La targa

Quando una settimana fa la polizia mi ha fermato per un controllo ed ha notato la targa dell’auto ancora nonostante tutto italiana, credevo mi attendesse una multa. Sapevo di essere in torto; non l’avevo ancora sostituita perché da un punto estetico e sentimentale la preferivo di gran lunga a quella belgica.

Il poliziotto ha detto “abbiamo un problema” ed io pur sapendo di essere in torto, ho comunque fatto la faccina del pulcino che perde di vista la gallina.

Un problema? Ma va’?!?

Quando poi più tardi ho dovuto consegnare le chiavi dell’auto e tornare a casa a piedi nella pioggia, nel vento freddo, non sapendo esattamente cosa fare per sistemare la cosa, in quel momento esatto mancava solo un violino triste di sottofondo, e la scena apocalittica sarebbe stata completa. Lo sconforto era causato dal fatto che nessuno tra i poliziotti presenti sapeva dirmi quale procedura avrei dovuto seguire per recuperare l’auto: ognuno aveva la sua versione, significativamente diversa da quella dell’altro.

Ciò che ne è seguito (e che ancora deve seguire, perché sono ancora a metà) non è stato soltanto un palleggiare da un ufficio all’altro in mattinate con il vento in faccia a meno due gradi. Ho scoperto il mondo delle officine dei garagistes arabi dei quartieri malfamati di Brussélle dove la stampa dice che se cerchi bene ci trovi pure i terroristi, gente che se non ti può aiutare comunque una telefonata all’amico prova a farla, gente che ti saluta alla maniera islamica della stretta di mano e poi una pacca sul cuore, gente che fuma suda ripara e parla contemporaneamente. Ho scoperto le esistenze di gente imprigionata in uffici statali dietro scrivanie fantozziane attorniate da colori scialbi, il cui unico compito pare essere quello di ricopiare numeri e timbrare carte e aprire il quotidiano sul tavolo per poi ricominciare dall’inizio. Ho scoperto UberPop (santo, santissimo UberPop). Ho riscoperto i lunghi viaggi in autobus, l’ipnosi piacevole dell’osservare il marciapiede che ti sfreccia di fianco, il non dover attendere che il semaforo diventi verde.

Una delle cose più complicate e urgenti era riuscire a ritirare l’auto dal deposito della polizia: non si trattava soltanto di pagare una multa. Oltre ad una serie di strambi documenti, il poliziotto del commissariato aveva detto che sarebbe servito qualcuno (un garagiste) possessore di una targa temporanea di un tipo molto specifico. Il poliziotto che mi ha raccontato questa cosa non sapeva (non voleva) dirmi dove avrei potuto trovare questo garagiste e questa targa. “E’ un problema tuo” mi ha detto, da dietro un vetro antiproiettile, infilandosi un dito nel naso e usando uno di quei toni vessatori perfetti per far scattare di rabbia le persone, ignorando quanto sia complesso per uno straniero trovare qualcuno o qualcosa nelle periferie che non conosce.

Ed invece non mi sono affatto arrabbiato (la novità dell’età adulta è che mi arrabbio molto meno) ma ho piuttosto considerato l’esistenza sua di poliziotto confinato all’interno di cinque metri quadri squallidamente arredati, un’esistenza trascorsa ad ascoltare disperati che parlano di multe, vestito ogni giorno allo stesso modo. Ho soppesato la sua esistenza come quelle degli altri burocrati incontrati in questa settimana ed ho concluso che se all’interno di questa vita grama trovano una piccola soddisfazione nelle piccole angherie e sadismi nei confronti delle ombre al di la’ del vetro, allora sono davvero contento di offrirgli questa possibilità di gioia. Un misto di generosità, misericordia, kindness e elitarismo. Fate, fate pure: in fondo non mi costa niente e dura poco.

