– Hai capito se esiste la Grande Bellezza, poi?
– Penso che sia l’indimenticabile. La maggior parte delle cose tendono a svanire nella memoria. Ciò che resta impigliato, nel bene o nel male, ha a che fare con il bello della nostra vita.
– Hai capito se esiste la Grande Bellezza, poi?
– Penso che sia l’indimenticabile. La maggior parte delle cose tendono a svanire nella memoria. Ciò che resta impigliato, nel bene o nel male, ha a che fare con il bello della nostra vita.
L’olandese che abita sopra la mia testa – e che ha un marcatissimo accento olandese – lavora come ricercatrice sul fine vita. Ovvero cose che hanno a che fare con la morte, o con i mesi poco prima della morte. Ho intuito che fosse olandese dalla bicicletta legata ad un palo con una catena, senza paura dei probabili furti – manco fossimo in nordeuropa.
Sei salentino? mi chiede uno. Sì che lo sono – rispondo, considerando che a parlare tutto il tempo inglese o al limite francese, questo accento perfortuna purtroppo non si accentuerà mai e resterà riconoscibilissimo ovunque. Lui è un ricercatore (salentino) che da ste parti studia terapie innovative contro l’Alzheimer.
Perché a Brussèlle abbiamo sta cosa che le storie interessanti le trovi nei pertugi, dove meno te le aspetti, dietro facce e nomi che non lo diresti mai.
Mi piacciono gli annunci dei gatti smarriti. La tristezza e l’inestetismo estremo di questi fogli A4 con l’immagine tagliata male di un gatto sul divano e gli occhi rossi causa flash, una foto magari scattata a Natale, e l’annuncio lacrimevole in Times New Roman, e lo scotch inzuppato di pioggia avvolto attorno al palo del divieto.
Al mercatino sotto casa ci sono donne incinte, ragazzi che rollano sigarette, bambini che scivolano sullo scivolo, cani con la coda dritta all’insù, nonne coi capelli tinti male, venditori di piante di timo che scherzano in spagnolo coi figli degli acquirenti. Trovo un tipo che vende le orecchiette di bari e pezzi di polpo fresco lessi al limone. Compro tutto.
Mentre bevo vino bianco coi colleghi, un gruppo di bambine ottenni si avvicina e mi osserva in silenzio, a distanza di un metro. Tutte bionde, tutte sorridenti, osservano e non dicono niente. Dev’essere uno scherzo che fanno a tutti. Chiedo spiegazioni in francese, mi rispondono in inglese e tedesco, ma precisano che capiscono pure un po’ di francese aussi. Spariscono come sono apparse.
Il giorno dopo uscendo dalla metro inaspettatamente mi trovo nel mezzo della Baloon’s day parade.
Domani, alla lista “posti che se non mi ci avessero portato, ancora non avrei visitato” si aggiunge Lisbona.
Non ci conoscevamo e del resto neanche adesso ci conosciamo. Avevamo parlato pochissimo.
Una volta mi dovevi spiegare robe di soldi, c’avevi delle tabelle davanti, indicavi i numeri con la penna, io non volendo – anzi volendo – ho indugiato sui bottoni aperti della tua camicetta. Te ne sei accorta ed io mi sono detto Bene, Monumentale Figura di Merda. Poi un’altra volta mi hai trovato che analizzavo una massa informe di gente ballare di fronte a me, io ero fermo e quieto e sorseggiavo il mio ventiduesimo bicchiere di bianco, in una situazione di quelle dove c’è sempre uno che passa per rabboccare il bicchiere, in una situazione di quelle dove fai osservazioni che poi dimentichi subito dopo.
Quindi ovviamente non me lo aspettavo che mi avresti contattato qualche settimana dopo per dire Potremmo Fare Qualcosa Insieme, che so, per esempio una cena. Il tutto in punta di piedi e senza fronzoli e in mode non-zerbino tanto raro di sti tempi che ho dovuto dire di Sì a prescindere. Non c’entra niente la serata tranquilla e questi piatti nordafricani cotti in strambi contenitori di ceramica, e non c’entrano niente i poi potenziali, c’entra solo il fatto che dopo tornando a casa con meno tredici pensavo ai flussi di eventi regolari, e di come ci si può abbandonare passivamente ad essi senza protestare, oppure al prendere in mano il corso degli eventi e fargli cambiare direzione con un colpo secco di mano, e dei bei minuti, ore, o giorni che ne possono seguire solo perché un giorno hai deciso di forzare le cose, invece di lasciarti andare al flusso che ho già detto.
