fino a ieri a Bologna soffiava una aria calda anche di venticinque gradi

Fino a ieri a Bologna soffiava una aria calda anche di venticinque gradi, e nonostante ciò si potevano incontrare per strada determinate categorie di studenti matricolanti vestiti secondo l’attuale moda dello studente ventunenne medio bolognese. Un esempio di studente medio bolognese è l’aspirante sosia di Sergio Cammariere. Sulle teste di questi Sergi Cammarieri (detti comunemente "i camerieri") potrai osservare i cappelli da uomo di mondo con la piumetta di lato,e indosseranno anche pesantissime giacche di velluto, e sfoggeranno baffetti tagliati con precisione, e al passare della donzella aggrotteranno lo sguardo da bravi aspiranti Corti Maltesi dell’appennino calabrese (per dire). Un’altra possibilità, che fa a pugni  con i venticinque gradi di questa fine di ottobre, sono i sosia del cantante delle Vibrazioni, che affanculo il caldo e il sole, loro vanno in giro col collo avvolto da una sciarpetta di lana grezza e gli stivali da cow boy padani con le borchiature lucenti.

Qui in casa, abbiamo decretato che ci siamo rotti i coglioni del caldo, e che ora c’è solo voglia di lacrimare per il freddo, e di tirare su con il naso mentre si affretta il passo verso casa.

Qui in casa, la Coop mi lascia nella cassetta della posta ventidue copie identiche dei suoi opuscoli di offerte irresistibili. Invece di gettarle tutte nella spazzatura le spargo per casa, così ogni volta che Billigiò mi sgancia un scorreggione da distanza troppo ravvicinata, ho subito tra le mani qualcosa con cui fare vento.

Aperta Parentesi.

Verranno a dirti  “Prendi queste due caramelle” e tu le prenderai e sarai comunque contento, anche quando ti diranno: “a lui però ne ho date tre”.

Verranno a dirti: “facciamo una passeggiata io e te, venti minuti fino al mare” e tu sarai felice di muovere i tuoi passi,  anche quando ti diranno “con lui però ho passeggiato per un’ora”.

Sarà quando verranno a dirti “Ti voglio bene, credimi.” che non saprai cosa dire, se poi ti verrà detto anche “A lui però ne voglio un po’ di più”. Sarà questo il momento che avrai poco da dire, e ti metterai a sedere col culo su di una roccia appuntita e scomoda, con in bocca poca saliva da deglutire e le mani sudaticcie e fastidiose, e una faccia antipatica che non vorresti avere.


Chiusa Parentesi.

Su di una colonna in piazza Malpighi si trova una scritta a pennarello nero che dice “Giacomo ti decidi ad accenderlo questo telefono?” e poi, poco più sotto, con pennarello rosso, è stato aggiunto: “Non ne ho voglia” . In via del Pratello su di un muro c’è scritto: “Ciao, sono Antonio Banderas!”. A me ogni volta viene da rispondere “Ciao Antò, tutto apposto?”.

Dalla Germania la signora che mi vuole affittare una stanza in prossimità di un bosco di un miliardo di ettari, mi dice: se vuoi venire prima del 29, il posto in stanza non è ancora libero, però volendo potrai sistemarti con una tenda in giardino. Ti interessa?

Io dico: si, vediamo, ci penso un attimo e le faccio sapere.

Poi metto nello stereo Storytelling dei Belle & Sebastian a volume adeguato, e se riesco a ballare per un paio di minuti sulle punte dei miei piedi scalzi fino a sembrare un deficiente oltre un certo livello, allora vuol dire che per un paio di minuti va tutto bene.

la mia amica XXXna mi spiega che…

La mia amica XXXna mi spiega che lei c’ha sto problema della vagina troppo stretta.

“Io ce l’ho piccola” mi dice.

Non lo sapevo potesse esistere pure sto problema. Mi spiega che dopo tanti anni di ginnastica a livello agonistico, i muscoli pelvici le si sono induriti per l’eternità, con il risultato che adesso il suo posticino è più angusto di quello che dovrebbe essere.

“Ma tu dai e ridai, e vedi che poi si adatta, no?” le dico.

Mi spiega che per quanto era nelle sue possibilità, lei ha dato e ridato, ma ciò che era stretto, stretto è rimasto. Mi spiega che il problema è sia di lunghezza che di diametro. Mi dice che lei è convinta – ma davvero convinta – di avercela più corta di un centimetro / un centimetro e mezzo rispetto alla media mondiale, che pare essere di sette centimetri, ma che comunque la lunghezza non la preoccupa, ché a quello si può sempre porre rimedio, soprattutto interponendo fra i due contendenti un paio di natiche con un notevole raggio di curvatura. Il problema principale – mi spiega – pare essere solo il diametro, ché su quello c’è poco da fare. Io e Billigiò la osserviamo esterrefatti e le diciamo:

“Ma ti rendi conto che fortuna?”

Lei però non è convinta, dice che questo è un problema, soprattutto perché “non sai mai chi puoi incontrare”.

Domenica pomeriggio vago tra gli effetti inaspettati di un the peruviano dalle chiare velleità stupefacenti, mentre nella casa in cui mi trovo viene rinvenuto un tubetto di Crystal Ball colore blu, che ci fa subito cantare tutti, sguaiati come in un musical low budget, la famosa quartina in rima baciata :

Con Crystal Ball ci puoi giocare,
hai tante cose da inventare,
tanti colori differenti,
(qui c’era qualcosa con divertenti)
su gioca un po’ con Crystal Ball.

