eccomi qua

Il resoconto di questo viaggio inizia con quello spiritosone del pilota, che sapendo di avere l’aereo zeppo di italiani che vorrebbero vedere sta benedetta partita della nazionale, ma non possono, prende il microfono e annuncia dalla cabina, in tedesco:

(già spiegato che il tedesco io lo capisco solo a piccoli tratti, tutto il resto per me è bzzzzz)

“ Mi arriva la notizia bzzzzz calcio bzzzzzz Australia Italia bzzzz un goal bzzz c’è stato “

Panico.

Goal cosa? Goal chi? Goal come? Goal in che senso? Specifica, capitano! Goal dove, goal perché? Niente, nessuno dice niente. Nell’aereo i tifosi italioti si guardano tra loro, preoccupati.

Allora mi massaggio le mandibole per prepararle alla formulazione di una frase in tedesco da rivolgere ai tre germanici seduti davanti a me. Quando sento che le mandibole sono calde, che la lingua è pronta, mi butto:

“ Scusate! Sono io che niente del capitano parlare non capire, o il capitano non della partita chi goal fatto non dire? Cioè, non detto?  Eh? “

E mentre vorrei darmi una pacca sulla spalla da solo per l’esorbitante numero di parole che sono riuscito a mettere una dietro l’altra, i tre germanici si guardano schifati e mi rispondono- misericordiosi – in inglese:

“ No, il capitano non ha detto chi l’ha fatto, il goal.”

“ Ah, be’, grazie”

Più tardi il capitano ( capitano mi stia a sentire ho belle e pronte le mille lire, se chi ha fatto sto benedetto goal mi vorrai dire) decide di annunciare che la partita è finita uno a zero für Italien.

Urla e applausi, evitabilissimi cori da stadio improvvisati da una porzione di passeggeri, i tre germanici davanti che si dicono qualcosa, le hostess stagionate della compagnia low cost che aspettano di veder tornare la calma, la calma che torna.

E poi: aereo che atterra, bagaglio che prendo, albergo che trovo, doccia che faccio.

Pace.

L’appuntamento col boss della multinazionale è per la mattina del giorno dopo. Per la paura di arrivare in ritardo punto la sveglia quattro ore prima e al primo squillo sono già in piedi, scattante, operativissimo. Continuo a ripetermi: allora, allora, allora. Mi travesto da pinguino da blu, con la bella camicia celeste del matrimonio e la mia giacca da damerino. Allo specchio ho un aspetto abbastanza credibile. Un pinguino damerino, che da’ sul celeste. La giacca, me ne accorgo in quel momento, ha una quasi bruciatura di sigaretta sul polso. L’ultima volta che l’ho messa- ricordo-  ero a Monaco, in un locale fumosissimo. Si avvicinò questa tipa e dopo un discorso di circa venti o ventidue parole mi infilò la lingua in bocca, per poi ritrarla dopo un paio di minuti, e dirmi che era tanto tanto triste, perché da due settimane si era lasciata col suo ragazzo, e che proprio non poteva. E che se pure voleva, non poteva.

Non puoi? le chiesi.

Non posso, mi disse. Ti dispiace?

Macchè, dissi io, non vedi come sei triste?

Arrivo all’ indirizzo che mi aveva dato la segretaria del Boss, e ci arrivo con l’autobus dopo un viaggio tra stradine di campagna di quaranta minuti. La megasede della multinazionale è immensa, in pratica è una città con la recinzione alta tre metri. Alla reception ci sono tre personaggi che mi annunciano al telefono. Sento la signora che dice al telefono: è venuto a piedi. Io penso: signò, ma cosa gliene frega a lei? Mette giù la cornetta, riesce a produrre un cartellino dove sopra c’è stampato il mio nome preceduto dalla parola “signore” e mi dice, un po’ stufata: La accompagneremo all’edificio. Si appenda questo, intanto.- E mi da’ il cartellino. Sento che la cosa si fa seria e continuo a ripetermi: allora, c’ho il cartellino, sono dentro, allora, sono dentro, allora..

Quindi mi fanno salire in una macchina nera, e mi portano in giro tra stradine che sono tutte all’interno di questo grandissimo parco che è la sede della megamultinazionale. Ci sono i laghi, i castelli, i boschi. Capisco perché era così importante il fatto che ero venuto a piedi.  Mi scaricano davanti ad un edificio. Entro. La segretaria biondissima del Boss mi dice: Lei è Mister Rafeli? Venga con me. Le seguo, col braccio torto in modo da nascondere la bruciatura. Penso che è la prima volta che mi chiamano Mister.

E quindi mi si spalancano le porte del Boss che mi accoglie con strette di mano e sorrisi, mi dice Si sieda, Si sieda, Mister Rafeli. Io mi siedo. Vuole qualcosa da bere? No, niente, grazie. ( questo è il primo di una innumerevole serie di grazie che pronuncierò poi nelle seguenti due ore). Un po’ d’acqua? Va bene un po’ d’acqua, dico io. Il boss si alza e mette un mano sulla parete e la parete – cazzo – si sposta! E dietro la parete – cazzo! – c’è un bar.

Capisco che se avessi detto: massì, vorrei un Cuba Libre, quello mi avrebbe fatto il Cuba Libre. C’ho la mandibola che rasenta il pavimento, la tiro su.

Il boss si siede e mi invita a parlare, mi dice: Su, allora, Mister Rafeli, mi dica, mi dica.

Ed io, allora, gli dico.

Dico che vorrei scrivere sta Tesi e che per scriverla mi servirebbe passeggiare qua e la’ nei loro laboratori. Il Boss annuisce e – cazzo – prende appunti! Io dico: vorrei fare questo, e lui lo scrive. Io dico: il titolo sarebbe questo, e lui lo scrive. Io parlo, e lui scrive. Sento che comincio a sentirmi davvero Mister, e faccio qualche sorso d’acqua.

Poi dico: E insomma, tutto qui.

Lui mi dice: Ma Certo, ti facciamo il cartellino e non c’è problema. E’ un simpatico nonnino, il Boss. Con una simpatica panza da birra.