Ma non mi viene bene descriverlo, mi viene invece in mente un passo di un libro che rimugino spesso ma applico pochissimo, e che comunque sarà uno dei motti di questi miei anni dieci, come minimo.
“Lo so come ti senti. E’ come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, perché ho capito che l’unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti.”
(Guido Laremi di Due di Due)
Oggi c'è il sole anche a brussèlle. Vado a correre con una maglietta sgualcita che tanto si stirerà con il sudore. Nel parco c'é un padre che insegna alla figlia ad andare in bicicletta. Barcolla dietro di lei tenendole il sellino. Dopo averli superati correndo, ti sei guardato indietro, hai guardato lo stupore ed il sorriso a bocca aperta sulla faccia della bambina, perché stava andando da sola.
L'umore influenza le scelte giusto? E se ne rende conto la gente che compra scaffali e tovaglie e comodini e asciugamani all'Ikea? Ci pensa che l'umore che si portano appresso influenzerà le scelte degli scaffali e tovaglie e comodini e asciugamani che poi compreranno? Questi umori resteranno per sempre stampigliati contro quei comodini e asciugamani.
Well, almeno per me.
Dovrebbero girare attorno all'edificio prima di entrarci, facendo scorrere le canzoni nell'autoradio fino a quando non arriva quella giusta che ti sistema l'umore, e appena l'umore s'è raddrizzato, entrare e comprare tutto di fretta prima di farsi consumare e influenzare dalle luci sintetiche e odore di truciolato e matite Ikea che si spezza la punta e bambini urticanti.
Per fortuna la mia Crassula l'ho comprata oggi pomeriggio che ok, non era un bel pomeriggio, era solo un pomeriggio nuvoloso e mitteleuropeo come tanti altri, ma perlomeno non mi portavo appresso l'umore che mi porto appresso in questo momento dopo la visione di Dieci Inverni (grazie V. per la segnalazione) e non ero il me stesso che poi più tardi ovviamente si è andato a cercare la canzone del momento peggiore del film – lo stesso che poi chiude il computer e fa finta di niente. Fa finta di fare finta di niente. Crassulo che non sono altro.
Natalie Portman ha vinto l’Oscar in un film che e’ niente di che, tranne appunto, Natalie Portman.
E se avesse recitato male? Sarebbe stato uguale. Ci sono alcuni momenti del film in cui la camera la segue di spalle. Lei ha i capelli legati dietro – e’ una ballerina, ha i capelli da ballerina – la testa affondata in una sciarpa. Ci sono persone che la Natura le dona certe nuche che non so. Oppure ci sono certe persone che vai a capire il motivo, si fissano sulle nuche.
(in una una delle poche foto da dietro)
Certe volte guardo la filazza di libri che mi porto appresso di casa in casa, la guardo trattenendo il respiro – le voglio bene, alla mia filazza di libri ingombranti – e penso: questi sono i libri che mi sono portato appresso nell’ultimo anno e mezzo. Li infilo nelle scatole, quelli restano nelle scatole per mesi, poi vengono fuori, poi tornano dentro. Eccetera. E sono solo i libri letti in questo anno e mezzo, e sono tanti, e gli voglio bene. Quello che penso e’: cosa sarebbe successo se avessi sempre avuto i soldi per comprare i libri che volevo, invece di prenderli in prestito per anni dale biblioteche. Cosa sarebbe succeso se avessi vissuto sempre nello stesso posto, o al limite con piccolo variazioni ma non di centinaia o migliaia di chilometri. Sarebbe successo che adesso avrei una biblioteca bellissima, che mi coprirebbe tutta una parete di una camera, o forse due, dal pavimento fino al soffitto. Ci sarebbero libri che si riempiono di polvere, che si accumulano negli anni e dopo anni ti dimentichi la trama e poi tornare a rileggerli, e a volergli bene di nuovo, ad annusare le pagine di nuovo. Se penso alla gioia e al calore che la mia attuale fila di libri mi offre, seppure cosi’ eterogenea e sgualcita, se penso a questo, poi penso alla mia biblioteca che non e’ mai stata, e mai sara’, perche’ pure a vincere alla lotteria e comprarli tutti nuovi non e’ la stessa cosa. Sono pensieri come dopo un aborto, che pensi ad una cosa che sarebbe potuta essere, e non e’ stata, e comunque ci puoi girare attorno quanto vuoi, ma non sara’ mai.