A giocare col Crystal Ball con venti anni di ritardo – ho scoperto – la differenza sta tutta che il tubicino per gonfiare la palla lo prendi fra indice e medio come fosse una sigaretta. L’altra differenza sta nel fatto che poi di sicuro arriva qualcuno che vuole gonfiare la palla con il fumo di Pall Mall, una cosa che è chiaro che a sei anni non ti verrebbe mai di fare.  Un’altra differenza, del tutto personale, sta nel fatto che afferro la palla di crystal ball, tutta afflosciata su se stessa, e comincio a declamare: “ questo è probabilmente un rene policistico, evidenza macroscopica di un idronefrosi, patologia che se ricordo bene resta subclinica a meno che non si presenti bilateralmente, a determinare una insufficienza cronica scompensata e certamente fulminante”. Siccome nessuno si tocca le palle, capisco di essere poco ascoltato dalla folla presente. Quindi decido di afflosciarmi sul computer aperto davanti a me.

Aperta parentesi.

Certe volte non c’è nulla che possa bastare. Certe volte uno può prendersi il cuore e metterlo su quei cosi che si usano per tagliare il prosciutto in salumeria, e farci tante fettine sanguinanti da infilare nel panino, e poi porgere il panino dicendo Toh  Mangia, ma pure così, certe volte, non basta. Ti verrà solo detto che non basta, e rimarrai da solo col panino in mano, stupido che sei.
E le gocce di sangue sulle scarpe.


Chiusa parentesi.

Squilla il telefono, è un numero tedesco. Una voce femminile – in italiano contorto – mi dice che ha letto il mio messaggio su internet in cui cerco di fare il simpatico per trovare un tetto sotto il quale dormire, durante la trasferta tedesca. La voce femminile mi dice che avrebbe una stanza per me, però solo da dicembre, ché prima deve mandare via due cinesi. A me viene solo da dire – per colpa del the – Ah già, la Germania! Signorina non si potrebbe fare prima? Io devo stare lì molto prima! (e siccome il the è uno stronzo) dico : Dai Signò, perfavore perfavore perfavore!! La signorina mi dice: Forze posso farti stare con Tizia, che c’ha un ciardino molto crande e ventiquattro cani. A me viene solo da dire “ in fila per tre col resto di due” e allora le dico di scrivermi una mail che questo davvero non mi pare il momento di condurre affari con l’estero, e così torno ad afflosciarmi sul computer.

Bene, fatto il post, mi rileggo.

“domenica pomeriggio vago tra gli effetti inaspettati di un the peruviano dalle chiare velleità stupefacenti…”

Questa, signori e signore, è clamorosa poesia.

quindi si ricomincia

Quindi ancora una volta preparo le valigie, metto tutto in macchina, mi inserisco sulla A22 e dritto dritto scappo in Germania, e ci resto per i prossimi mesi. Faccio come gli uccelli migratori, solo che scelgo di svernare dove fa più freddo, che pirla.

Tra qualche giorno si parte, dunque.

Sono questi i momenti che decido di creare un file di testo e di salvarlo sul desktop, la cui funzione sarebbe quella di fungere da reminder per le cose da portare con me. Per questo motivo il file potrebbe benissimo chiamarsi “ Cose_da_Portare.doc” oppure “ Promemoria_Viaggio.doc” oppure, che ne so, “Non_ti_Scordar_di_Me.doc”. Invece, siccome tutti questi nomi mi ricordano il concetto del viaggio, della partenza, e siccome i concetti di viaggio e di partenza sono motivi di ansia, a questi file assegno ogni volta nomi improbabili, tipo Argolo.doc , Giuseppe.doc, Loschissimo.doc. Per questo viaggio, che riguarda la mia tesi, ed è quindi da considerarsi un po’ più serio dei precedenti, il file è stato battezzato con l’ingiustificato nome di Integrazione.doc.

Integrazione! Ricordami che devo portare i dizionari di inglese e tedesco.
Integrazione! Ricordami che devo portare il camice da scienziato.
Integrazione! Ricordami del caricabatteria del telefono cellulare ( che poi dimenticherò).
Integrazione! Ricordami che l’ho deciso io di partire, mica me l’ha imposto qualcuno.
Integrazione! Ricordami che devo  portare pure il fonendoscopio da scienziato.
Integrazione! Ricordami che ogni volta è così, che prima di partire, non mi va di partire.
Integrazione! Il caricabatteria porco giuda, mettilo adesso nella valigia, sennò lo scordi.
Integrazione! Ricordami cosa dice il saggio: prima di partire per un lungo viaggio, devi portare con te la voglia di non tornare più.
Integrazione! Prima o poi succede davvero che non torno più, e ci  facciamo una bella risata.
Integrazione! La vuoi sapere una cosa? Non è che abbia tutta sta voglia di partire.
Integrazione! Vabbè, poi passa. Basta mettersi in macchina, prendere il tagliando al casello autostradale, e se l’autoradio ti manda il pezzo giusto al momento giusto, poi vedi che la voglia ti viene.

Comunque, voglia oppure No, la mia stanza è già stata promessa ad una mia amica che verrà ad occuparla nel tempo che sarò via, epperciò è deciso, si parte. Piuttosto, se conoscete qualcuno che affitta una stanza singola nei dintorni di Colonia, facetemelo sapere, che c’ho bisogno.

all around my Coso

L’ OMS , Organizzazione Mondiale della Sanità, ha sede nelle mie mutande.

