bisogna smetterla

Dunque ricapitolando, dei cosiddetti antagonisti hanno cercato di bloccare un dibattito pubblico con il Ministro del Lavoro; qualche giorno prima dei cosiddetti antagonisti hanno cercato di bloccare un dibattito pubblico con il Ministro dell’Istruzione; infine dei cosiddetti antagonisti con le molotov sono stati arrestati mentre preparavano una “dimostrazione” contro l’Expo. Oggi antagonisti a Milano imbrattano gli esercizi commerciali. Tutto nel giro di pochi giorni.

A parte il mio innato fastidio per tutti coloro che con piglio fascista vogliono bloccare dibattiti ed eventi pubblici, verrebbe da pensare che queste persone (seppure fasciste) abbiano delle cose importantissime da dire. E che quindi utilizzino la violenza per farsi ascoltare.

Il Ministro Poletti, contestato, ha dato la possibilita’ ad uno degli antagonisti di spiegare le ragioni della contestazione. La prescelta e’ stata una certa Maria Edgarda, studente di Filosofia che nel momento in cui ha avuto un microfono davanti e gente che la ascoltava, ha purtroppo dichiarato questo:

Non ci racconti che il Paese sta cambiando, io lavoro per sei euro all’ora e lei viene qui e dice delle cose, ma poi fa passare il Jobs act e dopo tre anni la giostra si ferma e io sono daccapo. Ma lei sa cosa è davvero la precarietà? Non credo”. “Create la fiera del lavoro precario – ha ancora aggiunto -, dilapitate le risorse dei territori per cementificarli. E’ una farsa questa

Ovvero parole nemmeno originali, opinioni già rappresentate all’interno dei processi democratici (seppure come opinione di minoranza). E poi una confusione tra le esperienze personali e le decisioni di politica interna.  I manifestanti contro l’Expo oggi mostravano striscioni con la scritta “Io non lavoro gratis per Expo”. E chi vi ha chiesto niente, verrebbe da rispondere.

Va detto che anche gli stessi manifestanti che oggi volevano spaccare le vetrine di Manpower erano una esigua minoranza all’interno della manifestazione (tanto che si sono accapigliati tra violenti e pacifici).

Lo ripeto di nuovo: questi non sono ne’ militanti politici ne’ criminali. Semplicemente fanno parte di quella piccola percentuale fisiologica di persone che in ogni tempo, e in diversi modi (chi negli stadi, chi nelle guerre simulate, chi con il terrorismo) ha bisogno di vivere cosi’, opponendosi con violenza ai detentori del potere, immaginandosi guerrigliero per sollevarsi da esistenze insopportabili perché normali (ma dati alla mano, esistenze per lo più mediocri) e auto includersi in esistenze epiche, significative, rilevanti. L’obiettivo lo si raggiunge imbrattando i monumenti oppure in una rissa di tifoserie avverse. Altri obiettivi significativi con la rivoluzione e la violenza non sono mai stati raggiunti nell’era moderna. Bisogna quindi smetterla di ascoltare le ragioni proposte da chi urla (giacche’ spesso poco solide) e cominciare invece ad analizzare il fenomeno da un punto di vista scientifico se non proprio medico. Non si tratta di dare delle risposte alle loro proteste: questa piccola percentuale fisiologica di persone ha un bisogno fisico di vivere cosi’ e qualora una valida risposta venisse data, loro cambierebbero la domanda pur di continuare a combattere, piuttosto che vivere. Ce ne sono tanti, di esempi di “combattenti” che sono passati da una causa all’altra nel corso della loro vita, dimostrando che e’ il come, piuttosto che il cosa, che gli sta a cuore. Bisognerebbe cominciare ad identificare queste persone e permettergli di sfogare queste necessita’ in sicurezza (per loro, e per la comunità). Credere di poter eliminare completamente il problema e’ irrealistico, sarebbe come immaginare di eliminare completamente la tristezza, la noia o la frustrazione dallo spettro dei sentimenti umani.

Non si puo’.

Dovessi mai essere intervistato da un giornalista di una trasmissione d’inchiesta d’assalto tipo Report, accetterei solo a patto di essere ripreso con le stesse identiche luci e inquadrature dell’intervistatore. E quindi esigerei – come il giornalista che mi intervista – di non essere ripreso in faccia da molto vicino, di non essere ripreso dall’alto verso il basso, di non essere ripreso con le luci sbagliate in faccia. Nell’era della comunicazione tutte queste cose possono – purtroppo – fare la differenza. Anche quando hai qualcosa di sensato da dire, farai la figura del deficiente messo in difficoltà.

osservo in un pub

Osservo in un pub ad un tavolo vicino la rappresentazione materiale di uno dei miei incubi: le uscite a bere qualcosa di coppia più coppia. Dopo i saluti iniziali lei parla solo con lei, lui parla solo lui, poi ognuno prende la parola al plurale dicendo sempre noi (visto che in quel contesto nessuno rappresenta se stesso ma solo la parte di un qualcosa plurale).

Andando avanti nel tempo si finisce per definirsi amici non per affinità fondamentali ma per similitudine di condizione, ci si frequenta anche per anni senza ricordare chi è che lo voglia veramente, forse soltanto uno del noi, l’altro invece accetta passivamente di sfracicarsi le palle, a volte lo rivendica bofonchiando guidando verso casa, nella testa pianifica di usare questo sacrificio come moneta di scambio per qualcos’altro.

La misura del fatto che non riesci a stare dietro a tutte le cose che ti proponi di fare – troppe – è quel biglietto che ti hanno lasciato sulla macchina scritto a mano, te l’ha lasciato qualcuno o qualcuna dopo averti colpito lo specchietto retrovisore, e c’è scritto che questo qualcuno o qualcuna si scusa, e di chiamare un numero di telefono per il risarcimento, e tu ti dici va bene chiamerò domani, poi domani non chiami, poi perdi il biglietto, dove lo hai messo, poi ti dimentichi, poi torni a casa una sera e chiudi la portiera noti il danno – lo specchietto si è riattaccato ma fa uno strano rumore quando la portiera si chiude – ti ricordi che devi fare qualcosa, chiamare qualcuno o qualcuna, ti distrai vedendo i primi alberi in fiore – è primavera – ti ripeti che chiamerai domani, sai già che non lo farai e soffrirai di lievissimi e superabili sensi di colpa.