Dopo ore di nervosismo pessimismo e ragionevole fastidio, dopo aver perso tempo fra lavori stradali che io mica posso evitarli, i lavori – ché i cartelli cento metri prima sono scritti in barbaro, porcalamiseria – dopo aver cercato parcheggio per mezz’ora, sono entrato incazzatissimo nell’ufficio anagrafe per cambiare il mio indirizzo ufficiale, e incazzatissimo mi rivolgo al receptionist. Lui ha una camiciola estiva e una faccia cioccolato, e sorride e preme un bottone e sorridendo mi da’ il biglietto e mi dice: Per Gli Indirizzi, Vai Qui. E sorride. Ed io mi ricordo improvvisamente di lui, della mia prima volta all’ufficio anagrafe un anno prima, e di lui che pure quella volta era sorridente e gentile, e quella volta – come questa volta – pareva avesse appena cominciato la giornata, e invece erano le otto di sera. A vederlo così gentile e sorridente ho pensato: questo qui sorride solo quando arrivo io, come in un Truman Show lui sorride solo al mio passaggio. Ed ho pensato, se fosse così, sarebbe davvero incredibile. E poi un momento dopo ho pensato, forse non è un Truman Show, forse lui ha sorriso a tutti, ogni giorno di questo lungo anno, a tutti quelli che come me – probabilmente meno di me – sono arrivati incazzati al suo sportello. Ed ho pensato, se fosse davvero così, allora sarebbe ancora più incredibile.
Allora mi chiedevo, l’altra sera che ero sceso in strada a guardare gli alberi, e una ragazza col cane é passata vicino a me e si é voltata e mi ha detto Hello, e io ho risposto Hello, e non ci conoscevamo, e questa cosa qui mi succede sempre, se da queste parti per strada incontri qualcuno e ci sei soltanto tu e questo qualcuno di passaggio, allora ci si saluta, si sorride pure, certe volte, ed io mi chiedevo se questa cosa succedeva pure in Italia, di sicuro mi ricordo che a Bologna non succedeva, anzi in quei momenti calcolavo con precisione il numero di passi necessari prima di voltare lo sguardo da un’altra parte.
Non so se mi spiego. Da vedere.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai – dopo che mi hanno rubato la bicicletta, dopo che il computer mi si sta squagliando sotto i colpi di un virus simpaticissimo, dopo che ho preso un raffreddore che mi fa sentire un vermetto infilzato nell’amo – io sia qui tranquillissimo a costruire pensieri sul sole che alla sera taglia di traverso i rami degli alberi.
Parigi ci abbiamo camminato tantissimo. Lo so non é italiano, ma suona bene. Parigi ci abbiamo camminato tantissimo, io e la Meisje, che poi mi sono venuti due polpaccioni alle gambe che di solito non ho. Due polpaccioni cosí evidenti che al ritorno, in un autogrill da qualche parte nel Belgio, li ho scoperti tirandomi su il bordo dei pantaloni facendo lo scemo sulla porta del bagno delle donne, mentre la Meisje faceva le smorfie allo specchio.
Parigi praticamente pullula di francesi. Parigi praticamente scopri che i francesi, a differenza degli altri europei, li piace il capello spettinato e la sciarpa la portano diversamente dagli altri europei. Capisco che potrebbe essere poco interessante – ché ste cose per notarle bisogna girare per l´Europa e fare i confronti – ma loro i francesci la sciarpa non la attorcigliano piú volte attorno al collo come gli italiani, ma la girano sul collo e poi la fanno cadere lunga sul davanti o sul didietro. Tipo Piccolo Principe per capirci. Sono francesi.