Articolo 1: Se mi lavo le mani prima dell’atto di pisciare, vuol dire che ho toccato qualcosa che l’OMS giudica contaminato e sporco.
Articolo 2: Se mi lavo le mani solo dopo aver pisciato, vuol dire che ho toccato qualcosa che l’OMS giudica abbastanza pulito.

Secondo questo criterio, è possibile stabilire un sistema di misura dello sporco. Perché di solito si dice, troppo superficialmente: quella cosa è sporca, quella cosa è pulita, mamma mia che schifo quanto sei sporco, il pavimento è sporchissimo, lavati che sei sporco. Oppure si parla di carica batterica, di carica virale, di carica fungina. In teoria sarebbe un metodo scientifico, però nessuno lo usa, non è che qualcuno arriva a dire: sai, non trovo opportuno toccare il mantello del tuo gatto perché è contaminato da dieci milioni di batteri per centimetro quadrato. Oppure: non ti stringo  la mano perché c’è la concreta possibilità che sia contaminata da orde di stafilococchi incazzati.

Non si fa.

Propongo il mio metodo, che è un metodo forse troppo soggettivo, ma certamente funzionale. Il metodo del pisello. Con questo metodo si può dire: La cornetta del telefono pubblico, secondo me, è sporca tre piselli e mezzo, allora non la tocco. Oppure: la penna della Posta, quella legata con la cordicella per non farla rubare, è sporca quattro piselli meno un quarto. Poi ognuno avrà la sua idea di sporco, così magari arriva l’omaccione lercio che nel compilare il modulo alla posta, considera la penna sporca – che ne so – mezzo pisello ( chissà dove lo avrà infilato!) e la penna se la ciuccia con la bocca chiedendo all’impiegato dove deve mettere la firma.  Il mio prof di inglese delle medie riusciva a grattarsi le palle dietro la cattedra e contemporaneamente ispezionarsi le orecchie con le chiavi di casa.  Probabilmente per lui tutto il mondo era classificabile come due terzi di pisello.

(del suo, di pisello)

Quello che mi preoccupa è che nei bagni maschili dei luoghi pubblici, il maschio italiano per pisciare preferisce evitare il pisciatoio in piedi e si chiude nel cesso. Attenzione, lui procede in questo modo: afferra la maniglia da un lato, poi dall’altro, poi gira la chiave, e quindi si prende il Coso in mano, e infine piscia. Nei bagni pubblici non c’è da lavarsi le mani dentro al cesso, e allora di nuovo gira la chiave, afferra la maniglia da un lato, e a volte pure dall’altro. Poi magari dopo si lava le mani. Secondo una stima approssimativa, la maniglia di un bagno pubblico sarà sporca come, diciamo, trecento piselli. La maniglia di un cesso di Autogrill della Murgia del Nord può raggiungere anche il migliaio di piselli, a giudicare dalle facce dei clienti. Però il maschio italiano se ne fotte, anzi, con magnanimità lancia pure venti centesimi nel cestello della rumena seduta all’entrata.

Il maschio italiano non ha paura di questo, figurarsi. Il maschio italiano, e pure la femmina per la verità, c’ha paura dell’influenza aviaria. Sempre di uccelli si tratta, anche se questi c’hanno le piume ( no, questa battuta fa schifo, ma la lascio).  L’influenza aviaria, in tutti questi anni ha fatto 55 vittime in totale. No dico, 55. Solo in Italia ne muoiono 90 al giorno per distrazione del medico (notizia di ieri) e nessuno di influenza aviaria. L’ultimo morto di influenza aviaria si è verificato la settimana scorsa. E praticamente tutti nel sud est asiatico, dove le mamme fanno giocare i bimbi di un anno con le cacche secche di gallina influenzata come fossero dei pezzi di Lego. Poi magari un cinese quattrenne muore di influenza aviaria e il giornalista compare al Tiggì delle venti sbraitando “Influenza aviaria! …bla bla bla …Influenza aviaria!” con il risultato che il padre di famiglia gnurante imbraccia il fucile, va nel tinello e spara a bruciapelo il canarino giallo nella gabbietta.

In termini statistici, ve lo assicuro,  è molto ma molto più probabile morire così .

push Up and Down (ma soprattutto Down)

La ragazza di mio fratello il Piccolo (D. Pennac all rights reserved) lavora saltuariamente come ragazza immagine in discoteca. L’altra sera mi chiama e mi dice:

– Stasera sono a Bologna per lavoro, se vuoi ti dico in quale discoteca e fai un salto a vedermi, ok?

Siccome sto inaugurando la mia new wave  esistenziale in cui mi sforzo – per quanto possibile – di essere open minded e disponibile anche verso le cose che hanno poco a che fare con me, e siccome la ragazza in questione è davvero una persona simpatica e alla mano, col sorriso spontaneo sulla faccia che tanto raramente si trova sulle facce di quelle tipe che hanno la fortuna di essere nate col fisico allungato da finaliste di Miss Italia, decido che affanculo il nuovo libricino di Sellerio Editore che ho preso in prestito in biblioteca, stasera vado in discoteca e non se ne parla più. E poi, in questo periodo di Pupe e Secchioni, cosa c’è di più alternativo dell’andare a trovare una che è contemporaneamente bona e (udite udite) intelligente?

(termini come new wave e open minded sono il frutto di questi giorni di studio serrato condotto solo ed esclusivamente in english language, e chiedo scusa di ciò, I know it doesn’t sounds cool at all.)