Quindi mi porta in giro dai suoi adepti, bussa alle porte degli uffici e dice a tutti: Lui è mister Rafeli, verrà da noi tra qualche mese. E tutti a dire: Ma Certo Ma Certo. Io inizio ad avere una strana sensazione. Tutta sta gentilezza, sta disponibilità, mi insospettiscono. Questi qui –penso- non ci guadagnano niente se io vengo a rompergli i coglioni per la mia Tesi. Non sono in contatto con la mia Università. Ho mandato una mail e loro mi hanno detto Si. Io sono terrone, e in quanto terrone, sono sospettoso. Sempre.

Torniamo nel suo studio e il Boss mi dice: Ah, Mister Rafeli,  mandi via mail alla mia segretaria tutte le spese che ha sostenuto, biglietti aerei eccetera, e le  spese le verranno rimborsate. Lo guardo. Mi guarda. Ha capito? mi chiede. Dico di Si, ma intanto divento ancora più sospettoso. Dico Grazie, tanto per cambiare. Prego, mi risponde. Andiamo a mangiare? mi chiede. Andiamo, dico io. Mi aspetto che faccia muovere una parete e che dietro la parete ci sia una cucina, e invece usciamo dall’edificio. C’è un grande prato con un laghetto, e nel laghetto le anatre. Penso al Cazzo dell’Anatra. Penso che questa è una situazione confusa come può esserlo solo un Cazzo di Anatra.

Entriamo in quella che dovrebbe essere la mensa della Megamultinazionale. Dico Mensa, ma in realtà era un giardino botanico. Alberi di banano alti dieci metri, una collinetta con una vegetazione fittissima e tutto attorno, uno stagno con i pesci. Il Boss mi dice: qui ci sono piante che provengono da tutto il mondo. Io dico Si e per poco non mi scappa un altro Grazie. Negli spazi tra la vegetazione, in pratica una giungla, trovano posto questi tavoli dove la gente mangia. Il Boss mi da’ questa tesserina e mi indica il buffet e mi dice: prendi quello che vuoi. Io prendo la tessera e il mio essere sospettoso cresce ancora, e ancora.

Il fatto è, dicevo, che sono terrone.

Io so che nessuno ti da’ niente per niente. Se qualcuno ti regala qualcosa, è perché ti vuole inculare. Magari non subito, ma prima o poi ti vuole inculare. Se qualcuno mi regala qualcosa, io devo guardarlo con sospetto. Se ti regalano una penna è perché ti vogliono vendere l’enciclopedia. Se ti regalano una caramella – il caso più grave – è perché ti vogliono fare Chissà Cosa. Lo diceva pure Biagio Antonacci “ perché qui nessuno ti regala nienteee, e devi stare sempre attento a tuuuttooo!”

Stare attenti, bisogna.

Ed io attento, sto.

Siamo fuori dalla mensa. Con le panze satolle torniamo all’ufficio del Boss. Il Boss più satollo di me, anche se in pratica ha mangiato tre funghi e due pomodori. Arriva il momento del congedo. Mi dice: il taxi dovrebbe essere qui a momenti. Io penso: merda. Quaranta minuti di bus per arrivare qui: col taxi spendo un capitale. Dico al Boss: ma No, posso tornare pure col Trasporto Pubblico. Il Boss si volta e mi Dice:

– Come? –

– No, niente. –

Arriva il Taxi e il tassista scende trafelato chiedendo: Mister Rafeli? Io dico: certo, sono io , il Mister. Il Boss dice al tassista l’indirizzo del mio hotel. Ci salutiamo. Ciao Ciao e tante tante Grazie. Il Boss va via, ed io lo guardo attraverso il finestrino. Il taxi parte.

Appena siamo fuori dico al tassista:

“Pensavo che forse potrebbe lasciarmi vicino alla stazione della metropolitana, invece dell’albergo”

“……”

“Si, insomma, così posso fare una passeggiata”

“Il Boss ha detto l’albergo”

“ Si ok, ha detto così, ma adesso io pensavo che…”

“Ha detto l’albergo, il boss.”

“Non si può cambiare?”

Silenzio.

La verità: un po’ mi sono cacato addosso.

Sta Mercedes con gli interni di pelle nera, il tassista che era uguale al maggiordomo della Famiglia Addams, e questo tassametro che andava e andava.

E andava.

Pensavo a Biagio Antonacci e ai cazzi di Anatra, pensavo a me stesso fatto a pezzi e i miei organi venduti a peso in qualche mercato nero dell’Europa dell’ Est. Pensavo all’albero di banano della mensa. Pensavo al tassametro, soprattutto.Che andava e andava.

E andava.

Siamo sotto l’albergo. Guardo il tassametro: 30 euri. Mi ispeziono il portafoglio: ce la faccio, ne ho cinquanta. La figura di merda è sfumata. Porgo i cinquanta al Leerch versione tassista e quello – lo giuro – mi fa:

“ Nein! Non si paga!”

“ Come non si paga?”

“Non si paga.”

“ Ma perché, scusi?”

“ Paga il Boss. Mettere firma qui. Grazie.”

Oh madonna Oh madonna – penso – e scendo da sto taxi con gli interni di pelle nera, questa pelle forse in passato appartenuta a qualche congolese che si era ostinato a pagare il conto del taxi senza farlo addebitare al Boss.

Oh madonna. 

Entro in albergo guardandomi attorno, sono sospettosissimo. La receptionist zoppa e con gli occhi strabici mi vede e mi dice Guten Abend con un sorriso strabico quasi quanto gli occhi, se non di più.

Nella mia camera lo specchio restituisce una immagine di me ancora più pinguino celeste, se possibile,  con in più questo cartellino appeso alla giacca dove c’è scritto Signor Rafeli. Penso che se il giorno dopo la receptionist non mi farà pagare il cazzo di conto, le darò un pugno sul naso che le aggiusterà in un solo colpo occhi e bocca.

Che qui nessuno ti regala niente, diceva quello.

E se per caso qualcuno mi regala qualcosa, io lo prendo a pugni sul cranio.

un secondo virgola niente.