A Parigi c´erano strade attorno al Tour Eiffel che ti rendevi subito conto di non essere nella barbaria architettonica del Paese Basso, ma con buona approssimazione avresti potuto credere di essere perfino a Lecce. L´architettura parigina ti provocava una forte sensazione di impero romano d´occidente. C´erano i russi che assaltavano il negozio di profumi di un brand particolare che fuori dalla Francia non si trova, e tu che ti sei spruzzato addosso quello sbagliato la notte ti sei poi dovuto alzare dal letto per sciacquare via l´odore. C´erano un cameriere – a proposito di russi – che servendoti il pranzo al Quartiere Latino ti ha chiesto se eri russo o polacco, invalidando in un microsecondo l´effetto suggestivo (credevo io) della mia nuova coppolina francese. C´erano turisti del Colorado che dicevano Sí Sí, sei est europeo, si vede benissimo. No guardi io sono terrone, ho risposto, altro che est europeo. C´era poi la Meisje che si vantava di non essere scambiata per turista nelle stradine della cittá. C´erano quelli del Colorado che peró dicevano tu sei est europeo mentre lei si vede che é italiana. Evidentemente da seduta sembri piú italiana, le ho detto io. C´erano due personaggi – ovvero noi due – che andavamo a fare una visita turistica al quartiere multietnico di Belleville, motivati da ragioni letterarie (che come al solito se le conosci ok, se non le conosci, inutile spiegare).
C´era il sole.
C´era la Meisje che comprava le calze in un negozietto gestito da una signora mesopotamica con la suocera coperta dal velo. C´era il mercato dei pappagalli. C´era la Senna enorme. C´erano le comitive di studenti in gita, e fra loro gli italiani che insomma é definitivo, sono i peggiori di tutti. C´era una crepes al caramello e gelato che dovevamo prenderne due invece di una. C´era poi alla fine l´incontrovertibile consapevolezza che era stato molto meglio andarci, a fare sta cosa, piuttosto che No.
Studio e lavoro in inglese, eppure non ho ancora capito come cavolo si pronuncia la parola “literature”. Siccome non lo so – perchè magari lo so eppoi lo dimentico – allora vado sui dizionari online che ti dovrebbero schiarire le idee. Secondo questo sito, per fare un esempio, la giusta pronuncia inglese sarebbe Li-ccia-ccià, mentre quella americana (si deve cliccare sull’iconcina con la bandiera, per ascoltarla) sarebbe addirittura Bli-dar-Ciàr, che somiglia di molto al ruttino post prandiale.
Ora.
I topi non sono stati sconfitti, per la cronaca. Ogni notte consumano dosi massiccie di veleno. Allora delle due l’una: o il veleno non funziona, o nelle fessure della casa si nascondono migliaia di topi. Da capirsi.
Qualcuno fra i commenti chiede del Cuggino Rasta. Posso solo dire che quello che non doveva succedere, è successo. Per il resto, le conseguenze sono state talmente deleterie che per motivi umanitari preferisco evitare di scriverne.
L’ultima baggianata dei giornalisti italiani è quella di condire notizie da nulla con l’esclamativo di Facebook. Del tipo: questa cosa fa discutere molto «se ne discute su Facebook » oppure (peggio) il gruppo a sostegno di Pinco Pallino su Facebook «ha raggiunto i totmila iscritti». Utilizzando questo metodo precisissimo, questi alchimisti dell’informazione si sono scervellati a lungo, hanno analizzato tabulati complicatissimi, interpretato grafici intricaterrimi, e infine sono giunti alla conclusione che le tette grosse fanno audience.
Il mio coinquilino biondo dagli occhi azzurri sembra tirare su con il naso mentre si fa il tè. Ha gli occhi rossi. Forse è raffreddato, forse è altro. È altro? mi interrogo. Se non glielo chiedo, allora sono io ad essermi «raffreddato». Infatti poi non glielo chiedo, non trovandomi d’accordo con me stesso.
