E’ che siamo tutti abituati a crisi circoscritte temporalmente. Attacchi terroristici, terremoti, lutti. Qualcosa che succede in modo traumatico, e poi lentamente le conseguenze dell’evento sbiadiscono.
I cervelli e i media non sono abituati a reazioni calibrate sul lungo termine. E quindi, davanti al rischio di contagio i cervelli funzionano come sempre: la consapevolezza del rischio di contagio e’ il trauma iniziale, ed al trauma iniziale seguono immediatamente reazioni emotive anche esagerate. Poi gia’ dopo qualche giorno si comincia a dire: vabbe’ dai, e’ ora di tornare alla normalita’.
Ma questo ‘tornare alla normalita’’ ha senso quando l’evento traumatico e’ circoscritto nel tempo come il terremoto, l’attacco terroristico. Il rischio di contagio durante un’epidemia non segue lo stesso sviluppo: dopo una decina di giorni dal ‘trauma’ i rischi sono identici al primo giorno, se non aumentati. Quindi gli inviti al ‘ritorno alla normalita’ in questi giorni semplicemente non hanno supporto fattuale e razionale. Si passa in pochi giorni dal troppo al troppo poco. Non esiste logica nel chiudere le scuole una settimana a causa del rischio di contagio e discutere di riaprirle due settimane piu’ tardi perche’ ‘e’ ora di tornare alla normalita’’. Viene chiamata voglia di ritorno alla normalita’ quando in realta’ – a parte le difficolta’ logistiche ed economiche dei blocchi – il desiderio e’ quello di ignorare i fatti perche’ i fatti sono preoccupanti. Stessa dinamica che si osserva nella ricezione dei messaggi sul global warning.