Poi ho incontrato Yassim, un marocchino di seconda generazione che mi ha spiegato come stiamo diventando tutti meno umani a causa di televisione e whattzup. Lui sapeva come fare, conosceva tutti in commissariato, e faceva i cuori con le mani alle giovani poliziotte di passaggio, e quelle sorridevano alla sua faccia maghrebina e barbuta. Abbiamo parlato di Berlusconi, dello spessore giusto della pizza, di quella volta che è scappato di casa per andare a Milano a dormire sotto i ponti. Parlando dell’attentato di Parigi ha tentato del proselitismo facendomi vedere sul telefonino questo video di Giulietto Chiesa a La7 sottotitolato in francese, citando il Papa e la storia del pugno. Ho poi conosciuto Ahmed, il suo amico cinquantenne che un giorno si è sentito male in Marocco, un medico lo ha visitato e lo ha dichiarato morto. Ahmed si è risvegliato tre giorni dopo nella cella frigorifera dell’obitorio, ha avuto la forza di bussare sul porta della cella. Ahmed aveva tutti i documenti per dimostrare la veridicità della sua storia, incluse le fotografie con le ustioni da congelamento sulle spalle, che mi ha fatto vedere una per una. Dopo il risveglio ha avuto bisogni di quattro mesi in ospedale per riacquistare la memoria. Tornato a Brussélle ha scoperto che sua moglie aveva già venduto la casa e che non era contenta di saperlo vivo: si era talmente abituata ad essere vedova che a quel punto ha preferito diventare una divorziata, lo status piu’ prossimo a quello di vedova tra i disponibili. Abbiamo convenuto che Ahmed dovrebbe raccontare la sua storia incredibile in Vaticano: in pratica lui è il nuovo Gesù Cristo, sebbene assomigli tanto a Bill Cosby e sia in dialisi causa parizale congelamento dei reni. Poi ho incontrato Marcello, un signore arruffato smistatore di auto sequestrate nato in Venezuela ma che ad un certo punto grazie a lontane discendenze è riuscito a prendere la cittadinanza italiana e per questo motivo ha fatto il militare a Lecce.

E le storie potrebbero continuare, e sono tutte storie che sarebbero perfette in un nuovo episodio della famiglia Malaussene.

Tutto senza smadonnare quasi mai, ma essendo anzi sempre preparato al peggio. Quando stamattina il tizio che inoltrava la mia pratica di immatricolazione belgica ha smesso di ticchettare sul computer e mi ha informato che non riusciva a continuare data la particolarita’ del mio caso,  e che forse dovevo presentarmi ad un ulteriore ufficio per risolvere l’inghippo, ho risposto che non c’era nessun problema, avrei fatto pure quello.  Un’altra mattina di vento in faccia, di autisti di Uber dalla faccia strana, di scrivanie orride, di bus lenti, di musica in cuffia.

Pazienza.

 

volevasi segnalare

Renzi che parla in inglese alla Merkel, qui dal 1:20. Tanta simpatia ed empatia.

Perché empatia: perché per atmosfera, inglese stentato con forte accento italiano (justeee…) e risposte glaciali ricevute da una tedesca in inglese gentile ma comunque sulle sue, inframezzate a esclamazioni in tedesco (Ach so…) tutto questo insomma mi riporta al me stesso di qualche anno fa che si svegliava presto per trascorrere le giornate nella clinica universitaria di Monaco di Baviera.

Rivedo in lui il mio essere insufficiente e inadeguato di allora – perché non capivo tutto, perché italiano, perché nuovo, perché in trasferta – al cospetto di tanta autorità germanica, femmina ma pure mascoloide (qualcuno ricorderà la teoria del CristianoMalgioglismo, comunque poco applicabile alla Merkel).

So this is Manhattan

manhattan10122013

Esiste un tipo di turismo – forse il più diffuso in assoluto – che ha come obiettivo non quello di scoprire i posti, ma invece quello di viaggiare già sapendo esattamente come sono questi posti, perché si sono visti prima mille volte in fotografia, con l’unico gusto inconscio di confermare che i posti sono esattamente come nelle fotografie. A quel punto, una volta confermata l’uguaglianza tra aspettative e realtà, si scatta una foto. E si porta a casa una foto simile – spesso più brutta – di quelle che si sono analizzate poco prima di partire. Questo tipo di comportamento non è criticabile: se la gente gode così, è giusto che continui a farlo. Questi posti visitati possono essere più o meno belli. Tra i luoghi che più di tutti si fondano su questo tipo di turismo, al primo posto direi che ci mettiamo Manhattan a dicembre.

A Manhattan a dicembre fa un cazzo di freddo. Ed ogni luogo visitato, è come averlo già visitato. La bellezza dei luoghi è solo un’eventualità. Per esempio Times Square è oggettivamente brutta. Ma non è importante questo (nessuno la considera bella o la visita per questo, come Piazza Navona): piuttosto, è importante notare che quando ci arrivi è esattamente come te la aspettavi. E cioè, è esattamente come un reparto televisori di un centro commerciale in versione ingrandita e non si discosta neanche di un millimetro da come la immaginavi.