Mi presento sulla porta della discoteca con Tizio ( che non mi permette di scrivere il suo nome sul blogghe) e sulla porta della discoteca ci troviamo il fiume di gente. Mi aveva detto lei: quando sei sulla porta devi chiamare il responsabile della discoteca, ti lascio il numero, e devi dire che sei mio cugino, così lui ti farà entrare. Ho chiesto: ma come tuo cugino? Mi ha spiegato: massai, in questo lavoro non bisogna far intendere di avere “amici” o “fidanzati” perché è controproducente. Ho pensato: ci sono molte cose che non so del mondo in cui vivo, e chissà se vivrò abbastanza da capirne almeno la metà.

Allora chiamo il responsabile e quello ci fa entrare immediatamente, nonostante il fatto che davanti all’ingresso “Liste e Tavoli” ci siano circa centocinquanta persone ferme ad aspettare. Saliamo su di una passerella vellutata che si innalza materialmente (e moralmente) sulle capocce ingelatinate delle persone comuni – quelle che la cugina cubista non ce l’hanno – e siamo subito dentro. Ricordo che anche l’ultima volta che ero venuto in questo posto ero entrato aggratis, e fu la volta che successe questo casino qua.

Non ho voglia di parlare male delle discoteche italiane, ancora una volta. E allora non lo faccio. E quindi posso pure dire il nome del posto (il “Ruvido”, via Maserati, Bologna ) con la coscienza a posto, e la certezza che nessuno potrà querelarmi (e poi comunque questo blogghe ha la credibilità di un fagiolo borlotto tarlato, quindi la querela non avrebbe alcun senso).

Stando così le cose:

– Non dirò che secondo me lì dentro c’erano solo un dieci percento di persone che si divertivano e il resto sembrava più che altro sopravvivere.
– Non dirò che i push up non erano premuti soltanto sulle mammelle delle presenti, ma c’era come un enorme push up invisibile a sorreggere le aspettative dei paganti .   
– Non dirò che bisogna smetterla di dire in giro che in discoteca si balla, perché è una bugia, semplicemente non c’è spazio per farlo, se ti va bene al massimo riesci a tremare, ma sappiamo tutti che è difficile tremare a tempo di house.
– Bisogna smetterla di dire che nelle discoteche italiane si flirta, chè alla porta vedi arrivare le coppiette tenute per mano che pagano il biglietto di ingresso – ingresso Uomo, ingresso Donna, ridotto Uomo, omaggio Donna – e poi entrano dentro tutte contente (cara stasera fatti bella che ti porto in discoteca a sussurrarti parole d’amore nell’orecchio ). Nonostante ciò due ragazzi toscani, arrapati quanto basta, hanno fermato me e Tizio domandando dov’è che stava la “Fiha”.

Mi attengo ai fatti, invece.
Se volete trascorrere una fantastica serata in questo posto (via Maserati, Bologna) posso dire che:

– Il listino prezzi al bar è di un minimalismo struggente: Analcolici 6 euro, Alcolici 8 euro, Acqua 3 euro.
– Di fianco all’ingresso c’è un cartello con una freccia che dice ( e giuro che è vero) : Ingresso parcheggio V.I.P. euro 5.

La ragazza di mio fratello invece non ha ballato. Le cubiste erano due tipe con la faccia scocciata che si muovevano su di un piedistallo. Lei mi ha spiegato che il suo ruolo era quello di restare in piedi nel privè (tra l’altro un buttafuori voleva farmi entrare con la forza in questo privè) e bere qualcosa. In pratica la pagano solo per esistere (così come le pagano il treno, l’albergo, il taxi dalla stazione, il camerino eccetera, tutto affinché lei esista nel privè per qualche ora). Per la prima volta mi sono ritrovato a parlare con una mia amica mentre un buttafuori in giacca nera e auricolare mi guardava storto, come per farmi intendere che quello che stavo facendo era sbagliato.

In tutto questo io e Tizio siamo andati a bere qualcosa per strada, dal camioncino dei panini col gestore napoletano. In tutto questo, nonostante i 12 euri necessari per l’ingresso (per chi non ha la cugina cubista) , nonostante gli 8 euri per un cocktail e i 5 euri per un parcheggio V.I.P. , nonostante le Mercedes e la Rolls Royce (si, quella) in bella mostra davanti alla porta del locale, nonostante i vestiti firmati delle “fihe”  presenti, se ti azzardavi a chiedere una sigaretta tutti ti dicevano che quella era l’ultima, e che non ne avevano, o che pure loro l’avevano scroccata a qualcun altro.

Il risultato è che la mattina dopo mi sono svegliato troppo tardi e non ho potuto vedere la ormai celeberrima Pulsatilla che mi passava sotto casa in bus per leggere il suo libretto ad alta voce.

catarri d'altri tempi

Sono tempi di scatarramento cronico, questi qua.

Mentre cammino tra le strade di Bologna sento crescere in me la necessità di scatarrare sull’asfalto, e se spesso mi trattengo, altre volte – quando sono sicuro di non essere visto – mi lascio andare e sgancio le mie piccole bombe innocenti e biodegradabili. Poi me ne vergogno, e se invece non me ne vergogno, allora me la prendo con le polveri sottili che escono fuori dalle marmitte delle auto, e che mi irritano le vie aeree superiori.

Quando in agosto trascorro le mie giornate col culo immerso nel mare Ionio, e con i denti filtro il plancton dell’acqua di mare, come fossi una balenottera, tutto questo non succede.

Poi torno a Bologna e si ricomincia.

