cazzo vuoi, primavera.

Vattene via primavera, e torna da dove sei venuta.

Vattene via primavera, che altrimenti poi non mi va di fare un cazzo, e se poi mi va di fare qualcosa allora mi va di fare poco. Mi va di fare tra il poco e il niente. Tra poco e il cazzo.

Vattene via primavera che se no poi non so decidere se mettermi le scarpe o infilarmi gli infradito. Che poi di solito decido di mettermi gli infradito il primo giorno di primavera che piove e fa freddo, e torno a casa bestemmiando e starnutendo. Ma soprattutto bestemmiando.

Vattene via primavera che poi il giorno dopo che uso gli infradito, c’ho un dolore terribile tra il pollicione del piede e il dito che gli sta di fianco ( che a sarà il medione ? ) e poi bestemmio, zoppico e starnutisco. Ma soprattutto bestemmio.

Vattene via primavera, che mi fai scrivere stronzate del tipo “pollicione” e mi fai dimenticare che si chiama Alluce, quel dito lì.

Vattene via primavera, che poi arrivano i pollini dagli alberi e a me girano i coglioni. A me che non è mai venuta una allergia che sia una. Mai avuta un’allergia. Che quando arrivano i pollini devo sentirmi tutti i “mamma mia che allergia che ho” degli allergici che si lamentano. Che poi mi chiedono: e tu non c’hai allergia? No? Ma che fortunato chessei ( e tirano su col naso). Io ci mostro il piede infiammato e dico: si vabbè, però guarda qui che Allucione infiammato che ho.

Vattene via primavera che poi le signorine si scoprono. E poi loro mi scoprono. Che le guardo.

Vattene via primavera, che poi esce il sole e io devo cacare gli esami all’università e non posso andare a prendere il sole ai giardini, e neanche al mare. E giro pallido tra i pallidi delle biblioteche tutte di Bologna. Divento amico fidato dei bibliotecari, quelli che rimangono pallidi pure ad agosto.

Vattene via primavera, che ancora non ho capito di quale colore bisogna vestirsi per non far vedere che sei pallido. Per far risaltare l’abbronzatura, si sa,  devi vestirti di bianco, però se sei pallido e ti vesti di nero non funziona. Il risultato finale è che sembri un fan di Marilyn Manson. Che starnutisce.

Vattene via primavera che potevi aspettare qualche settimana prima di arrivare che c’avevo da studiare duro e tu mi piombi così all’improvviso. Che fretta c’era. Maledetta primavera. Vattene via.

un paese di poeti, santi e navigatori.

 E di truzzi.

Un paese di artisti, cantanti e stilisti.

E di truzzi.

Un paese con il mare, le colline, le cattedrali, e la Torre che pende da un lato.

E i tamarri.

Ci sono io che entro in un Autogrill dalle parti di Verona. La fame consumava dal di dentro sia me che le mie compagne di viaggio. Al bancone i soliti panini di quattro centimetri per quattro al simpatico prezzo di tre euro e dieci. Uno si consola e pensa: e vabbe’, è comunque meno di un euro al centimetro quadrato. Le bariste sghignazzano. Io scelgo il panino alla cotoletta, perché sono sicuro di non digerirlo, e fa sempre bene avere qualcosa che mi rimane sulla panza, in questi casi.

Poi entra Gallo Cedrone, quello del film di Carlo Verdone. Chiaro, non era proprio lui, ma era come se fosse lui. Indossava un vestito gessato sicuramente già utilizzato per un film sulla mafia in qualche produzione dal budget striminzito. La basetta aerodinamica. La pelle bruciata dalle lampade. La collana d’oro attorno al collo taurino. Era un luogo comune con due gambe e due braccia. Volevo avvicinarlo e chiedergli: ehi, ma lo sai che hanno fatto un film su di te? No, perché se lo sai, come fai ad andare in giro ancora conciato così?

Come si chiamano quei princìpi che sei costretto ad assumere come verità inconfutabili? Si chiamano assiomi, mi pare. Ecco, l’assioma del giovane maschio italiano è questo:

"Dato un maschio italiano sotto i trent’anni, qualora il suddetto giovane maschio sia in possesso di una testa, allora su questa testa sarà certamente presente qualcosa".

E nell’ordine, questo qualcosa può essere:

– Gel per capelli: ma solo in quantità industriale.

– Cappellino hip hop deviato di quarantacinque gradi rispetto all’asse del corpo.

– Occhiali da sole.

