Il resoconto di questo viaggio inizia con quello spiritosone del pilota, che sapendo di avere l’aereo zeppo di italiani che vorrebbero vedere sta benedetta partita della nazionale, ma non possono, prende il microfono e annuncia dalla cabina, in tedesco:
(già spiegato che il tedesco io lo capisco solo a piccoli tratti, tutto il resto per me è bzzzzz)
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“ Mi arriva la notizia bzzzzz calcio bzzzzzz Australia Italia bzzzz un goal bzzz c’è stato “
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Panico.
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Goal cosa? Goal chi? Goal come? Goal in che senso? Specifica, capitano! Goal dove, goal perché? Niente, nessuno dice niente. Nell’aereo i tifosi italioti si guardano tra loro, preoccupati.
Allora mi massaggio le mandibole per prepararle alla formulazione di una frase in tedesco da rivolgere ai tre germanici seduti davanti a me. Quando sento che le mandibole sono calde, che la lingua è pronta, mi butto:
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“ Scusate! Sono io che niente del capitano parlare non capire, o il capitano non della partita chi goal fatto non dire? Cioè, non detto? Eh? “
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E mentre vorrei darmi una pacca sulla spalla da solo per l’esorbitante numero di parole che sono riuscito a mettere una dietro l’altra, i tre germanici si guardano schifati e mi rispondono- misericordiosi – in inglese:
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“ No, il capitano non ha detto chi l’ha fatto, il goal.”
“ Ah, be’, grazie”
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Più tardi il capitano ( capitano mi stia a sentire ho belle e pronte le mille lire, se chi ha fatto sto benedetto goal mi vorrai dire) decide di annunciare che la partita è finita uno a zero für Italien.
Urla e applausi, evitabilissimi cori da stadio improvvisati da una porzione di passeggeri, i tre germanici davanti che si dicono qualcosa, le hostess stagionate della compagnia low cost che aspettano di veder tornare la calma, la calma che torna.
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E poi: aereo che atterra, bagaglio che prendo, albergo che trovo, doccia che faccio.
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Pace.
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L’appuntamento col boss della multinazionale è per la mattina del giorno dopo. Per la paura di arrivare in ritardo punto la sveglia quattro ore prima e al primo squillo sono già in piedi, scattante, operativissimo. Continuo a ripetermi: allora, allora, allora. Mi travesto da pinguino da blu, con la bella camicia celeste del matrimonio e la mia giacca da damerino. Allo specchio ho un aspetto abbastanza credibile. Un pinguino damerino, che da’ sul celeste. La giacca, me ne accorgo in quel momento, ha una quasi bruciatura di sigaretta sul polso. L’ultima volta che l’ho messa- ricordo- ero a Monaco, in un locale fumosissimo. Si avvicinò questa tipa e dopo un discorso di circa venti o ventidue parole mi infilò la lingua in bocca, per poi ritrarla dopo un paio di minuti, e dirmi che era tanto tanto triste, perché da due settimane si era lasciata col suo ragazzo, e che proprio non poteva. E che se pure voleva, non poteva.
Non puoi? le chiesi.
Non posso, mi disse. Ti dispiace?
Macchè, dissi io, non vedi come sei triste?
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Arrivo all’ indirizzo che mi aveva dato la segretaria del Boss, e ci arrivo con l’autobus dopo un viaggio tra stradine di campagna di quaranta minuti. La megasede della multinazionale è immensa, in pratica è una città con la recinzione alta tre metri. Alla reception ci sono tre personaggi che mi annunciano al telefono. Sento la signora che dice al telefono: è venuto a piedi. Io penso: signò, ma cosa gliene frega a lei? Mette giù la cornetta, riesce a produrre un cartellino dove sopra c’è stampato il mio nome preceduto dalla parola “signore” e mi dice, un po’ stufata: La accompagneremo all’edificio. Si appenda questo, intanto.- E mi da’ il cartellino. Sento che la cosa si fa seria e continuo a ripetermi: allora, c’ho il cartellino, sono dentro, allora, sono dentro, allora..
