C’e’ un gioco che mi diverte di sti tempi, quando in una stanza entra una ragazza bella sopra la media delle ragazze, di quel tipo di presenza che rompe l’aria e che poi dopo in quella stanza l’atmosfera non e’ più la stessa.

Quando in una stanza entra una ragazza cosi’, mi sforzo di intercettare lo sguardo dei maschi presenti – di quelli che non possono fare altro che osservarla. E mi incuriosiscono soprattutto gli occhi di quelli più adulti, di quelli più incravattati. Osservo quanto deboli appaiano in quei momenti, quanto in un istante tutti gli orpelli di homo sapiens cadano a terra, e di come non resti altro che la scimmia nuda.

Fanno tenerezza – pure – perché osservano con insistenza per tanti secondi di fila, neanche ipotizzando che potrebbero essere scoperti a farlo, e quanto triste possa apparire questa cosa, tenendo presente la loro attuale posizione di dominanza nella formale gerarchia degli uomini.  Forse perché quando e’ stato il loro tempo  non hanno imparato a dissimulare, a spiare senza farlo vedere, ad scrutare come fanno i gatti. O forse perché non hanno più niente da perdere.

 

– Guarda gli animali, secondo te loro ne sanno qualcosa della felicità? 
– Beh’ penso che anche gli animali ogni tanto si sentono tristi o felici, solo che non riescono a esprimere i loro sentimenti… – ho risposto io.

Lui mi ha guardato in silenzio e poi ha detto:

– E lo sai perché Dio ha dato all’uomo una vita più lunga di quella degli animali?
– No, non ci ho mai pensato…
– Perché gli animali vivono seguendo il loro istinto e non fanno sbagli. L’uomo vive seguendo la ragione, quindi ha bisogno di una parte della vita per fare sbagli, un’altra per poterli capire, e una terza per cercare di vivere un’esistenza senza sbagliare.

N.Lilini – Educazione siberiana.

i manifestanti di questi giorni a Roma

I manifestanti di questi giorni a Roma si lamentano che sui giornali escano solo notizie sugli spaccavetrine coi fumogeni e di quelli che attaccano la polizia.

(Un giorno ci si dovrà preoccupare di trovare una collocazione dove far sfogare queste piccole percentuali di cittadini invasati, tenuto conto che esistono ed esisteranno sempre, cambiando bandiera ed ideologia. E’ gente che ha bisogno di farlo, e bisognerebbe trovare delle zone dove farli sfogare in sicurezza. Non è comprensibile che lo Stato garantisca il metadone ai tossici ma non delle aree protette per far scannare liberamente chi ha – per sua natura intrinseca – la voglia irrefrenabile di farlo.)

Ma ora facciamo pure finta che questi violenti non esistano.

Per definire la manifestazione di ieri a Roma basterebbe lo slogan: “Una casa e reddito per tutti“.

Ecco, mi basta questo per crearmi la mia opinione. E posso pure fare finta che non esistano violenti, che non ci siano No Tav che mettono le bombe, che non esistano gruppi organizzati che occupano abusivamente le case rivendicando il fantomatico diritto di un’abitazione. Mi basta questo slogan.

Vado a pagare l’affitto.

bah

La storia della mancata sepoltura di Priebke, uno che ha ucciso cinquant’anni fa quando la scelta era uccidere o essere uccisi, mentre nello stesso tempo il capo del governo italiano che rifiuta la salma visita amichevolmente l’America, un Paese dove tanti in anni recenti hanno ucciso civili sapendo bene di uccidere civili – e in anni recenti hanno pure inventato prove per scatenare guerre durante le quali sono morti civili, a volte per sbaglio, a volte per puro sadismo – ecco tutta questa storia non è solo indegna, è proprio illogica.

a F.

Sai cosa ti avrei scritto se non fossi morto così presto?

Aspetta, facciamo che comincio dalle cose che invece non ti avrei scritto, e che invece metto qui per usare questo posto per quello che in teoria sarebbe – un diario – e per ricordare tutto in futuro.

