure. Devo trovare il libretto delle istruzioni di me stesso. Ci sarà di sicuro un pulsante per queste cose, nascosto da qualche parte.