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Quindi mi fanno salire in una macchina nera, e mi portano in giro tra stradine che sono tutte all’interno di questo grandissimo parco che è la sede della megamultinazionale. Ci sono i laghi, i castelli, i boschi. Capisco perché era così importante il fatto che ero venuto a piedi. Mi scaricano davanti ad un edificio. Entro. La segretaria biondissima del Boss mi dice: Lei è Mister Rafeli? Venga con me. Le seguo, col braccio torto in modo da nascondere la bruciatura. Penso che è la prima volta che mi chiamano Mister.
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E quindi mi si spalancano le porte del Boss che mi accoglie con strette di mano e sorrisi, mi dice Si sieda, Si sieda, Mister Rafeli. Io mi siedo. Vuole qualcosa da bere? No, niente, grazie. ( questo è il primo di una innumerevole serie di grazie che pronuncierò poi nelle seguenti due ore). Un po’ d’acqua? Va bene un po’ d’acqua, dico io. Il boss si alza e mette un mano sulla parete e la parete – cazzo – si sposta! E dietro la parete – cazzo! – c’è un bar.
Capisco che se avessi detto: massì, vorrei un Cuba Libre, quello mi avrebbe fatto il Cuba Libre. C’ho la mandibola che rasenta il pavimento, la tiro su.
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Il boss si siede e mi invita a parlare, mi dice: Su, allora, Mister Rafeli, mi dica, mi dica.
Ed io, allora, gli dico.
Dico che vorrei scrivere sta Tesi e che per scriverla mi servirebbe passeggiare qua e la’ nei loro laboratori. Il Boss annuisce e – cazzo – prende appunti! Io dico: vorrei fare questo, e lui lo scrive. Io dico: il titolo sarebbe questo, e lui lo scrive. Io parlo, e lui scrive. Sento che comincio a sentirmi davvero Mister, e faccio qualche sorso d’acqua.
Poi dico: E insomma, tutto qui.
Lui mi dice: Ma Certo, ti facciamo il cartellino e non c’è problema. E’ un simpatico nonnino, il Boss. Con una simpatica panza da birra.
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Quindi mi porta in giro dai suoi adepti, bussa alle porte degli uffici e dice a tutti: Lui è mister Rafeli, verrà da noi tra qualche mese. E tutti a dire: Ma Certo Ma Certo. Io inizio ad avere una strana sensazione. Tutta sta gentilezza, sta disponibilità, mi insospettiscono. Questi qui –penso- non ci guadagnano niente se io vengo a rompergli i coglioni per la mia Tesi. Non sono in contatto con la mia Università. Ho mandato una mail e loro mi hanno detto Si. Io sono terrone, e in quanto terrone, sono sospettoso. Sempre.
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Torniamo nel suo studio e il Boss mi dice: Ah, Mister Rafeli, mandi via mail alla mia segretaria tutte le spese che ha sostenuto, biglietti aerei eccetera, e le spese le verranno rimborsate. Lo guardo. Mi guarda. Ha capito? mi chiede. Dico di Si, ma intanto divento ancora più sospettoso. Dico Grazie, tanto per cambiare. Prego, mi risponde. Andiamo a mangiare? mi chiede. Andiamo, dico io. Mi aspetto che faccia muovere una parete e che dietro la parete ci sia una cucina, e invece usciamo dall’edificio. C’è un grande prato con un laghetto, e nel laghetto le anatre. Penso al Cazzo dell’Anatra. Penso che questa è una situazione confusa come può esserlo solo un Cazzo di Anatra.
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Entriamo in quella che dovrebbe essere la mensa della Megamultinazionale. Dico Mensa, ma in realtà era un giardino botanico. Alberi di banano alti dieci metri, una collinetta con una vegetazione fittissima e tutto attorno, uno stagno con i pesci. Il Boss mi dice: qui ci sono piante che provengono da tutto il mondo. Io dico Si e per poco non mi scappa un altro Grazie. Negli spazi tra la vegetazione, in pratica una giungla, trovano posto questi tavoli dove la gente mangia. Il Boss mi da’ questa tesserina e mi indica il buffet e mi dice: prendi quello che vuoi. Io prendo la tessera e il mio essere sospettoso cresce ancora, e ancora.