Un secondo virgola niente, mi avete guardato, ed io vi ho guardato, occhietti azzurri di ragazza con la gonnellina sbulazzante.

Occhietti azzurri di ragazza che non si può dire occhi di cerbiatto perché i cerbiatti – per quanto ne so – non c’hanno gli occhi azzurri.

Occhietti che ci siamo guardati per un secondo virgola niente, appena ho girato l’angolo, e poi niente più.

E c’erano pure due guance arrossate – oltre agli occhietti – segno di una abbronzatura incerta, o forse solo per il caldo che fa. E poi niente trucco , come è giusto che sia. Queste guance un po’ rosse per il caldo che la voglia sarebbe stata di dirti: dai vieni qui che fa un po’ più fresco.

E sarebbe stato giusto aspettare – in un angolo fresco – di veder ritornare il colore naturale delle tue guance. Per poi dirti che due guance così, più o meno rosse non importa, che sono belle uguali.

E sarebbe stato giusto – magari – vedere in che modo avresti portato via con l’avambraccio le poche gocce di sudore che avevi sulla fronte.

E sarebbe stato bello – che ne so – chiederti il perché di quella faccia preoccupata e di quella fretta, quel broncio mica tanto grave che ti portavi in giro – per strada quando ti ho incrociata – e di quegli occhi che ti portavi a passeggio come piccolo regalo per chi aveva la fortuna di intercettare il tuo sguardo.

Questo broncio e questa faccia stufata, che te la puoi permettere solo se sei bella oltre un certo punto, e se sei davvero così bella, allora quella faccia stufata e quel broncio ti faranno ancora più bella.

E allora non se ne viene a capo.

Tutto questo Un secondo Virgola Niente, e poi ognuno per la sua strada.

Ma comunque.

Tra qualche ora prendo l’aereoplanino, c’ho da fare sta capatina in Germania. C’ho il volo che coincide esattamente- quanto ad orario – con la partita della Nazionale, che culo.

Se passate da qui durante questa mia breve assenza, fatemi un favore, aprite le finestre e fate cambiare un po’ l’aria, altrimenti con sto caldo mi si impuzzonisce tutto di chiuso.

Che averci il blogghe verde, si insomma è bello, però se non ci presti attenzione e le giuste cure rischi che ti si appassica tutto e che ti diventi giallo. O marrone.

E date da bere al cane, anche.

Danke.

ingredienti per Non Vedere il Soffitto

Questa ricetta è molto semplice.

Si prendono una decina di bloggher, li si mette tutti in una stessa stanza.

I bloggher, si sa, sono dei gran cervelloni, dei capoccioni mica male.

I bloggher, si sa, sono l’intelighenzia degli anni duemila.

Una volta radunata questa decina di bloggher capoccioni e cervelloni all’interno della stessa stanza, il gioco è fatto, non vedrete  più il soffitto, perché i testoni dei bloggher ( all’interno dei quali -si sa – ci sono le idee innovative degli anni duemila) con i loro capoccioni enormi vi oscureranno la visuale.

Tutto questo per dire cosa. Tutto questo per dire che l’altra sera qui a Bologna ha avuto luogo la grande adunata dei bloggher splinderiani, con i special guest(s) la Triade Fondatrice di splinder, dei quali  purtroppo ora non ricordo i nomi, e che quindi per comodità di narrazione verranno di seguito indicati come Qui Quo e Qua. Anzi no, ricordo che uno di loro si chiamava Marco. Dunque verranno indicati, per comodità di narrazione, come Qui Quo e Marco.

Siamo andati a cenare tutti together, in una trattoria che forse ci torno, forse No.

Abbiamo trovato i nostri tavoli ( prenotati!) disposti in un modo tale che ha fatto subito esclamare ai convitati bloggher “ Ma come? Ci hanno disposto a ferro di cavallo? ”. Quando poi la disposizione – a voler essere precisi – non era neanche a ferro di cavallo, ma bensì a Cazzo di Anatra. Questo non l’ho voluto dire per non rovinare la cena ai più.

Uno pensa: di cosa parlano i bloggher a cena? Di cosa parlano? Ma figurati se parlano di Template! Ma figurati! La risposta è : a cena, i bloggher, parlano di Template.

Ma non solo.

Pure di altro, è ovvio. Ad un certo punto ci siamo scaldati sulla questione: dopo quanto tempo di Log-in, Splinder decide di sloggarti autonomamente? Le correnti di pensiero erano: una settimana, un mese. Il Capo Splinder ( era Quo, o forse Qui) ha affermato: mi pare, ma non sono sicuro, che dovrebbe essere un mese, ma non sono sicuro. E – ovviamente – questa indecisione non ha fatto altro che alimentare le polemiche. Si parlava di Sloggamenti e Sloggature con tale fervore, che secondo me le due tipe sedute al tavolo vicino a noi si saranno chieste: sarà mica un congresso di ortopedici questo qua?

Ed invece.

La cosa che mi è piaciuta di Più: aver conosciuto gente con cui parlare, e parlare bene. Mi è piaciuto arrivare in Piazza Maggiore, con le panze piene e il passo pesante, e trovarci una Piazza Maggiore che-  lo sapete – certe sere in estate è di una bellezza scandalosa, e poter parlare, così all’improvviso, di libri letti e non letti, di libri amati e libri sfanculati, e capire di parlare con persone che davvero hanno amato o sfanculato i loro libri.

La Cosa che mi è piaciuta di Più  # 2 : uscire dalla trattoria e lì, ad uno sputo, trovarci una gelateria che ti fa pure le granite. Che culo.

La Cosa che mi è piaciuta Meno: il fatto che NonDicoChi mi abbia detto, dopo aver saputo che il mio è un blogghe anonimo e privo di immagini del sottoscritto, “ Secondo me chi c’ha il blog anonimo è un vigliacco”.

Giudizio ghigliottina, quantomeno, mi è venuto di pensare.

La Cosa che mi è piaciuta Meno # 2 : entrare nella gelateria che ti fa pure le granite, e scegliere la granita al gusto sbagliato – melone – e pensare che invece dovevo fare come Edi e prenderlo alla mandorla.