Posso prendermela con le polveri sottili, oppure posso pensare che sia questione di genetica e radici.

Mi spiego.

Il me stesso quindicenne che vagava con la sciarpa avvolta fino agli occhi, durante gli inverni di freddo umido e bastardo del Salento occidentale, non aveva nessun bisogno di scatarrare per terra, col suo faringe nuovo di zecca riscaldato dalle minestrine della mamma. Però il me stesso quindicenne che vagava fra le mura del centro storico del paesello, nella piazza centrale poteva osservare i vecchi decrepiti con la coppola in testa e le rughe segnate dal sole che dialogavano fra di loro accarezzandosi la panza, persi in discorsi oziosi sul morto più recente fra le loro conoscenze, e nel mezzo del discorso, con le mani tenute dietro la schiena, quelli piegavano il busto in avanti solo di poco, e con la sicurezza forgiata da decenni di pratica, sputazzavano il loro regalo sul pavimento mattonato della piazza centrale del paesello. Erano scatarramenti solenni, pieni di dignità e precisione, e il nostro giudizio di quindicenni usciti di casa con duemilalire in tasca non poteva essere negativo, perché quelli erano i vecchi, e i vecchi vanno rispettati sempre e comunque.

La piazza circolare era ogni giorno popolata da questi personaggi panciuti e sputazzanti, e per me che ero uscito di casa da poco, e che se uscivo di casa era per andare a scuola dove mi davano da studiare la Critica della Ragion Pura di Kant ( di Kant?) o la forma del condizionale inglese, o i mitocondri delle cellule, questi troll rugosi erano una novità. Mi veniva detto: questi sono gli agricoltori del paesello, che tornano dalle terre nel pomeriggio quando inizia a fare buio, e vengono qui a fumare le MS e a bere vino rosato miscelato alla gassosa fino a quando non sono abbastanza mbriachi da trascinarsi la panza fino a casa. Di solito questo avviene abbastanza presto, ché la mattina devono tirarsi su all’alba quando è ancora buio, e mettere in moto l’Ape con le zappe caricate dietro assieme all’immancabile cagnolino che abbaia un po’ a tutti, nano e pieno di zecche com’è.

Con le mie duemilalire in tasca, e con il mio motorino da Quattromilioniottocentomilalire parcheggiato all’angolo, mentre con le mani in tasca cercavo di riscaldare le dita infilandole nello spazio compreso tra le gambe e i testicolini da quindicenne, masticavo una Big Babol e dicevo a me stesso “Toh, gli agricoltori del paesello”, e mentre osservavo i troll nella piazza con i loro maglioni infeltriti e le coppole vecchie almeno di vent’anni, capivo che pure nel mio paesello sgarrupato dove i soldi non si capiva da dove venivano fuori, esisteva la borghesia, e pure tutta un’altra porzione di persone che invece non erano borghesia, e che in tutto questo casino forse la borghesia ero proprio io, e davvero non me ne ero mai accorto.

Però, siccome i quindicenni di solito c’hanno le zanzare nel cervello che ballano la rumba, con i miei compari quindicenni muniti di duemilalire ci si infilava pure noi nelle bettole dove vendevano il vino con la gassosa, e orgogliosissimi della nostra bottiglia di plastica quasi tutta piena nascosta in una busta bianca per non dare nell’occhio che sennò chissà cosa pensano, ci ritrovavamo a ciondolare negli angoli della piazza negli orari in cui le panze mbriache erano già rotolate tutte verso casa accolte da mogli incazzate, e dopo qualche sorso di miscela rosa frizzante poteva succedere che qualcuno di noi – in una pausa silenziosa fra i discorsi della sera – si grattasse la gola per accumulare quanta più saliva possibile – e pochissimo catarro, vista l’innocenza immacolata delle nostre faringi e trachee – e sputasse il risultato di tanto gracchiare poco lontano sul marciapiede, producendo un suono esagerato durante lo sputo a guance gonfiate.

Come cuccioli di cane che pisciano per marcare il territorio, ma lo fanno solo quando non c’è il cane più grosso che – scoprendoli – potrebbe azzannarli sul loro pistolino di cuccioli.

Tutto questo per dire che se la colpa di questi scatarramenti cittadini non sono le polveri sottili, allora devo correre subito a comprare una coppola da mettere in testa

senza parole

                         

Oggi ci metto la faccia,

che non mi va di aggiungerci le parole,
che mi viene solo da dire,
mannaggia alle parole,
mannaggia a loro.


(è come se ci fossi stata soltanto tu)

le scarpe col tacco.

Giungo alla conclusione – dopo anni di riflessioni – che l’individuo femminile non indossa le scarpe con i tacchi per il solo scopo di sembrare più alto. In una ipotetica classificazione dei motivi che fanno tramutare una donna “normale” in una donna “taccuta” , ovvero volendo elencare le motivazioni del cosiddetto processo di “Taccamento” della donna di oggi, allora si può dire che la donna sceglie di diventare Taccuta perché:

Motivi Estetici:

– Il Tacco rende la donna Taccuta più alta.
– Il Tacco rende il culo della Taccuta più alto. 

E fin qui.

A questi però vanno aggiunti i cosiddetti Motivi Belligeranti, ovvero tutti quei motivi che trovano la loro giustificazione nella volontà della donna Taccuta di sottolineare la propria superiorità nei confronti delle altre donne, che siano esse Taccute oppure No. E quindi:

Motivi Belligeranti:

– Le mie scarpe col Tacco costano uno sfracco di soldi che tu, povera stronza, non hai.
– Le mie scarpe col Tacco quando cammino producono un rumore Taccoso (Tlok, Tlok) che invece le tue, povera stronza, non fanno.