Gli occhiali da sole. Il giovane maschio italiano utilizza questo accessorio in tutti i modi possibili, ma non lo vedrete mai con un paio di occhiali sulla faccia in modo che le lenti si trovino realmente davanti agli occhi. Tutte le posizioni sono consentite, ma guai a mettere le lenti davanti agli occhi. Nell’ordine è possibile posizionare il paio di occhiali.

– Stile microfono: ovvero infilate con un’asticina nella camicia appena sotto il collo.

– Stile fermacapelli: poggiate sul cranio. Questa è tutt’ora la posizione più in voga.

– Stile acrobata: un asticina è dietro un padiglione auricolare, il resto pende sotto il mento. Gli occhiali sembrano stare per precipitare al suolo. Ma non cadono. Ci vuole esercizio.

– Stile inspiegabile: ovvero con le lenti sulla fronte.

Adesso mi si verrà a dire: vabbè Rafeli, non fare lo spiritoso. Io dico: ma quale spiritoso. Le strade pullulano di giovani maschi con le occhiali sulla crapa. E non quando c’è il sole su nel cielo. Alle dieci di sera. Di notte, li incontri. Sono preso da un impulso incontrollabile di inseguire tutti questi portatori di occhiali di sbieco, e riposizionare l’oggetto nel suo posto naturale, sopra il naso. Mi viene da piangere, a vederle poggiate sulla fronte. Hanno lo stesso significato estetico del cerotto sulla guancia del rapper Nelly. Nei prossimi anni, si prevede, si utilizzeranno le cravatte attorcigliate attorno ad un dito, o i calzini infilati nel naso. O in bocca. Ecco, si, i calzini Dolce e Gabbana appallottolati in bocca saranno il trend dell’estate 2013. Preparatevi.

Scrivo di questo perché oggi non mi è successo un cazzo.

Ho visto Bologna. Ci siamo detti: come stai. Ho fatto un esame.Ho visto un po’ di gente. Ci siamo detti : come stai. Sono andato alla Coop, e alla cassa ho incrociato Cristina D’Avena che comprava le mozzarelle.

Non era arrabbiata con me.

La Deutche Vita che poi mi finisce così.

La nostalgia delle cose mi fotte.

Sempre.

C’è poco da fare.

Io sono uno che è capace di provare nostalgia di tutto. Ma tutto tutto. Io sono uno che mentre siede sul cesso, se vede il rotolo di carta igienica che si assottiglia allora ci parla, col rotolo.

Ehi, rotolo, ci dobbiamo salutare. Da quel che vedo stai per morire. Già mi manchi, lo sai? Dopo di te ne arriverà un altro, ma non sarà più la stessa cosa.

E così adesso c’ho già nostalgia di sta città, e di questa casa. E vorrei abbracciare questi muri, ma i muri non si possono abbracciare. Abbraccio una sedia, come un gesto simbolico. Abbraccio la porta. Mi abbraccio da solo, per darmi forza.

Siccome sono un nostalgico, ho spulciato tra i vecchi file del Pc, e ci ho trovato delle righe che ho scritto nei primi giorni di soggiorno a Monaco. Adesso le infilo qui. Questo è puro Rafeli vintage, e per l’occasione cambio anche il font. Direi che un Times New Roman faccia abbastanza vintage. O no?

 No Title. 

“…ho guidato dall’Italia attraverso l’Austria fino a qui. Ho varcato il confine in Trentino e appena giunto in Austria sono stato colto da un mutismo inspiegabile. Tutto quel poco di tedesco che avevo studiato se ne è andato via dalla mia testa . Puuf! Sparito. 

La cassiera del casello mi dice 19 euri e io capisco 9. La cassiera mi dice Danke schon e io NON rispondo Bitte schon.

Mi limito a balbettare: grazie.

Ciao, mi risponde.

Più avanti parlo col benzinaio e riesco a comunicare solo in inglese. In effetti riuscirei anche a dire ciò che voglio in tedesco maccheneso, mi vergogno. Mah.

Quasi un muto idiota.

Senza il quasi.

Però poi varco il confine austriaco e sono in Deutschland. Mi fermo ad una stazione di servizio dove mi rendo conto che sta iniziando la mia trasformazione: dovrei dire Danke, mi viene da dire Thank you, e nel ribollire del cervello alla fine mi esce fuori un “dankiu” che neanche Aldo Biscardi avrebbe concepito.

Cioè , non so se mi spiego.

Per il resto la casa non si trova. Ne avrei trovata anche una, ma c’è una piccola postilla che mi inquieta. Per poterci entrare dovrei cambiare sesso, in quanto da ragazzo  non vado bene al padrone di casa. Femmine, le vuole.