Tutta colpa dei film. La quinta strada. Gli scoiattoli di Lower Manhattan con la statua sullo sfondo. Il venditore di hot dog ambulante. Il tombino al centro della strada da cui esce vapore e il taxi giallo che ci passa sopra. Tutta colpa dei tanti film che hai visto durante la tua vita. E non è colpa di Manhattan se c’è tanta Manhattan nei film. E se a dicembre fa freddo, e quindi rischi di congelare e passeggiare per Central Park non è poi così piacevole. E’ così e basta, a parte tutto il woodyallenesimo che ci puoi mettere, sforzandoti. Andarci apposta ti potrebbe sembrare inutile, e il non esserci stato mai, altrettanto assurdo.

Tra i motivi per perdere del tempo facendo teatro, e di farlo proprio a Brussèlle, c’è il fatto che a Brussélle tanta parte del tempo – per tanta parte della gente – è speso in lavori dai nomi altisonanti e dalle apparenze eleganti, pieni di formalità e di responsabilità.

E allora per compensare tutto questo, ti fai guidare da qualcun’altro (invece che guidare tu), deleghi responsabilità ad altri (invece che prendertele tu), fai qualcosa di molto fisico (invece di una scrivania ed un computer), dove ti devi sporcare, dove ad un certo punto sei dietro le quinte, seduto su un pavimento polveroso di legno, a bere vino rosso in bicchieri di plastica già usati da altri, e il caldo ti fa colare il trucco dagli occhi.

quella volta

Quella volta che me la trovai davanti.
Da un post del 2007:

Un giorno uscendo di fretta dal bagno della facoltà mi trovai all’improvviso di fronte alla grandissima Rita Levi Montalcini, e davvero la salutai con un Uei Ciao! come si usa fra compari, credendo per un istante di trovarmi di fronte ad una vecchia zia/conoscente del paesello di cui non ricordavi il nome. E per fortuna che la Rita Levi – con tutto il rispetto che tutti noi portiamo nei confronti del suo capoccione da premio nobel – già al tempo era mezza cieca e non si accorse di nulla.

dove sei andata a finire

Dove sei andata a finire, vita mia di qualche tempo fa, quando ancora potevo rilassarmi nel far niente, quando potevo ancora fare esercizio nobile di accidia, e nel far niente avevo molto tempo per riflettere e rimuginare e posticipare e osservare l’ombelico della mia esistenza?

Quando – esattamente – mi è cambiato tutto attorno? E’ stato poco tempo fa ma non ricordo quando esattamente: me lo chiedo adesso che gli impegni si accavallano l’uno sull’altro, il tempo si restringe, la fretta è imperitura, adesso che ti permetti di ‘uscire di casa mangiando velocemente qualcosa lungo le scale, rispondi alle domande mentre scrivi sulla tastiera di un computer, un occhio da una parte e un orecchio dall’altra, i pranzi di dodici minuti, le pisciate procrastinate.

Metti le cuffie e dimentichi di far partire la musica.

 

Ascolti le accuse di chi ti dice che non chiami mai, che sono passate tre settimane e non ci credi: tre settimane? Ascolti le minacce di chi, vestita da principessa, ti chiude in un angolo e ti infilza le unghie smaltate nella carne mano per impedirti di andare via, che riesce a farsi venire le lacrime per essere più convincente, che riesce a cadere dalle scale e rotolarti addosso, per far sembrare la scena ancora più ridicola e drammatica.

e come se non ci fossero

E come se non ci fossero gia’ abbastanza cose che girano attorno, adesso mi metto a fare pure teatro.

L’ultima volta, annissimi fa, si era all’ultimo anno di scuola del paesello. Il maestro gay probabilmente innamorato di me, mi diede per vendetta la parte di un gay. E fatela voi – voglio proprio vedervi – la parte di un gay davanti ad un pubblico di compaesellani. La feci.  Lui mi chiamo’ al telefono giorni dopo per chiedermi se volevo andare con lui in sudamerica. Gli dissi di No perche’ dovevo studiare per l’universita’.

ci dipingevano il futuro

Ci dipingevano il futuro come una realtà fatta di auto volanti e abbigliamenti metallici e alimenti liofilizzati.