In particolare il rumore di Tacchi sul pavimento – il rumore Taccoso, appunto – può essere osservato nelle più svariate situazioni, e rappresenta davvero una delle cause più ignorate del processo di Taccamento. In altre parole: se al Tacco ci togli il rumore Taccoso, un Tacco non è più nulla. E’ solo un bastoncino di legno interposto fra il pavimento e il tallone. Il Tacco deve far rumore, sennò che gusto c’è. Negli ambienti lavorativi si può anche osservare come la Taccuta che occupa un posto più elevato avrà la libertà di produrre un rumore Taccoso più forte di quello che invece può produrre la sua subalterna. Anzi, per dirla tutta, la subalterna è meglio se viene a lavorare scalza, quella zoccola.

Quindi si aggiungono i Motivi Ufficiali, cioè quelli che non si ha vergogna a dichiarare, pur sapendo benissimo che sono in realtà totalmente fasulli:

– Ho comprato queste scarpe perché erano bellissime.
– Ho comprato queste scarpe perché erano in saldo.
– Ho comprato queste scarpe perché ho già nella testa tutti i modi in cui potrò abbinarle.
– Ho comprato queste scarpe? Mannò, le ho solo solo prese in prestito, poi le riporto indietro.

caccole fresche

Un mio amico radiologo – mentre col mestolo di legno sta girando nel pentolino il condimento per il cous cous – mi racconta che nell’ospedale dove lavora talvolta si presentano dei signori con i vibratori infilati su per il culo, e che però questi signori dichiarano ai medici di avere soltanto “mal di pancia” ma non dicono nulla del vibratore che gli è sfuggito su per il buchetto del sedere. Quando poi vengono portati a fare le radiografie, e già sanno che il profilo del vibratore non potrà sfuggire ai raggi X, quelli non dicono niente, dicono solo che hanno mal di pancia: Signor dottore, ho un dolorino proprio qui, non sa che fastidio. Allora il dottore, con lo sguardo accigliato, scruta la pellicola radiografica in controluce dove si può osservare la sagoma inconfutabile, a forma di missile spaziale, dell’oggettino del desiderio. Il dottore affermerà serio e professionale: Vede, dal profilo di questa marcata radiopacità, che anche lei potrà notare verso la zona pelvica, mi sento di poter affermare – senza ombra di dubbio – che ci troviamo davanti ad un classico caso di VibratoreInfilatoSuPerIlCulo.

(Oh, Dottore, davvero? Ma non mi dica!)

Così pure io, in questi momenti che mi sorprendo a parlare con i libri invece di leggerli, o che mi scopro a sbuffare insoddisfazioni alle pareti della mia stanza, so benissimo qual è il nome delle caccole cerebrali che ne sono la causa, ma faccio finta di non saperlo affatto. Tanto nessun dottore può farmi la radiografia alla capoccia.

Una mia amica volata in Africa a raccogliere gli stronzi delle zebre per motivi scientifici, mi scrive che ha incontrato – durante uno dei suoi giri da scienziata – un leone tramortito da un avvelenamento, e che ha potuto così esaudire il suo sogno, che era quello di fare micio micio ad un leone vero.

Io che sbuffo alle pareti della mia stanza e che mi impiastriccio i pensieri con supposizioni e ipotesi da scemo quale sono, vorrei tanto fare micio micio alle mie caccole cerebrali, e qualche volta lo faccio pure, intrepido, ma è chiaro che non serve a nulla. Allora continuo a sbuffare roteando su me stesso come se stessi irrigando un prato inglese dove l’erba cresce a forza di pensieri scocciati.

(Oh, Rafeli, davvero? Ma non mi dica!)

mettiamo qualche puntino sulle i

premesso che:

Al sottoscritto non stanno sul cazzo i punkabbestia in quanto tali.
Al sottoscritto è anche successo di incontrare punkabbestia simpatici.
Il sottoscritto aveva pure un amico che si è fatto punkabbestia (come dire che si è fatto prete) e quando lo incontravo per strada glieli davo, gli spiccioli, e ci scambiavo qualche battuta.
Il sottoscritto non è uno che i centri sociali li snobba, anzi ne fondò anche uno al suo paesello.

si avvisa che:

Al sottoscritto danno al cazzo le categorie e il conformismo sfrenato.

Il CONFORMISMO – avete capito cosa voglio dire? – il  conformismo, per diamine.

Significa che un giorno un essere umano si sveglia  e decide: oggi divento punkabbestia ( oppure divento fighetto, oppure divento ultrà, oppure divento maniaco di motociclette, oppure divento dark, oppure divento indie, oppure un attivista politico, oppure fondo una Cumpa di cannabis addicted,  oppure divento quel cazzo che vi pare) e da quel giorno, l’adepto della nuova religione comincia a seguire scrupolosamente i dettami della sua dottrina.

Essere CONFORMISTI è un modo di vivere più comodo.

Perché ad essere CONFORMISTI non ti devi porre il problema di come vestire ( ti devi vestire come gli altri) non ti devi porre il problema di capire chi sono i tuoi amici ( perché i tuoi amici saranno quelli vestiti come te) non ti devi porre il problema di quali posti frequentare ( vai dove vanno quelli come te) non ti devi porre il problema di cosa dire ( meglio se non dici niente, guarda, che è già stato detto tutto).