Maschi nein.

Nein. 

Mah.

Tutto  sto casino della stanza che non si trova mi deprime. Ma giusto un attimo. Mentre sono seduto al McDonald con il mio McQualcosa in mano, circondato da biondi tedeschi sorridenti -che dopo andranno a casa loro in una stanza tutta loro- io con la fanta nel bicchiere di carta come sempre con un eccesso di cubetti di ghiaccio, io che si vede benissimo che questa mattina mi sono svegliato alle sei, in quel preciso istante mi sento un po’ un Toto Cutugno incompreso, ancora più sfigato perché non c’ho manco la chitarra in mano, ancora più cretino perché se pure mi mettessi a cantare, non potrei, che sono troppo stonato. Che almeno Toto Cutugno quando canta seppure che ha la faccia che ha, almeno è intonato. E se dice Buongiorno Dio Lo Sai Che Ci Sono Anch’Io almeno è credibile.

A me Dio direbbe:  Ma Vattene Va’, cretino.

Continuerei a scrivere, ma non posso mica fare tardi, sono le nove e diciassette. E’ tardissimo. Es ist zu spat. Spat andrebbe scritto con la dieresi, ma non so come cazzo si mette.

Ed è scattata pure l’ora legale.

Un ora in meno di Erasmus.

Sgrunt.

congedi di un certo tipo

– Che bel culo che c’hai-

– Be’, grazie. – mi dice, mentre si stropiccia gli occhi assonnati.

– Quanti anni c’hai, che adesso l’ho dimenticato? –

– Ventitre ne ho, quante volte te lo devo dire?-

– Ah, già –

– E con questo? –

– Niente, pensavo che il tuo culetto sembra avere circa diciassette anni, non di più –

Poi se ricordo bene, mi sono addormentato così, completamente nudo sul pavimento, con le mie membra offerte all’aria della mia stanza. E’ durato solo cinque minuti ma sono bastati per farmi svegliare la mattina dopo con la febbre, che mi accompagna ancora adesso. Lei non ha dormito qui, per fortuna. Ho anche bluffato, chiedendole:

– Vuoi rimanere a dormire qui? –

[Dio per favore, fa che dica di no, fa che dica di no]

– No non posso, mi dispiace. Domani devo lavorare tutto il giorno. Devo svegliarmi presto. –

Non ho insistito, forse c’è rimasta male.

Poi se ricordo bene, ho cercato di riaddormentarmi, ma non ci sono riuscito. Lei era lì che voleva parlare con me, perché sapeva che quella era l’ultima volta che mi vedeva, dato che tra qualche giorno torno in Italia.

Io, che se voglio so essere davvero romantico, non mi andava l’altro giorno di essere romantico per niente. E allora, in mancanza di argomenti immediati, ho ricominciato a parlarle del suo culo.

– Bello il culo che c’hai. Diciassette anni, non di più.-

– Mmppfff… – ovvero un sospiro di finta irritazione.

– E queste mutandine? Non le avevo notate, queste mutandine. Sono belle, me le regali?-

– Non posso. –

– Perché? –

– Me le hanno regalate.-

– E allora? Sarebbe un regalo speciale per una persona speciale, no? –

A questo punto credo di aver prodotto un sorriso, che se lo dovessi classificare in una categoria di sorrisi, lo infilerei senza dubbio nel settore “ Sorrisi del Cazzo”. Posso giustificarmi dicendo che avevo bevuto un po’. Circa tre Rum e Cola. Il Rum lo aveva portato Lei per ringraziarmi dell’ospitalità. Io continuavo a ripetere: Un Cuba Libre? E lei: no no, grazie. Io poi il Cuba Libre lo facevo lo stesso, per me e per lei,e finivo per berli tutti e due.

– Allora me le regali? –

– Ti ho detto che non posso.-

– Dai, sono così belle, sono così…come dire, sono così rosse.-

– Be’ se è per questo, poi ne ho un altro paio rosse, quelle te le posso dare.-

– E quando, scusa?-

– Te le spedisco per posta.-

Ecco, ho pensato, questa si chiama mancanza di poesia.

Cazzo significa che me le spedisci? Cazzo significa? Non siete capaci di carpire la magia del momento, voi germaniche pulzelle. Ma cosa ve lo spiego a fare. Perle ai porci, sarebbero. Le Perle ai crucchi porci, io non le butto.

Sta di fatto che parto e torno a Bologna, e questo succede domenica.

La Mamma Italia mi rivuole con sé. Io vorrei rimanere qui, dove la birra nei locali mi costa  al massimo due euri e novanta.