Il futuro sono invece io – alle nove e mezza di sera – che piscio stimolato da due pinte di Kilkenny nel bagno di casa, mentre intanto nelle cuffie seguo una riunione di lavoro con tre continenti diversi, e le cuffie sono collegate al telefono cellulare.

E piscio.

Poi esco dal bagno, c’è lei mezza addormentata sul divano, sotto una coperta, lei che mi dice cose vietatissime del tipo mi piace questa coperta, ha il tuo odore. Io dovrei rispondere che i patti non erano questi, non era nei patti dirsi cose del genere. Ma invece mi volto verso il computer dove intanto va la presentazione coi tre continenti diversi in simultanea, premo un pulsante sul telefono e dico la mia – ma prima mi tolgo dalla bocca un chupa chups fragola e panna che avevo rubato un mese fa – e quelli dall’altra parte del filo (non c’è neanche il filo) addirittura ascoltano e rispondono pure.

Ci sono io, il giorno dopo mentre osservo lei che parla, penso senza impegni cose del tipo mi sa che hai una bellezza anni sessanta, mi piacerebbe uscire da questa stanza e comprarti una gonna o un paio di occhiali coerenti con questo essere involontariamente anni sessanta, ma mi piacerebbe “non un giorno di questi”,  mi piacerebbe praticamente adesso, senza posticipare, si esce e si va, e se la taglia non è quella giusta pazienza. Però non era nei patti pensare cose del genere.

La leggerezza consiste nel fatto che potrei smettere pure adesso di pensare ste cose, e andrebbe bene uguale.

domani

Domani mattina devo fare il serio a Londra, suddenly mi accorgo che non ho una camicia seria a disposizione, entro in un outlet compro una camicia di quelle che non si stirano, in un posto da millemila metri quadri, mi chiedo cosa faccia il commesso tutto il tempo quando non deve dire monsieur ai clienti. Intanto vicino casa chiudono tutto perché tentano di salvare il mondo, anzi l’Europa, e non so se Sarkozy mi farà prendere la metro. La globalizzazione è chiedere informazioni su questo al poliziotto mentre in cuffia ci sono i Sud Sound System, e dietro il poliziotto, le parabole di France 24. Ci sei tu ucraina che mi chiedi assaggia la mia capirinha, e non capisci che io italiano munito di vino rosso non posso proprio, voglio dire a livello legale, mischiare capirinha e vino rosso. Mi distraggo penso agli aghi infilzati nella camicia che non si stira, chiedo al cameriere se per caso me la cambiano, se per caso ne hanno un’altra in menu, che questa porcalamiseria non capisce la storia del vino rosso. Non si è offesa.

In realtà volevo scrivere un post su quanto mi fa cagare Lady Gaga.

lungo le scale che portano alla mia stanza

Lungo le scale che portano alla mia stanza – nella casa dove vivo  – da mesi sono disseminati calzini spaiati, alcuni sporchi e radioattivi, altri puliti, altri non lo so.

 

Dopo mesi di giacenza senza scopo li ho raccolti con la busta avvolta sulla mano come si fa con le cacche dei cani, e li ho buttati via. Il coinquilino Spitty Cash mette le cose nella lavatrice e poi si dimentica di riprenderle. Per giorni. La pratica che ho imparato dagli altri è quella di estrarre la roba e lasciarla sul pavimento. Solo che lui non raccoglie. Lascia lì, per giorni. La roba si asciuga. La roba perde la sua forma di “cumulo di roba bagnata” per diventare “roba asciutta sparsa per la stanza”. Che viene calpestata e si sparge ulteriormente.

 

Prima di salire sulle scale, c’e’ la scodella del gatto. Il cibo fuoriesce dalla scodella, e si sparge. Nello stesso punto Spitty Cash e il nuovo coinquilino Spitty Cash #2, identico come radici culturali a Spitty Cash (cappello hip hop in casa, funzionante grazie ad un mix di birra, mayonese e marijuana), nello stesso punto della scodella del gatto dicevo, i due Spitty lasciano abbandonate le loro scarpe. Tre quattro cinque sei paia, e se ci sono ospiti (quindi ogni sera) anche dieci paia. Gli ospiti? Parliamo degli ospiti?