Questo viaggio ha inizio nella fornitissima libreria dell’Aereoporto di Brindisi, dove il sottoscritto prende in mano un libro ancora non letto di Amélie Nothomb, autrice belga, e invece di portarselo via come avrebbe fatto negli anni passati, decide di lasciarlo al suo posto. Questo smacco al Belgio verrà poi pagato nel seguito di questa storia. Una troupe televisiva intanto cerca qualcuno da intervistare riguardo ai disguidi aerei del giorno prima, io dico che No, non ho niente di cui lamentarmi (ancora non sapevo).
Che poi, questa storia comincia in realtà a Barcellona, dove l’aereo che mi avrebbe riportato a Parigi (e da lì in treno fino in Paese Basso) va a scontrarsi con un muletto porta bagagli. Niente aereo Myair quindi (Sì, diciamolo, Myair, che poi se vogliono querelano). Al suo posto, si presenta un anonimo aeroplanino tutto bianco, che poi si scopre essere aeroplanino moldavo. E munito di personale di bordo anch’esso moldavo. Il personale di bordo (Myair, se non è vero querelami) è costituito da uomini vestiti alla bavarese e chiaramente incinti, una palla sferica al di sotto della camicia. L’aereo, sgarrupatissimo, non riesce neanche a trasmettere le comunicazioni attraverso gli altoparlanti, che la voce va e viene. Tranquillità e fatalismo nei sedili sgarrupati, traducendo a caso le pubblicità moldave per ingannare la paura. Al posto delle solite pizzette e coca cole, vengono distribuiti bicchieri di plastica e acqua direttamente dalla bottiglia, ovviamente aggratis. Robe d’altri tempi, o anche – se vogliamo – robe da sequestro di ostaggi in banca.
Arriviamo a Parigi con due ore di ritardo, io che smadonno dentro di me – ho un treno per il Paese Basso che non devo perdere – ma poi gli smadonnamenti diventano inutili quando non vedo arrivare il mio bagaglio, e capisco che non solo il treno è palesemente perso, ma pure il bagaglio è anch’esso perso; il mio autcontrollo invece No, nonostante mi trovi nel mezzo dell’Europa privo di ricambio di mutande. La signora dell’ufficio bagagli arringa la folla inferocita, squittendo in francese. Io mi avvicino e le chiedo qualcosa in inglese, lei strabuzza gli occhi e vomita parole a caso. Non parla inglese. Io vorrei prenderla per le orecchie come il manubrio di una motocicletta e urlarle che Cazzo, non si può lavorare in un aereoporto internazionale, e non sapere l’inglese. Sta cosa mi irrita, lo ammetto, e vorrei davvero tenerla per le orecchie, così per fare, e recitarle il Sabato del Villaggio nell’italiano arcaico di Leopardi tanto per fare, perchè se lei si ostina a dire Oui Oui allora perchè io non posso dirle che «I fanciulli gridando/su la piazzuola in frotta,/e qua e là saltando,/ fanno un lieto romore;/e intanto riede alla sua parca mensa,/fischiando, il zappatore »?
Lascio perdere, e mi precipito scapicollandomi alla stazione dei treni. Nella metro che porta in stazione, un fisarmonicista suona La vie en Rose e a me viene da ridere, nonostante un termolìo della palpebra che vorrebbe dirmi qualcosa di diverso.
In stazione mi fanno notare che il mio biglietto per il Paese Basso, a quell’ora, posso anche usarlo per fare un aeroplanino. Ne compro un altro, allora, dico io. Niente treni a quest’ora, mi dicono. Niente treni!?! Niente, mi dice la Maria Maddalena della biglietteria, e tra l’altro, se ne vuoi uno fino a Bruxelles dimmelo ora, che io chiudo fra quattro minuti, altrimenti Taci Per Sempre. Aspetta, fammi pensare, dico io. Tre, dice lei. Tre cosa? Tre minuti. Dammi sto cazzo di biglietto. Tra parentesi, un’ora e ventitre di viaggio per modici novanta euro.