Ci sarebbero tante cose da dire, su questi sei mesi a Monaco. Quando pensavo: ma sei mesi non passano mica subito, ce n’è di tempo. E ora il tempo è finito e c’ho il groppo in gola, e di tutte le cose che potrei dire non dico niente. Non adesso.

Dico solo che c’ho il groppo in gola grosso come un pompelmo e credo con questo di dire abbastanza.

 

ma come fan presto, amore, ad appassire le rose

Io e Lei abbiamo mischiato il nostro sudore per tre anni.

Ci siamo attorcigliati e abbiamo detto alle nostre epidermidi: fate, fate pure.

Fate, per tre anni.

Poi un giorno è finita, e il cielo è diventato viola. C’è stato un momento che non si poteva più tornare indietro. Sono stato seduto lì al tavolo col mio dolore, io e lui seduti uno di fronte all’altro, e ci siamo conosciuti meglio. Io e il mio dolore. Fuori dalla finestra il cielo è rimasto viola per lunghi mesi. Certe volte capisci bene come un mese sia fatto soprattutto di lunghe notti.

Siamo stati insieme tre anni, mica tre giorni, io e Lei. Poi invece niente più. Dopo, quando si è consumato il dolore, si è formata una grossa cicatrice, e lo sai come sono di solito le cicatrici, sono una cosa che non fa più male, eppure non le puoi nascondere. La cicatrice rimane lì. Lo vedi benissimo che sta ancora lì.

Io e Lei adesso non siamo più niente. Anzi, siamo amici, che poi per queste cose è come dire che siamo niente. E va bene così.

Lei è stata qui da me, qualche giorno fa, perché aveva bisogno di un letto dove dormire in attesa di prendere un aereo. Le ho detto: si vieni, certo che te lo do un posto dove dormire, ci mancherebbe altro.

Le cose finiscono.

Questa cosa, poi, è finita da anni.

Io la osservo mentre mangiucchia nel piatto come ha sempre fatto, con la forchetta che disegna strani percorsi. Un po’ mangiucchia e un po’ disegna, seduta di sbieco con lo sguardo obliquo. La osservo e capisco davvero che non c’è più niente, che siamo niente. Mi passa accanto e mi sfiora nel corridoio e allora penso: ma è davvero lei quella con cui ho mischiato il mio sudore per tre anni? Cosa è rimasto? E’ rimasto niente.

E’ rimasto niente, ma io sono un anatroccolo.

Gli anatroccoli, quando escono dall’uovo, subiscono l’imprinting. E cioè nascono, e la prima cosa che vedono, quando hanno ancora le piume gialline bagnate, quella cosa che vedono iniziano a seguirla. Potrebbe essere anche un carro armato o una palla da basket, loro la seguono e quell’immagine resta registrata nella loro testolina bagnata e giallina di anatroccoli. Si forma, anche in quel caso, una cicatrice. Nella testolina.

Ed io che un po’ sono un anatroccolo ho le mie cicatrici che non fanno male ma che sono lì e non le posso nascondere. Così quando vedo Lei, succede che se mi distraggo, per qualche secondo il passato torna a bussare alla porta. Io dico : chi è? E dalla porta sento rispondere: il tuo passato, ecco chi sono, apri la porta. E allora mi incazzo con le sue labbra, perché sono ancora le stesse, e si muovono come si muovevano allora. Mi incazzo con la sua pelle, che non è cambiata neanche lei. E con il suo odore.

Il passato, quello si, fa un po’ più male. Ma solo un poco.

Ed ogni volta, quando vedo Lei, è come quando si accende un fiammifero, che per qualche secondo crea una fiamma intensa che fa ffffffffssssshhh, e fa molta luce e molto calore. Ma poi è solo un fiammifero e lo vedi che subito dopo è solo un pezzetto di legno bruciacchiato e nero. Niente di importante. Ogni volta vedo Lei e il mio fiammifero fa quella fiammella che poi si spegne. Meno male.

Il passato.

Mi vuoi bene? Certo che ti voglio bene, lo sai. Ma quanto me ne vuoi? Tanto così, ti voglio bene. Io invece di più. Ti voglio bene di più. No, non è vero. Sono io che ti voglio bene di più. E allora ogni volta, mentre si era ancora attorcigliati e il sudore si stava appena asciugando, ci si sussurrava nell’orecchio: di più. E non c’era bisogno di dire altro. Ehi  tu, dormi? No, non ancora. Ascolta: di più. Io anche, io anche: di più.