 

Gli ospiti anche loro funzionano con la stessa benzina di cui sopra. Ci sono le fidanzate di Spitty #1, ambedue ossigenate e tabagiste accanite. Sono fidanzate in parallelo, credo che ognuna ignori l’esistenza dell’altra, anche se visto il contesto potrebbe essere che invece sappiano tutto. L’attivita’ principale è quella di adagiarsi su Spitty #1 mentre lui e’ sparapanzato sul divano a guardare stronzate in televisione per cinque ore di fila (cinque sono le ore che sono a casa dopo il lavoro, ma non e’ escluso che comincino ancora prima, tipo già di primo mattino) fumando droghe leggere in continuazione – così poi che suona il campanello (ci sono nuovi ospiti in arrivo) e quando lui si alza improvvisamente dal divano lo vedi benissimo che il principio attivo della cannabis “gli arriva” tutto in un botto a causa della posizione di homo erectus, e allora lui procede barcollando appoggiandosi al muro. Se invece gioca ai videogiochi la sua donna può solo sedersi vicino a lui, non e’ autorizzata ad addossarsi.

 

Fidanzata#2 fa come la #1, solo che ha una variante interessante. Comincia ad urlare. Sale a cavalcioni su Spitty seduto sul divano, e poi si dimena in questa posizione urlando forse per le risate (non lo so, non comprendo l’idioma) e si calma solo per tirare dalla sigaretta. La persona più normale della casa è l’Apprendista Parrucchiere, che vive per i fatti suoi e la mattina si pettina le sopracciglia per venti minuti in bagno. A parte questo, si porta il lavoro a casa, nella forma di teste di manichino con i capelli attaccati. Queste teste con i capelli tagliati storti vengono abbandonate di solito fra le paia di scarpe vicino alla scodella del gatto, oppure nello sgabuzzino/dispensa. Così che sugli scaffali della dispensa si possono trovare scatole di pelati, cipolle e teste di plastica che sfoggiano tagli emo in una vaga sensazione di cesareragazzi.

 

Ma tutto questo per dire cosa.

 

Tutto questo (e pure le mie innumerevoli e precedenti avventure per trovare casa, che solo i lettori più affezionati ricorderanno) per dare una minima idea, una pallidissima idea, della mia sensazione nel dialogare con la signorina delle risorse umane del Nuovo Lavoro (anzi chiamiamolo Lavorissimo) quando le ho detto era tutto ok ma che dovevo solo trovare casa a Bruxelles, e lei spostando una penna mi ha risposto:

 

"Ah, non c’e’ problema".

 

E questo “ah, non c’e’ problema” significava che la casa me la sarei scelta io stesso da un catalogo, scegliendo zona della città, numero di stanze, se volevo o no il giardino eccetera eccetera e poi avrebbero pensato a tutto loro. Nei primi tempi, pure a pagarla. Una casa intera. Ah si’? Ho risposto io, cercando in tutti i modi di fare finta che mi pareva il minimo, mi pareva – mentre invece la guancia destra, dove quando rido si forma la fossetta, si era irrigidita, e lo sapevo che avevo una faccia tipo post anestesia dal dentista.

 

Si si mi fa lei. Sceglila pure sul catalogo. Sul catalogo c’e’ scritto che mi vengono pure a fare le pulizie. Io leggo questa cosa e subito penso alla fidanzata #2 che cavalca Spitty e mentre urla fa cadere la cenere della sigaretta sul divano, e il gatto che impazzisce per il fumo passivo continuativo e comincia a correre per la stanza. E i mobili “ovviamente” te li trasportiamo noi – dice quella – e siccome inizialmente vivrai in questa casa che ti scegli sul catalogo che e’ già tutta furnished, te li teniamo noi da parte in un posto, così che poi quando trovi casa, noi te li portiamo nella nuova casa.

 

Ah, e poi “ovviamente” ci sarà Tizio che ti contatterà per aiutarti nella ricerca di una casa più adatta alle tue esigenze, e se tu gli racconterai le tue esigenze (per esempio lo vuoi il giardino?) lui cercherà’ al posto tuo e prenderà appuntamenti al posto tuo. Ma va? diceva la mia guancia contratta, mentre invece la voce avrebbe voluto dire “Ebbe’ Certo, ci mancherebbe altro” e poi la mente correva alla mia lattina di aranciata, ché quando l’ho presa dal frigorifero ieri sera l'ho trovata avvolta da uno strato non omogeneo di mostarda, e poi subito ho pensato, vengono a prendermi i mobili ma io NON HO mobili, cosa devo fare? dovrò comprarmi una poltrona costosissima nelle prossime due settimane solo per fare bella figura?   

certe cose te le devi appuntare

Certe cose te le devi appuntare per poterle ritrovare più avanti. Per esempio che tempo faceva stamattina, Perché uscito di casa prestissimo alle sette e mezza ti sei trovato sotto il cupolone di nuvole grigie – e invece avresti voluto che in una giornata del genere ci fosse stato il sole. Sei stato accontentato, dopo le tue ore di viaggio, il sole è arrivato.