Per esempio, sono molto più conformisti i punkabbestia fra di loro, rispetto a – per dire – una caserma di carabinieri.

Il CONFORMISMO, in fondo, non va biasimato troppo, perché è uno stile di vita più comodo, ma è anche un sintomo di debolezza. E se uno è debole non è che gli puoi dire: “Tu sei debole, per favore datti fuoco, che non ti vogliamo su questo pianeta”.

E’ un retaggio dell’età della pietra.
L’uomo primitivo poteva crescere in una tribù dove tutti dicevano – che ne so – “Uga Buga” e si dipingevano la faccia con cacca di Stronzosauro, e l’uomo primitivo vedendosi circondato da gente così, non poteva far altro che dire pure lui “Uga Buga” e dipingersi la faccia con la cacca dello Stronzosauro. Anche perché se non lo faceva, veniva abbandonato da solo nella foresta e diventava la merenda dello Stronzosauro. Perché l’uomo primitivo era saggio, e l’ha capito subito che l’anticonformista è solo una fonte di problemi.

Io per esempio, con questo anticonformismo cronico che mi attanaglia, di solito sono solo una fonte di problemi per le tribù che mi circondano.

Il fatto poi che i punkabbestia, o i fricchettoni loro cugini, siano mediamente delle persone approssimative, portatrici di ideali approssimativi, e che esprimano con linguaggi approssimativi i loro dogmi politici approssimativi, e che di solito si incontrino in manifestazioni approssimative, è un altro discorso. Questo vale per tutti gli integralisti. Ciò non vuol dire che tra di loro non ve ne sia qualcuno diverso, in fondo ho conosciuto anche turchi biondi e con gli occhi azzurri, ma se proprio devo immaginare un turco, allora me lo immagino scuro, e se mi devo immaginare un punkabbestia, me lo immagino (censura).

Quello che voglio dire – porcaccia la miseria – è tutt’altro.

Queste mie righe sono in verità un affettuoso abbraccio a tutti quelli che stanno Nel Mezzo, dove le categorie si mescolano e non esistono più, a tutti quelli che vivono nelle sfumature intermedie dei colori, dove i punti di riferimento sono scivolati giù per lo scarico del cesso, e non ci sono miti da inseguire,  e mancano le etichette e le divise e i luoghi comuni, e magari incontri pure uno Stronzosauro che ti azzanna il culo.

Queste righe vogliono essere un abbraccio sincero a quei pochissimi che l’individualismo se lo portano tatuato addosso loro malgrado, che vivono la solitudine delle volpi, perché non sono capaci di vivere in branco come fanno i lupi. Sono i pochissimi che non riescono a trovare conforto a lasciarsi cullare in una ideologia, da una religione, in una tendenza o da una moda passeggera, ma al limite riescono a fidarsi delle proprie gambe e della suola delle proprie scarpe.

A tutti quelli che camminano con i pugni in tasca – nel Mezzo di tutto – dove il vento soffia più forte.

caro animalista

Caro animalista che urli Assassini nel megafono sulla porta dell’Upim,
ti odio.

No, no, aspetta, posso fare di meglio.

Caro animalista che urli Assassini nel megafono sulla porta dell’Upim,
insieme con i tuoi amici sovversivi,
con i tuoi dread locks venuti male,
con la tua magliettina scolorita e sudata,
che urli Assassini nel megafono e mi torturi le orecchie,
che poi siccome non sei capace di parlare,
con la tua dialettica da analfabeta esagitato,
ti metti a dire Basta con questi Massacri,
ti metti a dire Basta con queste Carneficine,
poi siccome sei povero di argomenti,
cominci a prendertela col Consumismo,
e cominci a dire basta con il Capitalismo,
che se pure un bambino passa da lì vicino,

e non sa cosa minchia è il Capitalismo e il Consumismo,
comincia a pensare che saranno cose bellissime,
se uno come te si incazza così,
solo a nominarle,
comunque dovevo volevo arrivare,
volevo dirti cosa,
volevo dirti che ti odio.

No no, aspetta, non devo essere così precipitoso.

Caro animalista che urli Assassini nel megafono sulla porta dell’Upim,
ma possibile che non ti rendo conto?,
che il cucciolo che ti sei portato dietro,
e i cuccioli che si sono portati dietro i tuoi amici punkabbestia,
non possono stare vicino a uno che urla nel megafono,
che quelli sono cuccioli e andare in giro col guinzaglio non va bene,
che sfondare le orecchie ad un cucciolo di un mese è una coglionata,
va bene che sei un coglione,
però mi pare abbastanza evidente,
porta quel cucciolo a casa fammi il piacere.

Caro animalista che urli Assassini nel megafono sulla porta dell’Upim,
facciamo una bella cosa ti va?,
una bella cosa da animalisti veri,
e non da animalisti coglioni,
questa sera ci mettiamo a fare le ronde per Bologna,
in tutti i centri sociali,
e in tutti i posti all’aperto dove fanno concerti dal vivo,
ci piazziamo davanti alla porta,
io e te,
e anche i tuoi amici col cervello bruciato dalle droghe,
e sbarriamo l’ingresso a tutti quelli che vogliono entrare col cane al seguito,

che lo sai bene mio caro sessantottino fuori tempo massimo,
che sono tanti quelli che la fanno,
questa cosa di entrare col cane ai concerti e alle sagre,
o nei festini in casa col fumo che satura le stanze,
e il cane che non può decidere un cazzo,
può solo seguirti e basta.