Siccome il resoconto della serata è lacunoso, vi dico di andare a vedere cosa ne ha scritto Kay, che poi è colei che ha organizzato la cosa, e che è molto ma molto più precisa del capoccione vigliacco che vi scrive ste righe.

madonna che ansia bestia che c'ho.

Allora manteniamo la calma.

Allora.

Calma.

Allora.

Allora: mo’ tra due giorni finalmente cachiamo sto benedetto Scritto di quest’esame che si sta portando via la mia salute e la mia estate. Queste giornate afose che trascorro passeggiando nella mia stanza avanti e indietro a declamare – con le mani in movimento così che mi paro un Dario Fo sotto i riflettori – a declamare tutti i possibili motivi della Diarrea, tutti i Perché e i Percome di questo simpaticissimo argomento che si chiama Diarrea. Queste giornate afose che ho anche un mio pubblico mentre parlo di queste cose, e il mio pubblico mentre vado avanti e indietro nella stanza è composto da tre papere di terracotta, l’ombelico di carta del poster di American Beauty, e un cavallino di legno alto trenta centimetri.

Nessuno, tra il mio pubblico, che fa una cazzo di domanda, nessuno che mi da’ un po’ di soddisfazione.

Poi.

Lunedì prendo l’aereoplanino e volo in Germania. Durata del viaggio: un giorno e mezzo. Motivo del viaggio: incontro con il Grande Capo del centro di ricerca di questa importantissima multinazionale famosissima, presso la quale – se tutto va bene – andrò a raccogliere materiale per la mia tesi.

Allora.

Manteniamo la calma.

Ho detto: la mia Tesi.

L’ho detto.

Il Grande Capo mi ha detto: Dai, ti invitiamo per un meeting che stiamo organizzando e tu ci spieghi il tuo Progetto. Io ci ho risposto: Ma certo che Vengo, Come No, solo che con sta storia dell’Esame, che c’ho da declamare la Diarrea e le Polmoniti Virali tutto il santo giorno finchè non si fa notte, non c’ho tempo per prepararmi una pippa di discorso, una cacchio di pippa di Progetto da presentare Come si Deve. E allora mi sa che mi dovrò presentare lì da loro senza un cacchio di niente preparato; e allora, come si dice in questi casi, Andrò A Braccio, che poi sarebbe come dire che Andrò ad Improvvisare, che poi sarebbe come dire che Andrò a Cazzo.

In pratica.

A Cazzo.

Manteniamo la Calma.

Nella Mega Sede della Mega Multinazionale famosissima in tutto il mondo – che non posso dire il nome ma di sicuro la conoscete – quellì lì, il grande Capo e i suoi aiutanti, mi sa che non hanno capito bene con chi hanno a che fare. Mi sa che non hanno capito che in realtà hanno a che fare con uno studentello e non con uno scienziato in odore di Nobel. Mi Scrivono: Dai, presentati qui il giorno 27, portaci le carte di imbarco dell’aereoplanino e ti verrano rimborsate le spese di viaggio. Io penso: ma perché ? Mi scrivono: per arrivare da noi prendi un taxi ( un taxi? penso ancora: questi non sanno con chi hanno a che fare) e vieni presso il nostro Zentrum, e lì troverai la nostra Security (la Security ? Oh Madonna!) che ti condurrà al nostro ufficio.

Allora penso: come cazzo mi vesto, per andare nel Mega Ufficio della Mega Multinazionale, a farmi prendere dalla Security, a sparare Cazzate davanti ad un gruppo- loro sì – di scienziati con le palle che non gli stanno nei pantaloni per quanto sono grosse? Come mi vesto? Ed eccomi qui che riesumo una camicia usata solo una volta ad un matrimonio, col colletto di granito e piccoli bottoncini praticamente ovunque. La riesumo e la indosso davanti allo specchio. E sono qui che mi dico: se proprio devo sparare cazzate, cerco almeno di avere l’aspetto del Sommo Pirla, in modo da farla completa, la figura di merda. E la camicia, a quanto vedo nello specchio, in questo mi aiuta abbastanza.

Poi.

Dopo essermi fatto prendere a calci in culo da tutta la compagnia di Cervelloni, prenderò l’aereo e tornerò a Bologna, e mentre volerò sull’Austria, ripeterò ancora nella mente tutti i Perché e i Percome della Diarrea, delle Polmoniti e delle Anemie, perché appena scendo dall’aereo devo filare dritto dritto in Facoltà a fare l’ Orale dell’esame di cui sopra.

Incrociando le dita e stringendo il culo.

E infine, se tutto va bene – e spero che vada bene –vorrò godere delle piccole cose, anzi delle piccolissime cose. Tipo alzarsi dai libri in un orario che i supermercati sono ancora aperti, e allora ce la fai a comprare il benedetto detersivo per la lavatrice, e tornare a casa che non è già buio.

E poi magari – pensa che goduria –caricare la lavatrice.

E infine, se tutto va bene – e spero che vada bene – potrò finalmente girare la chiave, mettere in moto, e ricominciare a vivere.

mio cuggino che mi chiama Zio

Mio cuggino Quasi Milanese è uno che è capace di aprire la porta di casa e pronunciare qualcosa del tipo:

Bella Raga, come butta?

e mentre te lo dice il suo corpo di giovane promessa dell’underground hip hop milanese si dinoccola in un modo tale che a confronto Don Lurio è un paralitico imbalsamato, e ti da’ il cinque in un modo che ti fa pensare – ma per davvero – che ti si è infilato in casa un Will Smith un po’ sbiadito ma molto più rompicoglioni, e questo solo per il fatto che te lo devi sorbire senza pause pubblicitarie.

Mio cuggino Quasi Milanese è uno che davvero è capace di mandarti una mail e di scriverti :

Hey, cuggi’ .Che situazione c’hai lì a Bologna? Mi daresti ospitalità per qualche giorno che ho bisogno di cambiare aria per un po’?