 

Faceva così caldo che la tua nuova giacchina da persona seria sembrava troppo pesante. E ti muovevi nel sedile della macchina infastidito dal caldo, sapendo che così avresti creato pieghe sulla camicia e sulla giacchina. Ma arrivati a sto punto non ti interessava più molto.

 

E poi altre cose te le devi appuntare tanto per avere un'idea quando sarà, tra tantissimi anni, quando ti chiederanno per quale motivo hai tenuto un diario per così tanto tempo, a quale scopo. Per esempio appuntare che nella macchina mentre creavi le pieghe alla tua giacchettina ascoltavi Marmellata #25, How Did All These People Get in My Room, Baciami Ancora e gli ExOtago. E poi che arrivato a destinazione, ti hanno fatto entrare in una stanza con una grande vetrata, e fuori dal vetro c'erano alberi coi fiorellini rosa di primavera che ti parevano i mandorli del paesello.

 

Hai scherzato con un direttore (d'ora in poi il Direttore) dicendogli che oggi potevi fare qualsiasi cosa ma in ogni caso dovevi preservarti la mano destra intatta. E perché?

 

Perché poi dovevi entrare in una stanza e mettere la firma sul contratto del tuo prossimo lavoro, quello che non ci credi che l'abbiano dato a te, quello che leggi il nome dell'employee sul contratto e coincide  incredibilmente con il tuo e allora pensi mbah, che coincidenza, questo si chiama proprio come me, e cosa ci faccio io seduto su una sedia con un contratto in mano con un nome sopra che coincide con il mio? Non è incredibile? Lo è.

 

Mettere la firma e come leggere la prima riga di un nuovo capitolo di un libro. Leggi la prima riga e sai che quindi andrai avanti a leggere, non spegni la luce, non vai a dormire – come io ieri sera con Haruki.

 

Andrebbe appuntato pure che dopo, quando hai salutato tutti, hai girato a casaccio e ti sei fermato in un bar pieno di finestre in un quartiere di immigrati. C'erano tre ragazzi caffellatte che giocavano a calcio sul sagrato di una Chiesa. Ci sono io, nel bar, che chiedo una cheescake e un the. Lo stereo manda i Blur degli anni novanta. Quello dietro al bancone mi dice dopo due minuti che non ha la cheescake. Prendo un Martini bianco in ghiaccio, ricordandomi che non sempre si può avere quello che si vuole. Epperò non vuol dire che può essere comunque tutto bellissimo.

nuovi orizzonti lapponici

La Meisje l’altro giorno é traslocata in Danimarca per il suo nuovo lavoro. Quindi io adesso rispetto a lei sono a Sud. Gia’ da prima io ero il mediterronico e lei la nordica, ora le giuste distanze sono ristabilite. La Meisje in Danimarca significa che adesso si andra’ a visitare questo nuovo paese lapponico, e per la precisione una zona sperduta di questo paese lapponico, che dalla pagina di wikipedia vengo a sapere ha meno di 1 abitante per km quadrato. E io non lo so se mi spaventa di piu’ avere troppa gente in giro, o averne troppo poca, o avere troppo freddo, o averne troppo poco, il traffico esagerato della mattina, o nessuno per strada alle sette della sera. Non lo so, e comunque sto divagando. Fino ad ora conoscevo soltanto un Daniele, in Danimarca, e quindi erroneamente pensavo che in Danimarca ci potevano andare solo i Danieli e Daniele, toh, al massimo i Danilo, ma non le Meisje.

caro ragazzo

Tu forse credi che io non ti pensi. Invece ti penso.

Tu, caro ragazzo che mentre io ero in Salento a dire Buon Natale ti avvicinavi alla mia auto parcheggiata in Belgio e ci staccavi entrambe le targhe. Tu, caro rubatore di targhe.

Ti penso, sai?