Il giorno del colloquio dopo tre minuti non c’era più niente di formale. Si scherzava ed io mi lasciavo andare sulla sedia. Si parlava del mio futuro come se fosse scontato e come se tu avessi già deciso di prendermi. Più tardi mi hai offerto responsabilità che non avrei mai pensato possibili. Erano quelli i tempi in cui mi pareva di guidare un’astronave, come se fino a quel momento avessi guidato al massimo solo una bicicletta. Ma soprattutto, mi hai fatto vedere – vedere, non me lo hai insegnato – come si può fare tanto e comunque restare tranquilli e sorridenti. Stavo guidando un’astronave, capisci? e a volte mi veniva difficile sorridere. Ti stiracchiavi sulla sedia, mettevi le mani dietro la nuca, a volte ti sfilavi una scarpa. E mi dicevi che tanto ce l’avrei fatta. Mi dicevi – il giorno dopo la promozione -: adesso mi fa piacere se verrai a chiedermi un parere, però voglio che succeda meno spesso. Fai come ti pare, andrà bene sicuramente. Fai come ti pare, e se pure non dovesse andare bene, io sarò lì a difenderti davanti a tutti, in ogni caso, anche se hai sbagliato. Comunque vada ti difenderò. Ricordo quella volta che abbiamo attraversato il tunnel sotto la Manica nella tua auto, e durante l’attesa abbiamo visto un DVD di un telefilm che guardavi da ragazzo. Ricordo che arrivavi al mio tavolo alle spalle e mi afferravi per il collo. Quando mi voltavo e dicevo “Hey!” aspettavi due secondi prima di parlare, e in quei due secondi, sorridevi.

Avessi fatto in tempo, ti avrei scritto raccontandoti di una mattina precisa a Londra, seduti nel bar di un albergo. Raccontavi delle scelte dell’università dei tuoi figli. Uno aveva già deciso, l’altro ancora No. Descrivevi tutte le possibilità. Ed io pensavo: va bene, se questi ragazzi hanno assimilato anche solo una decima parte di questa attitude, di questo modo di stare al mondo, allora non avranno problemi: qualunque decisione sarà quella giusta. Qualunque fallimento, non sarà mai troppo grave o definitivo. Scherzando – avrei avuto il coraggio di scherzare? non lo so – ti avrei detto che ci credevo perché era una proporzione matematica: dovevo pensare a tutto quello che avevo ricevuto io nel corso di un paio di anni, quantificarlo e moltiplicarlo per tutti gli anni che i tuoi figli erano stati con te. Moltiplicarlo per l’intensità maggiore che ci devi aver messo con loro. In fondo, se uno sta per andare via, di cosa può aver paura? Di andare via, innanzitutto – mi sono detto – e di non poter far nulla per chi rimane. Ecco, avessi fatto in tempo, avrei usato un lungo giro di parole per spiegarti che secondo me non dovevi preoccuparti troppo, perché stavi lasciando tanto.

Un periodo che non scrivo non per mancanza di cose da scrivere, quanto piuttosto per eccesso.

Ho ascoltato voci che parlano di futuro. Ho visto occhi che mi guardano in un modo che io lo so – certo che lo so – devo provare a non fidarmi. Ho scritto righe per una persona che sta per lasciare questo mondo. Ho avuto voglia di fare dei regali. Mi sono comprato le scarpe nuove – in francese. Ho trovato una foglia a forma di cuore nell’insalata e l’ho portata in processione da tutti i colleghi: mi pareva la notizia più importante della giornata.

E se un giorno dovessi morire giovane, probabilmente sarà perché mi metto a far polemica con quelli che non rispettano la fila, senza pensare alle dimensioni e alla faccia da malavitoso.

Un esempio concreto ed efficace del concetto di relatività? E’ davvero tutto molto relativo, quando sta per cadere il governo, la nazione è sull’orlo del baratro, ma mi trovo in riva ad un lago appena fuori Roma a contemplare gente che si vuole tantissimo bene, penso solo a quello ed il resto non esiste.

E’ davvero tutto molto relativo, se a Lampedusa affogano centinaia di migranti ma nel frattempo cerco di adeguarmi alla moda del momento, quella del fotografarsi i piedi col mare sullo sfondo – o le rotule? non ricordo bene – mentre arriva ottobre e non mi arrendo alla fine dell’estate.

ottobre