Caro animalista che urli Assassini nel megafono sulla porta dell’Upim,
possiamo andare pure per cliniche veterinarie,
lo sai quante volte succede,
che portano il cane con la tachicardia,
che si è ingurgitato il pacchetto di mariuana del padrone,
mentre il padrone era collassato con la bocca verso il soffitto,
io che studio proprio veterinaria (guarda che caso),
qualche volta mi è successo di vederli,
di proprietari spaventati che portavano il cane alla visita,
ed altri casi me ne hanno raccontati,
e tutti più o meno assomigliano a te,
con i dred e la maglietta scolorita,
con la faccia sputata come la tua,
facciamo che andiamo in giro con i bastoni,
e li prendiamo a mazzate sulla nuca?,
che ne dici sarebbe fantastico,
quasi quasi comincio da te,
che da qualche parte devo pure iniziare,
dai per favore mettiti in posizione,
e non farmi perdere tempo.

                                         

rafeli ha bisogno di te (c'è la punta di un dito che ti indica, ma non la vedi)

Finalmente, dopo lunghissime doglie che non sto qui a descrivere, ho partorito il romanzino.
La notizia è: il romanzino è online, lo può leggere chiunque, si può scaricare, si può stampare e magari anche leggere mentre si è seduti al cesso.

(Oppure No)

Voglio dire, mi fa piacere se qualcuno lo fa, ma leggersi centosettantanovemilaottocento battute non è cosa da poco, lo capisco bene, soprattutto su di un monitor di computer. C’è il concreto rischio che vi caschino le pupille dai bulbi e che vi rotolino sotto l’armadio, in un punto imprecisato del pavimento dove col cazzo che le ritrovate. Per non parlare poi del gatto, ché quello – lo sapete bene – appena vede rotolare qualcosa ci si fionda sopra con le unghie appuntite. Insomma, mi fa piacere se lo leggete, ma non è che per forza.
E se lo fate, per lo meno chiudete prima il gatto nel ripostiglio, che non si sa mai.

Lettore pignolo: Si Vabbè Rafeli allora che cazzo vuoi?

Ho bisogno che mi votiate, ecco cosa c’è.
Ci sarebbe un concorso di mezzo, e votare è abbastanza semplice. C’ho proprio bisogno dei voti, per questa cosa del concorso, e credo che continuerò a rompere i coglioni a lungo con questa storia dei voti. C’ho bisogno di voti, voti, voti, votiiiii…

Lettore pignolo: Si Vabbè Rafeli ma se non ti ho letto, come faccio? Quella storia delle pupille rotolanti mi ha impressionato un po’.

Tu votami lo stesso.
Anche perché, se pure ti leggi il mio romanzino, poi non avrai tempo e pazienza di leggere tutte le altre “opere” in concorso. Fai finta che stai votando il mio blogghe, ecco. Se poi ti sto sul cazzo, e il mio blogghe ti da fastidio, votami lo stesso, che un giorno troveremo pure il modo di fare pace, io e te.

E poi, pensa questo: di solito il bloggher medio quando c’è una votazione di mezzo, pubblica la foto di Totò col megafono in mano affacciato alla finestra, e ci infila pure qualche citazione colta come ad esempio “Vota Antonio La Trippa”. Oppure copia e incolla qualche spiritosaggine di seconda mano sui manifesti elettorali di Berlusconi. Di solito va così, no? Ecco, io almeno ti ho evitato lo strazio. Votami per questo, almeno.

Lettore pignolo: Si Vabbè Rafeli ma così poi vincerà quello che ha più amici che lo votano! Che cazzo di concorso di merda è questo?

Non è esattamente così.

Questo voto mi serve per poter essere giudicato – in seguito –  da una giuria di personaggioni competenti. Di quelli che ne sanno, insomma. Con la votazione, quelli fanno solo la scrematura, quindi prendono il grasso di superficie che si è formato, e poi decidono autonomamente chi ha vinto, coi loro capoccioni da esperti.

Lettore pignolo: Si Vabbè Rafeli ma se non ti voto?

E’ semplice, mi incazzo.

Lettore pignolo: Vabbè, dai, non fare così.

No guarda, lasciami stare che mi sono offeso.

Lettore pignolo: Ma dai, scemo, vieni qua, non fare il bambino.

No guarda, con me non attacca, mantieni le distanze che mi sono offeso.

Lettore pignolo: Ma ti pare un motivo serio, questo qua, per offendersi? Cosa devo fare per farti calmare,  devo andare a votare immediatamente?

Eggià, ti sembra facile, adesso, uscirtene con sta cosa che mi vuoi votare. Prima tiri fuori i Perché e i Percome, i puppupù e i lallalà, e adesso dici che mi vuoi votare. E’ comodo, così.

Lettore pignolo: Ok ho capito, cosa devo fare?

Vuoi davvero…?

Lettore pignolo: Dai, spara, scemo. Sentiamo cosa vuoi.

Ecco, per esempio… ti potresti incollare il bannerino promozionale sulla fronte e andare per le piazze a sostenere la mia campagna elettorale. Magari con un tamburo che ti penzola dal culo stile Edoardo Bennato prima che andasse a fare il cretino con Britti…

Lettore pignolo : Mi hai preso per un deficiente?

Vabbè, ho capito lascia perdere. Come non detto.

Lettore Pignolo:  No no, come vuoi. Basta che la smetti con quel muso, che non ti si può vedere.

Amici come prima, allora.
                                            

                                             

Il romanzino
lo si legge Qui