E poi quando te lo vedi arrivare e aprire la porta col dinoccolamento di cui si è già detto, la curiosità di sapere perché c’aveva sto bisogno di cambiare aria è troppo forte, e allora glielo chiedi. E lui serio ti risponde che Avendo tirato una ciabattata in faccia al fratello maggiore, come epilogo violento di scazzi familiari, ha sentito la Necessità – vista l’aria di guerra che tirava in casa- di venire a trovarmi qui a Bologna.

Solo per qualche giorno – mi spiega – solo per stare un po’ più tranqui.

Mio cuggino- bisogna tener presente – ha vent’anni e neanche un peletto di barba sulla faccia di angelo caduto dal paradiso.

Mio cuggino Quasi Milanese è uno che se lo metti davanti alla tivvù, quello ti si accartoccia sul divano.

Poi alza il suo braccio hip hop per indicarti la tv, nel momento in cui passa la pubblicità di una famosa merendina, ed è capace davvero di dirti :

La vedi quella tipa della pubblicità? Quella lì me la sono fatta. Carina, ma poche tette. Tolta via dalla rubrica

E se poi tu chiedi di nuovo spiegazioni, lui ti dice: Massì, ho conoscenze nel Jet –Set, sai, su a Milano. E poi ti parla di altre mezze conquiste e mezze fidanzate di calciatori di secondo piano che sarebbero passate sotto il suo corpicino glabro di angelo caduto dal paradiso. Caduto di culo, si intende.

Mio cuggino è capace – come un vero Will Smith per il quale è stato sbagliato candeggio – di avvicinarsi molleggiando e di dirti:

– Hey! Ma Stasse c’è La Parta, Zio! –

e mentre sei lì che non hai capito una straminchia di niente, lui è così comprensivo da tradurti in italiano la frase, che starebbe poi a significare " stasera c’è la partita, zio ". E se poi non capisci il perché dello "Zio" allora Fa Niente, chè a quanto pare lo Zio nelle frasi del giovane milanese sta un po’ ovunque, un po’come il caro vecchio intercalare Compa’ che a noialtri pischelli terronici ha dato la possibilità- negli anni – di infarcire le frasi in tutte le maniere, come ci veniva voglia di volta in volta di fare.

Mio cuggino Quasi Milanese è uno che se si cambia le mutande, te ne accorgi subito, perché c’ha sto vizio di portare i pantaloni al di sotto delle mutande. E se glielo fai notare, lui è capace di risponderti – ma seriamente – che c’ha sto problema che i pantaloni se ne scendono giù da soli, anche se prova a stringere la cintura, e non sa dirti il perché, ma è davvero un problema che non riesce a risolvere.

Averci il figlio tutto sghembo e gangsta rap come mio cuggino, pone enormi problemi alla Mamma del ventunesimo secolo. E’ un problema crescente della società moderna. Però- pensavo- almeno la mamma del figlio hip hop potrà stare Tranqui che il figlio, almeno questo, si cambia le mutande ogni giorno.

E mica è poco, di sti tempi.

adesso pensavo a queste cose qua

Succede che arrestano il boss dei boss della mafia, che praticamente lo stavano a cercare non so da quanti anni, e dopo averlo preso, il grande capo, mentre questo grande capo era impegnato a girare col mestolo le cicorie che aveva sul fuoco, dopo aver fatto cliccare le manette ai polsi del boss, si danno delle gran pacche sulle spalle, e sono convinti – ma per davvero – che stanno sconfiggendo la mafia.

Succede pure che tirano una bomba su una casa in Iraq e in questo modo accoppano il famoso terrorista sanguinario, uno che solo a dire il suo nome c’era da cacarsi in mano, uno davvero pericolosissimo, e dopo che lo hanno ucciso con la loro bomba precisissima, prendono la faccia del famoso terrorista accoppato, ci pettinano i baffi, e ci fanno una foto che due secondi dopo ha già fatto il giro del mondo.

E mentre il corpo del famoso terrorista è ancora caldo e trasuda terrorismo da tutti i pori, loro sono lì che si danno delle grandi pacche sulle spalle e sono convinti – ma per davvero – che così stanno sconfiggendo il terrorismo.

Io che i libri di storia non li leggo, la saggezza dello storico non ce l’ho, e i libri di storia pure volendo leggerli non ce li ho nemmeno, e al massimo c’ho i libri di storia delle medie ancora impolverati da qualche parte, ma di quelli non me ne faccio niente, e quindi rimango qui che la saggezza dello storico non ce l’ho.

Però mi ricordo delle formiche.

Le formiche, non c’è bisogno di essere vissuti in campagna per saperlo, quando te le trovi in casa le vedi – le formiche – che camminano in fila indiana una attaccata al culo dell’altra e che vanno dritte così, senza sgarrare, dirette dove vogliono andare, e vanno.

Io le formiche me le trovavo così, in casa, e mi inginocchiavo di fianco alla loro processione.

Poi col dito mio di bambino andavo su di loro e le schiacciavo una dopo l’altra, con regolarità, col ditino, e non c’era neanche bisogno di inseguirle, perché loro – le formiche – comunque proseguivano dritte, anche se vedevano le loro compagne spiaccicate sotto un enorme dito di un bambino immenso, loro impassibili continuavano dritte, e io al passaggio le schiacciavo.

( si ok ma perché le schiacciavi? È una cosa terribile, dio mio, che schifo, e che pena, povere formiche! Cazzo ne so perché le schiacciavo, i bambini sono dei piccoli bastardi, lo sa bene la Amèlie Nothomb, lo sa bene chiunque ha a che fare con un bambino, e comunque la questione non è questa ) .

Il punto è che le formiche potevi cercare pure di ucciderle tutte, col dito infallibile, ma le formiche te le trovavi il giorno dopo di nuovo lì, in fila indiana, che andavano cocciute dove volevano andare. E quindi arrivavi a comprendere, seppure eri un pinolo di bambino, che era inutile stare lì a farsi il callo sul polpastrello, e di sporcarsi di sangue puzzoso di formica – che poi non è neanche sangue – perché per giorni avresti ritrovato le stesse stronzette nuovamente sulla loro via.