Nel treno scopro la superiorità delle Ferrovie dell Stato italiane che almeno hanno inventato quei portelloni a scorrimento per i cessi. In questo treno da novanta euro per ottanta minuti di viaggio (quasi un euro al minuto, se ci pensi) le porte si chiudono all’interno, così poi succede che se c’hai uno zaino sulle spalle, puoi anche pisciare, ma poi ti devi rassegnare a trascorrere il resto della tua vita incastrato lì dentro.
A Bruxelles ci sono meno nove gradi, e una volta giunto lì chiamo amico compare che pratica la sua avvocatura da quelle parti.Gli spiego la cosa nel metodo più scarno possibile. Sono ostaggio di forze avverse in paesi stranieri, gli dico, e non so dove andare. Lui, gentilissimo, mi dice che mi verrà a prendere volentieri in stazione. Io che mi porto una sfiga addosso che ormai credo sia diventata visibile pure ai passanti, scopro in seguito che l’ho chiamato nel mezzo di una litigata con la sua ragazza. Io non so cosa dire, penso solo ai meno nove gradi di Bruxelles. Gli dico che evidentemente è colpa mia, di sta nuvola di cacca che mi segue dal Salento. Ho visto per la prima volta la sede della Commissione Europea, comunque. Spero che emanino regole condivise sulla portellatura dei cessi di treno, perlomeno, in futuro.
Sono riuscito ad arrivare a casa verso le due del pomeriggio, oggi, dopo un viaggio di ventisei ore. C’era il sole. Ho sbagliato pure l’ultimo treno, estasiato dal sole, quando ero a due chilometri da casa. Alla fine tutto sto casino, è vero che palle, ma c’era comunque il sole. Amelie Nothomb la comprerò sempre, prometto. Mi portavo appresso invece “Brothers” di Yu Hua e l’ultimo di Paolo Villaggio. Ed il Corriere, che a comprarlo all’esterno non solo costa il doppio, ma macchia pure le mani. E poi non penserò che i musicisti da metropolitana danno fastidio. Anzi, certe volte fanno pure ridere, senza motivo.
E ogni tanto mi capita di pensare alla gentilezza ed alla disponibilitá come concetti astratti, e penso che vorrei averceli, questi concetti astratti, inculcati nella mia testa, e che non fossero affatto astratti. Che poi, invece di dire gentilezza e disponibilitá, sarebbe meglio dire bilancio negativo fra dare e avere, ovvero dare piú di quello che si riceve. Non so se riesco a renderlo chiaro, sto concetto del bilancio negativo.
La prima fase – peraltro involontaria – è stata quella di prendere pochissimo, prendere quasi niente, e su questo mi sono spinto anche troppo oltre, sconfinando largamente nell’eremitaggio, soprattutto negli anni passati. Poi è venuta quella di non ritenere scontato nulla di quello che si riceve, e poi dopo tutto questo dovrebbe arrivare la fase in cui si apre il rubinetto – lo si pulisce del calcare accumulato per l’eremitaggio di cui sopra – e si fa uscire piú acqua di quella che entra. Per adesso sto studiando le tubature, sto cercando uno sturalavandini adatto, e sto cercando di convincermi che non è importante dove e su chi si spruzza, l’importante è spruzzare. Annaffiare, che poi tanto qualcosa cresce.
La fase ancora ulteriore – quasi fantascienza, a sto punto – sarebbe quella di annaffiare, anche sapendo che non cresce nulla. Farlo per il gusto di annaffiare. Il giardinere ispirato e benevolo. Ma non montiamoci troppo la testa.
Parcheggio la macchina e lui arriva subito. Il sole sta per tramontare e lui è lì nell’angolo a guardarmi in faccia. Ha una macchia enorme arancione attorno al naso che sembra una mappa geografica. È quasi tutto arancione per la veritá: arancione e bianco, le zampe arancioni e la pancia bianca.
È un gatto che ogni sera mi viene incontro, si fa vedere appena apro lo sportello, poi mi vede – vede che sono io – e allora si ferma. Attende un paio di secondi e se ne va. Continuo ad immaginare che in realtá lui vorrebbe che io fossi un altro – ma chi? – e allora mi viene incontro ogni giorno per questo.
Ed io – perchè sono io, non sono un altro – ogni giorno lo deludo.