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Il fatto è, dicevo, che sono terrone.
Io so che nessuno ti da’ niente per niente. Se qualcuno ti regala qualcosa, è perché ti vuole inculare. Magari non subito, ma prima o poi ti vuole inculare. Se qualcuno mi regala qualcosa, io devo guardarlo con sospetto. Se ti regalano una penna è perché ti vogliono vendere l’enciclopedia. Se ti regalano una caramella – il caso più grave – è perché ti vogliono fare Chissà Cosa. Lo diceva pure Biagio Antonacci “ perché qui nessuno ti regala nienteee, e devi stare sempre attento a tuuuttooo!”
Stare attenti, bisogna.
Ed io attento, sto.
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Siamo fuori dalla mensa. Con le panze satolle torniamo all’ufficio del Boss. Il Boss più satollo di me, anche se in pratica ha mangiato tre funghi e due pomodori. Arriva il momento del congedo. Mi dice: il taxi dovrebbe essere qui a momenti. Io penso: merda. Quaranta minuti di bus per arrivare qui: col taxi spendo un capitale. Dico al Boss: ma No, posso tornare pure col Trasporto Pubblico. Il Boss si volta e mi Dice:
– Come? –
– No, niente. –
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Arriva il Taxi e il tassista scende trafelato chiedendo: Mister Rafeli? Io dico: certo, sono io , il Mister. Il Boss dice al tassista l’indirizzo del mio hotel. Ci salutiamo. Ciao Ciao e tante tante Grazie. Il Boss va via, ed io lo guardo attraverso il finestrino. Il taxi parte.
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Appena siamo fuori dico al tassista:
“Pensavo che forse potrebbe lasciarmi vicino alla stazione della metropolitana, invece dell’albergo”
“……”
“Si, insomma, così posso fare una passeggiata”
“Il Boss ha detto l’albergo”
“ Si ok, ha detto così, ma adesso io pensavo che…”
“Ha detto l’albergo, il boss.”
“Non si può cambiare?”
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Silenzio.
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La verità: un po’ mi sono cacato addosso.
Sta Mercedes con gli interni di pelle nera, il tassista che era uguale al maggiordomo della Famiglia Addams, e questo tassametro che andava e andava.
E andava.
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Pensavo a Biagio Antonacci e ai cazzi di Anatra, pensavo a me stesso fatto a pezzi e i miei organi venduti a peso in qualche mercato nero dell’Europa dell’ Est. Pensavo all’albero di banano della mensa. Pensavo al tassametro, soprattutto.Che andava e andava.
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E andava.
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Siamo sotto l’albergo. Guardo il tassametro: 30 euri. Mi ispeziono il portafoglio: ce la faccio, ne ho cinquanta. La figura di merda è sfumata. Porgo i cinquanta al Leerch versione tassista e quello – lo giuro – mi fa:
“ Nein! Non si paga!”
“ Come non si paga?”
“Non si paga.”
“ Ma perché, scusi?”
“ Paga il Boss. Mettere firma qui. Grazie.”
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Oh madonna Oh madonna – penso – e scendo da sto taxi con gli interni di pelle nera, questa pelle forse in passato appartenuta a qualche congolese che si era ostinato a pagare il conto del taxi senza farlo addebitare al Boss.
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Oh madonna.
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Entro in albergo guardandomi attorno, sono sospettosissimo. La receptionist zoppa e con gli occhi strabici mi vede e mi dice Guten Abend con un sorriso strabico quasi quanto gli occhi, se non di più.
Nella mia camera lo specchio restituisce una immagine di me ancora più pinguino celeste, se possibile, con in più questo cartellino appeso alla giacca dove c’è scritto Signor Rafeli. Penso che se il giorno dopo la receptionist non mi farà pagare il cazzo di conto, le darò un pugno sul naso che le aggiusterà in un solo colpo occhi e bocca.
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Che qui nessuno ti regala niente, diceva quello.
E se per caso qualcuno mi regala qualcosa, io lo prendo a pugni sul cranio.