E non te ne saresti liberato, a meno di non trovare il formicaio, e il formicaio col cazzo che lo trovavi, oppure lo trovavi, ma poi da qualche parte ce n’era di sicuro un altro, pieno zeppo di formiche pronte a mettersi sotto il tuo dito di giustiziere in miniatura.

E nel tuo cervello di piccolo serial killer ( nel senso di killer in serie ) avresti capito bene che il trucco in realtà è quello di smetterla di far cadere le briciole per terra, che solo così avresti risolto il problema.

E in pratica, quello che voglio dire e non riesco a dirlo tanto bene, è che qui ci si continua a sporcare le dita di cose puzzose, mentre con l’altra mano facciamo cadere tante di quelle briciole, ma così tante, ma così tante, che non lo so cosa può succedere, davvero non lo so.

Di certo, non è che poi arriva Pollicino.

 

e svegliarsi alla mattina…

…dudurudurududdu.

e scoprire – ma perchè me lo dice Shiny Stat – che digitando "Ragazza Cacca Cesso" su Google il primo sito che ti viene proposto nella lista, è proprio questo qua.

devo ancora migliorare invece -ma se mi impegno miglioro di certo – con " Sedia a Rotelle Zebrata" che su Google prende solo la medaglia d’argento.

per il resto:

Pessimismo e Fastidio, Caldo e umidità, Pruriti strani tra le dita dei piedi e sotto le dita stesse, Sensazione di Zanzare che ti pungono sul collo quando di zanzare in giro neanche una, e tante altre belle cosette simpaticissime che dilungarmi a scriverle qui, non mi sembra davvero il caso.

il tempo delle pesche sciroppate

Trilla il telefonino di questa bimba-quasi-ragazza seduta di fianco a me, e lei risponde tutta trafelata portandosi all’orecchio sto cellulare da cui pende impiccato un dolcissimo Vinnie the Pooh.  

(Avvertenze: nella parlata bolognese la C diventa spesso una Z e la Z diventa spesso una S)

“nooooo! Lory dai casso finalmente mi hai chiamata che questa te la devo proprio raccontare! Nooo, Lory, zioè, sono troppo nella merda, sono troppo una sfigata. Zioè , non puoi capire quanta sfiga. Tutta sopra di me la sfiga, Lory. Zioè non puoi capire, capito? Zioè del tipo che eravamo al Zinema a vedere il Da Vinzi…ma sì il film, quello la’. Vabe’ ma che ti frega, io non ne ho capito un casso, ma comunque. Zioè lui mi aveva detto andiamo, ed io ho detto Zerto, mica so’ scema. Ma comunque. E a parte tutto, quant’è bono. Vabè, ma gia lo sai. Insomma, zioè, no, del tipo che poi usciamo e poi lui mi dice andiamo di la’ . E insomma, No, guarda, senti che sfiga, cioè Lory, non puoi capire, ho cercato di raccontarla pure a Marty sta storia, ma lei su Messenzer non ci capisce un casso, è troppo fuori quella lì, non riesce neanche a scrivere sul Pizzì.  E insomma poi dopo lui mi ha “mmmmmh!”. Zioè, hai capito?!? Non hai capito? Ma come non hai capito?!? Dai non fare la stronza che non lo posso dire qui, che mi sentono tutti. Insomma, dietro al Zine lui mi ha “mmmmmh!”. Ma dai, ma sei fuori, ma non hai capito? Vabbè, insomma,  ha zercato di baciarmi! Casso Lory ti rendi conto? Zioè ma tu hai presente la sfiga? Ecco, io sono nella merda, in pratica. Cioè, lui mi ha baciato, ed io pensavo Ma quanto è bono, e insomma in pratica io c’avevo la zicless in bocca!  Zioè, ci sono rimasta troppo male, e lui pure, ed io pure. Zioè ti rendi conto? Zioè, casso che sfiga, la zicless!” 

 (Avvertenze: di questi emiliani con la Zeta che diventa Esse io ci salvo solo Samuele Bersani, di tutti gli altri ci faccio volentieri un gran rogo come si faceva per gli eretici, dove in cima ci metto il cantante degli Stadio e uso come torcia i rastoni gialli di Ballo dei Luna Pop )

E poi niente, a parte questo , un pomeriggio di fine settimana come gli altri, con i pakistani sulle porte dei loro minimarket che aspettano di venderti la loro birretta low cost e intanto, se non c’hanno clienti, li vedi che sembrano lucertole sul muro che prendono il sole. Anche se il sole sotto i portici non arriva.

Torno a casa ed alla Tivvù –manco a farlo apposta – passa la pubblicità de Il Tempo delle Mele, con quella colonna sonora strappa lacrime e strappa tutto, che io già la prima volta che ho visto sto film – ed ero praticamente un bambino – per via di questa colonna sonora già mi sentivo un cinquantenne che andava indietro con la memoria a ricordare i bei tempi andati della gioventù. Avevo manco dodici anni e per colpa di sto film ero già vittima di fitte nostalgiche terribili, che già mi sentivo come se la mia giovinezza fosse volata via tutta, ed alle feste delle medie ci andavo con lo sguardo triste e compassato di chi ha visto tutto, fatto tutto, vissuto tutto.

Con la camicia abbottonata fino all’ultimo bottone, ci andavo io a queste feste qui.

E nel film c’era questa Sophie Marceau che per buona parte del film era davanti alla telecamera con lo sguardo perso nel vuoto, col broncio, un tipo di broncio che per me, il dodicenne come ero io ai tempi, era un bellissimo broncio.

Non l’ho rivista per anni , Sophie Marceau.

Poi un giorno me la ritrovo cresciuta d’un botto, sulla copertina di un settimanale, in una foto dove questa adultissima Sophie era contenuta in un vestitino del tipo Vedo Non Vedo ma soprattutto Vedo. Ricordo che rimasi tutta la sera ad ammirare la Sophie di carta, a pensare come fare per crescere in fretta, trovare un lavoro decente, e volare in Francia a trovare Sophie ( che nel frattempo non sarebbe dovuta invecchiare) e convincerla a sposarmi. Ricordo che la prima volta che feci un progetto assurdo di questo tipo fu a causa di una certa Dolphine Forest, protagonista de Il Castello con Quaranta Cani, film che andai a vedere ai tempi delle elementari, con tutta la mia scuola, e chissà perché andammo a vederlo, sto film,  che di educativo non c’aveva un casso, sarà forse stato per qualche mazzetta del titolare del cinema versata sotto banco al preside della mia scuola di pirla col grembiulino blu.