Quella notte, al freddo, mentre cercavo una stazione di polizia vagando senza targhe – avendo paura di ogni auto alle mie spalle, vedendomi gia’ in galera senza riuscire a spiegare nulla in francese – in quei momenti ti pensavo, ma erano pensieri violenti che non preferisco mettere da parte. Pero’ questo non vuol dire che non io non ti pensi. Ti vedo. Non ti immagino, ti vedo proprio. Secondo me sei basso e sorridente. Quella sera non sapevi cosa fare e mi hai staccato le targhe. Secondo me ridevi coi tuoi amici. Forse c’erano amici con te, che ti hanno pure aiutato, ma io penso a te, precisamente a te, che’ sei tu quello che gli e’ venuta l’idea.

Fossi stato li’ mentre lo facevi, sarei saltato fuori e sarebbe stata violenza. Di quella che scatta improvvisa, si sviluppa e si esaurisce, molto molto prima di fornire qualsiasi spiegazione. Da fartelo capire molto dopo, che ero io il proprietario della macchina.

Mi hai lasciato anche una stellina natalizia sull’antenna. Ed io ti penso. Mentre pedalo 10 chilometri nella neve per andare al lavoro, ti penso. Arrivo sfinito che non ci sono abituato, con il freddo tutto al centro degli occhi – unico punto scoperto – e le gambe molli. Quando spiego a tutti: mi e’ successa sta cosa, e gia’, che ridere. Eh, eh, eh, faccio con gli altri. E poi penso a te. E non ti auguro violenza ne’ malattie – questo era solo il primissimo pensiero – ma ti auguro fastidi incomprensibili, che ti facciano snervare come mi sono trovato io, snervato e stanco nella notte belga che non sapevo dove andare. Ti auguro di perdere le valigie nel tuo viaggio piu’ bello, e di perdere l’unica copia delle chiavi di casa. Che si rompano le tubature del bagno mentre sei in vacanza – e hai perso le valigie – e quando torni vedi l’acqua che esce da sotto la porta ma tu, caro ragazzo, non puoi aprire, che’ hai perso le chiavi, da qualche parte nell’altro lato del mondo. Con affetto.

Lu crocifisso

Se c’é stata una cosa che mi ha smitizzato completamente la religione é stato proprio lu crocifisso in classe – scusate, troppo forte la tentazione dell’articolo determinativo salentino anche oggi che sono all’estero, ricordando i vecchi tempi.

Ché uno nascendo in Italia, cresce con il timore reverenziale delle cose di Chiesa, é automatico no? e poi lentamente – naturalmente – questo timore cala col tempo. Comincia a calare molto tempo prima di leggere di preti pedofili e verginita’ prematrimoniale. Comincia con cose tipo lu crocifisso in classe. In classe, capito? Sarebbe questo il luogo dove ho assistito alle piu’ infime celebrazioni di bassezza umana, a mediocrita’ devastanti e maggioritarie. Lui era li’, lu crocifisso, e non muoveva nemmeno uno dito di plastica, osservando tutto sto sfacelo. E fino a quando te lo trovi gigante, in Chiesa, magari il timore ancora resiste. É enorme e mette paura mentre tu sei piccolo piccolo. Ma se te lo vedi la mattina presto – tutte le mattine presto – in classe, in certi inverni di freddo mortale che restavi mani in tasca del giubotto fino alle dieci, e sopratutto se te lo vedi li’ sul muro mentre tu cresci in altezza tanto da poterlo toccare e notare da vicino com’é piccolo, che volendo potresti staccarlo e portarlo via, ecco che il timore scende paurosamente. In classe ci si massacrava allegramente di mazzate, con mille armi diverse. Fionde, taglierini, quadernoni di cartone pressato, matite appuntite. Se ci si massacrava di mazzate vicino alla cattedra, poi, in mancanza di altro, si staccava lu crocifisso e lo si martellava sul cranio dell’amico fraterno. Toc, toc, toc! Beccati stu crocifissu! Toc! Basta? Non basta? E cosí via. Toc! Mazzate purissime e divertentissime che si tornava a casa con la pancia dolente dal ridere. Oggi mi ricordo di sto crocifisso di classe, che a causa delle manipolazioni  – o forse perche’ non era fissato bene al chiodo e cadeva spesso giu’ – si era rotto a livello delle gambe di plastica, poco sopra le ginocchia. I piedi erano collegati piu’ in basso alla barretta di legno, ma non essendo piu’ vincolati al resto del corpo, ora potevano roteare liberamente con moto circolare. Dopo averlo utilizzato per scavare buchi nei crani dei cari compagni di classe, lo si rimetteva a posto poco prima che la ricreazione finisse. Si cercava di riposizionare le gambe roteanti in assetto verticale, in modo da farlo apparire integro. Ma poi – segno del divino? vittoria dell’illuminismo newtoniano? che ne so– durante l’interrogazione vaneggiante dei professori, quello improvvisamente Opla’! tornava con le ginocchia rivolte al pavimento. Bei tempi.