Ma comunque: Sophie, Dolphine, tutte francesi, tutte col PH che invece si dice effe.

Poi dopo crescendo le ho scoperte di persona, le francesi, ed ho scoperto che le francesi c’hanno pure i loro effetti collaterali, tipo che siccome la Gillette è francese, allora forse per spirito patriottico tendono a radersi le gambe sotto la doccia invece di una sacrosanta ceretta.

Nonostante questo però – e nonostante il mio Ormone notoriamente storto di questi tempi – se dovesse per caso bussare alla mia porta una Sophie Marceu anche non più freschissima, e col suo accento francese tutto pieno di erre mosce e di accenti sull’ultima vocale,  dovesse chiedermi: “Ou, Rafelì , ho finito la scipollà per cuscinarè, avresti per caso…”   a quel punto io con le mani tra i capelli esclamerei  Madò, Non è Possibile  ( anzi:  Madeaux, non è possibile) e le direi certamente:

– Ma certo Madam , cercheremo di trovarla sta cipolla, faremo il possibile. Ma intanto cosa fai lì sulla porta, entra! –   

E se pure la cipolla non l’avessi avuta, per Sophie una cipolla sarei stato capace di costruirla.

Eccheddiamine.

Oui.

Come McGiver faceva le bombe con una torcia tascabile e un po’ di detersivo, io avrei preso un pezzo di carota e un frollino del Mulino Bianco, e magari se mi fossi impegnato una cipolla  l’avrei tirata fuori.

Questo e altro, per Sophie.

C'ho le occhiaie che mi colano giù dalla faccia.

Ma fa niente.

Ho scoperto che il trucco in questi casi non è riposare – nella speranza di farle sparire, ste benedette occhiaie – quanto piuttosto continuare a stancarsi e a dormire poco, in modo che ste benedette occhiaie possano continuare a colare giù, ad espandersi, così che alla fine tutta la guancia diventa in realtà una immensa occhiaia, e nessuno potrà più dirti Madonna Che Occhiaie, perché non capirà più dove finiscono in realtà, queste escavazioni della faccia.

Devo averci anche – da qualche parte – una sorta di buchetto, da cui lenta mi gocciola via la Voglia di Fare le Cose.

C’ho le perdite, in pratica.

Vorrei essere come una camera d’aria di una ruota di bicicletta, che se la metti nella bacinella con l’acqua , il buchetto lo si trova subito, perché dal buchetto si vedranno uscire subito tante bollicine.

Ma non si può.

E quindi Guarda Come Gocciolo, Guarda Come Gocciolo.

C’avrei bisogno di un pannolone per la Voglia di Fare le Cose, per tenere con me tutte queste gocce che mi escono fuori dal buchetto.

Mannaggia.

Mi  ritrovo in questi giorni a rileggere libri già letti anni fa, e nel rileggerli ora ci  trovo cose che in quegli anni non avevo intuito, o forse si ma non lo ricordo.

Piccolo regalo per chi passa da qui.

“…e mi parlò di un giovane che era innamorato di una stella.

In riva al mare tendeva le braccia e adorava la stella, la sognava e le rivolgeva i suoi pensieri. Ma sapeva o credeva di sapere che le stelle non possono essere abbracciate dall’uomo. Considerava suo destino amare senza speranze un astro, e su questo pensiero costruì tutto un poema di rinunce e mute sofferenze che dovevano purificarlo e renderlo migliore. Tutti i suoi sogni però erano rivolti alla stella. Una volta, trovandosi su una alto scoglio in riva al mare notturno, stava a guardare la stella ardendo d’amore. E nel momento di maggior desiderio fece un balzo e si buttò nel vuoto per andare incontro alla stella. Ma nel momento stesso del balzo un pensiero gli attraversò la mente: no, è impossibile! Così cadde sull’arena e rimase sfracellato.

Non sapeva amare.

Se nel momento del balzo avesse avuto l’energia di credere fermamente nel buon esito, sarebbe volato in alto a congiungersi con la stella.- L’amore non deve implorare – concluse – e nemmeno pretendere. L’amore deve avere la forza di diventare certezza dentro di sé. Allora non è più trascinato, ma trascina. Il suo amore, Sinclair, è trascinato da me. Quando mi dovesse trascinare, verrò. Io non voglio fare regali, voglio essere conquistata –  “  
                     

H.Hesse  Demian

cigolamenti ( o cigolii ? )

E’ notte profondissima ed io tento – cocciuto – di entrare in fase REM tutto intero e tutto pigiamoso come sono.

Ma non mi riesce, che il mio letto Ikea continua a frignare facendo Gneeee Gneeeee come un neonato col culo lercio, ad ogni minimo movimento del mio corpo. Io mi muovo e lui frigna e cigola in modo irritante, per via di qualche giuntura di ferro che si è invecchiata o che si è arrugginita o che ne so.

Ma che ne so.

E intanto Gneeeee Gneeeee.

La fase REM, perdiamine.

Niente.

Allora nel mio dormiveglia poco-dormi e tanto-veglia, a qualcosa devo pur pensare, chè il mio cervello pure quando gira al minimo, gira comunque tanto.

E così mi viene in mente QuellaLì, tutte quelle volte che ero con lei ed il letto – non questo, un altro – cigolava impercettibilmente, lei mi diceva spaventata Fermo! Sta Fermo, che Così ci Sentono! quando per me quello era l’ultimo dei momenti in cui avrei pensato a fermarmi e però la vedevo che era davvero spaventata, allora mi fermavo e restavo zitto con lei, col fiatone, ad interrogare il silenzio.

E il silenzio rimaneva silenzio.

– Sshhhh!!! – mi diceva col dito indice sulla bocca, e aspettava un qualche rumore che invece non arrivava mai.Poi di nuovo, cinque minuti dopo, mi diceva Fermo! Sta’ fermo che Se Fai Così Dall’altra Stanza Capiscono Tutto! ed io a fermarmi ad ogni scoreggia di mosca perdevo tutta l’ispirazione e tutta la passione e diciamo pure tutta l’inventiva. Ma mi fermavo lo stesso, che le volevo bene, a quel tempo, a QuellaLì. Mi fermavo perché anche QuellaLì – a quel tempo – diceva di volermi bene.

L’ispirazione ormai era persa, e piuttosto che ricominciare daccapo, avrei preferito – chenneso – giocare al Lancio della Caccola del Naso dalla Finestra, con lei, se avesse gradito la cosa.

Mi viene in mente QuellaLì – in questa notte di cigolamenti – e penso che in un letto come questo Ikea, con tutto sto frignare, non potrei neanche toccarle l’ombelico col mignolo, senza farle venire un attacco di panico in pieno stile Così Ci Scoprono Madonna Che Vergogna.

Allora penso Affanculo la fase Rem, e con inaspettato spirito interventista mi tiro su dal letto con gli occhi a banana , e guardo il letto e sussurro non so se al cuscino o al grumo di lenzuola:

– Adesso ti sistemo io , cazzo. –

A questo punto per andare oltre serve tanta ma tanta capacità d’immaginazione.

Perché bisogna immaginare il me stesso sonnacchioso, con gli occhi a banana, che cammina scalzo verso la cucina e poi dalla cucina ci torna, con in mano un cucchiaino pieno d’olio tenuto orizzontale, con la perizia necessaria a tenerlo orizzontale per non fare cadere le gocce di olio, con la perizia che può avere uno che qualche minuto prima stava cercando di infilarsi di forza nella fase Rem, e quindi in pratica con nessuna perizia, e quindi in pratica con le gocce di olio che costellano il pavimento del corridoio in quest’ora imprecisata della notte.

Ed ho pensato: adesso magari succede che il mio coinquilino BilliGiò all’improvviso si sveglia ed apre la porta della sua stanza, mi trova lì nel corridoio con un cucchiaino tenuto orizzontale con pochissima perizia, con le gocce che cadono, e vede anche il me stesso con gli occhi a banana vestito con quello che dovrebbe essere un pigiama ma un pigiama non è, perché in pratica è solo un collage di vestiti che mi stanno antipatici e che di giorno non metterei mai.

Immagino BilliGiò che si spaventa e che mi dice:

– Oh, ma che minchia stai a fare?!?-

– Io? Niente, sai, c’è il letto che frigna.-

– Che frigna? –

– Già . –

– Vabbuò, bonanotte.-

– Bonanotte comba’-

– Bonanotte-

datemi un pettine per il cervello

Che c’avrei bisogno di pettinarmi le idee.

Mi farei – col mio bel pettine cerebrale – una bella riga in mezzo, per distribuire le mie idee un po’ di qua e un po’ di la’, e non tutte da una parte, che non c’ho voglia di prendere decisioni. Non c’ho voglia di prendere posizioni.

Le decisioni – la cruda verità è questa- le puoi prendere, oppure sono loro – le decisioni – che prendono te. Ti ritrovi con una decisione di due metri per tre infilata nel culo, e non sai né il perché  nè il percome.

Sai il quanto.

Due metri per tre.

Vedi te.

La parte ermetica del post finisce qui.

Parliamo di cose concrete.

Cosa concreta numero Uno: non sono più uno studente-e-basta.

Sono da poco entrato nel tunnel lungo tortuoso e fumoso che mi porterà verso una tesi. Questo implica che se mi girano i coglioni e mi monto la testa, alla domanda Cosa Fai? non risponderò più Sono Uno Studente, ma dirò – pettinandomi le sopracciglia con mignolo e pollice – Sono un Laureando.

Cazzo suona benissimo.

Sono un Laureando, beibi.

Cosa concreta numero Due: sta cosa di scrivere su di un blogghe non è priva di effetti collaterali. Si diventa inabili alla scrittura normale. Sono giorni che sto privando a buttare giù due righe di auguri per un biglietto da spedire a  due amici del mio paesello – freschi sposi – e non mi viene niente di presentabile. Quello che scrivo sono cagate pazzesche, sono cose improponibili. Non riesco ad essere serio, non mi viene.

Cosa concreta numero Tre:  mi arriva una cartolina della Tipa del Nord ( per chi si è perso le puntate precedenti, leggere qui oppure qui ) dalla Grecia. C’è un mare azzurro sullo sfondo e in primo piano tre polpi immensi appesi ad un filo. Mi scrive una cartolina fitta fitta di parole, molte delle quali illeggibili perché i postini ellenici ci hanno timbrato sopra. Mi scrive che i greci le hanno raccontato che gli Spagetti Bolognesi li hanno inventati loro, che sono una specialità greca. Mi scrive che alla radio passa in quel momento Eros Ramazzotti. Mi scrive che si è studiata pure la mitologia greca, prima di andare in Grecia, e che la mitologia greca le sembra un po’ come una soap opera dove tutti stanno con tutti.

Mi scrive che ha camminato, che ha bevuto, che ci sono le nuvole.

Scrive e scrive e io non so cosa rispondere, ma qualcosa devo pure rispondere.

Intanto mi è arrivata una mail anche dalla Tipa del Sud dove mi parla del suo viaggio in Thailandia ( in Thailandia? ) e mi manda una foto dove c’è lei con qualcosa di simile ad un cocco tra le mani e con i piedi in qualcosa di simile ad un lago.

Sono abbastanza stitico di risposte, in questo momento storico.

Eppoi lo so bene, che se pure trovassi l’ispirazione per rispondere, poi la tentazione di fare un copia-e-incolla e spedire a tutte e due la stessa mail, sarà troppo forte.

E queste cose non si fanno.

No No No.

(immaginare il dito indice che si sposta alternativamente a destra e sinistra)