faccio cose 090909

E quindi non dormo abbastanza. Gia’ so di avere le occhiaie prima di tirarmi su dal letto. Dietro la porta il nuovo coinquilino tedesco dice: qui invece ci vive un ragazzo italiano. E poi una voce femminile che ride. Dev’essere la nuova coinquilina indonesiana. Io gli indonesiani onestamente non ce la faccio piu’. La puzza di cucina indonesiana pensavo di avere chiuso, e invece No.

Eppoi almeno in italiano dici indonesiano, che suona bene, in inglese invece dici indoníscia, aggettivo indoniscian, che non suona tanto elegante. Cerco casa. Mi chiamano per una casa. Ti piace la camera? mi chiede sto bovino barbaro. Mi piace. Anche senza pavimento? (non c’é il pavimento) senza intonaco, senza frigorifero e lavatrice e piano cucina (che non ci sono, li devi comprare a parte e metterli vicino al letto). Sí sí mi va benissimo, dico io. Dividerai il water – solo il water, eh! – con quello che vive di la’. Comunque é per poco, perché poi lo mandano via. Anzi, adesso é pure in galera. Ma va’? Vuoi la sua camera? Te la faccio vedere, li’ pero’ c’é il pavimento.

La porta é chiusa. Il bovino – é una bovina – infila una mano nella finestra, dal balcone, e sposta la tenda. Un tugurio, ma enorme, e col pavimento. Col pavimento! Ci mettiamo a discutere: secondo te lo portano via, il pavimento, prima di lasciare la camera?  Va be’, dico mi piace di piu’ quella di prima, Sí Sí tranquilla – bovina! – mi piace tantissimo. Poi invece quando torno a casa parcheggio la macchina, affloscio la testa fuori dal finestrino, ci penso due minuti e infine le mando un sms dicendo che mi dispiace, ma forse é meglio di No. Oh, fa lei – eri la mia prima scelta. In quel momento, dall’altra parte della strada, una ragazza si affaccia a intervalli regolari dalla finestra e chiama qualcuno, non capisco chi, ma dal tipo di nome dev’essere – lo spero per lui – al limite un gatto.   

faccio cose

Un vento oggi in Paese Basso che non si vive.

Piove e gli oriundi attendono che passi incollati ai tronchi degli alberi. Perché poi col vento passa. Io che non sono oriundo cammino come un cretino con l’ombrello. Ma sono un cretino, e il vento cambia sempre direzione, l’ombrello si apre al contrario, e dopo aver smadonnato penso che forse era meglio aspettare incollati ai tronchi degli alberi. Scopro questa cantante che si chiama Emiliana Torrini che però è islandese. Viene qui a suonare tra poco. Non mi piace. Cioè, è brava, ma non mi piace. La mia padrona di casa si lava i capelli rossi ingelatinati nel lavandino della cucina. La mia padrona di casa mi dice che la casa è in vendita e allora fra poco devo andare via da qui. Siccome è in vendita, e siccome la mia padrona di casa è un agente immobiliare, conosce tutti i metodi per vendere la casa. La casa per essere venduta, mi spiega, deve essere quasi vuota, che pare più grande. Così mi entra in camera e mi svuota la camera, nasconde tutto, con la promessa di mettere di nuovo tutto a posto, col risultato che non trovo il mio libro di Cappelli ma trovo un vaso di fiori viola sul comodino. Che non è mio, il vaso, e lo devo restituire. Col vaso che perde terra da sotto.

La lavatrice gira. Stiro le camicie.

la terza dolore e spavento

Non potrai dirti mediterronico certificato come il sottoscritto se non ti sei fatto almeno un paio di anni sulla Freccia Salentina Milano Lecce. Io ho dato il mio partendo da Bologna, trascorrendo lunghe notti di passione e di sapone olezzoso – quando andava bene, che il sapone c’era – e di carne da macello ammassata nei corridoi. Di biglietti venduti oltre le possibilità del treno e di vagoni aggiunti all’ultimo momento per starci dentro tutti. Ora finalmente, il giusto riconoscimento.