Qualche mese fa, ero ad una festa e una tipa era avvinghiata a me. Una di quelle situazioni che so come vanno a finire. E che di solito faccio finire sempre allo stesso modo. Quella sera, le dico, alla tipa: scusa, ascoltami, con te non posso fare niente. Mi guarda stranita: e perché? Allora le dico: il tuo profumo, il profumo che hai addosso. Non ti piace? No, no, mi piace, ma non posso. Era il profumo che metteva sempre Lei.

Perchè io, per quanto posso, i ricordi cerco di difenderli con i denti. E’ l’unica forma di fedeltà che mi riesce. All’anatroccolo come cazzo glielo spieghi che quella è solo una palla da basket che rotola. I ricordi, quelli si, io li difendo con le unghie.

Lo so, troppa melassa in queste righe. Per compensare scriverò per giorni solo di cazzi e fighe. Promesso.

il babbo degli sbrodeghezzi è sempre incinto

Cosa succede se fai cagare il tuo cagnolino sulla superficie di un lago ghiacciato?

L’ho scoperto ieri, e tra l’altro era la prima volta che ci camminavo, sopra ad un lago ghiacciato. Mentre facevo i primi passi già credevo di sprofondarci dentro, nell’acqua ghiacciata, e di morirci ibernato, nel lago ghiacciato. Qualcuno avrebbe tirato fuori la sua telecamera e mi avrebbe filmato mentre subivo la trasformazione in un ghiacciolo al sapore di carne umana. Poi avrebbe mandato il filmato a Real Tv, e lì avrebbero commentato : ecco, lo vedete il  pirla che cammina sul lago ghiacciato, incurante del pericolo?

Ecco, lo vedete? 

Ma dicevo della cacca di cane.

Se ci porti il cagnolino, ma meglio ancora un cagnolone, e se il cagnolone in questione decide di produrre uno stronzetto proprio nel mezzo del lago ghiacciato, ma meglio ancora uno stronzone, il risultato è che la cacchetta, essendo calda fumante, fa sciogliere il ghiaccio sottostante.

Si scioglie quel tanto che basta a far sprofondare lo stronzetto al di sotto della superficie ghiacciata. Quindi l’acqua che a questo punto ricopre lo stronzetto, ghiaccia nuovamente. Il risultato finale è che si trovano degli stronzetti di cane- si suppone che siano di cane- praticamente incastonati nel ghiaccio. Come in vetrina. Come in una confezione regalo col cellophane che li avvolge. Stronzetti confezione regalo. Stronzetti da collezione. Stronzetti in pacco formato famiglia. Formato convenienza.

Va bene mi fermo.

Perché l’altro giorno mi si diceva, mentre la birra scorreva e scorreva: va bene Rafeli, ma tu scrivi scrivi, ma alla fine cosa scrivi? Cioè alla fine- mi si diceva –  tutte queste parole, che senso c’hanno? Dove vuoi arrivare? Dov’è il significato? Dov’è il contenuto? Eh, Rafeli ? Non arrivi da nessuna parte, Rafeli, non dici niente.

A questo punto mi vengono in mente tre cose:

Prima Cosa che mi viene in mente : è tutto vero, è proprio così. Però lo stesso c’ho una voglia di scrivere un post sulla pallina di cotone che mi si forma nell’ombelico. Sarebbe uno sbrodeghezzo niente male.

Seconda Cosa che  mi viene in mente: io mi scopro assorto e meravigliato davanti ad un pezzo di cacca incastonato nel ghiaccio.Sono un pinguino grasso che si guarda l’uovo. E sono contento di me stesso.

Terza Cosa che mi viene in mente: la verità è che sto divagando, la sto prendendo alla larga, perché se adesso avessi davvero coraggio, mi dovrei mettere a scrivere di Lei.

E invece No.

Berlino. Cosa te ne parlo a fare.

Cosa te lo dico a fare, che sono stato a Berlino.

Cosa ti dico Cosa, com’è fatta Berlino. Questa è una città che arrivi lì, ti metti la mano sul mento, ti guardi in giro e dici: mah. Al massimo dopo ventiquattrore sei pure capace di partorire un : boh. Ma sempre con la mano sul mento.

Una città che stai sempre in giro a cercare il centro, e il centro non lo trovi mai. Poi magari ti trovi sperduto in uno stradone dove ci sei solo tu e un corvo appollaiato sul ramo, e allora cerchi di fermare il primo passante che ti capita a tiro, per chiedere: scusi ma dov’è il Zentrum? Il Centro, ti dicono, è questo dove sei adesso. Poi magari il passante ti chiede: hai mica qualche cent? Perché Berlino è una città povera, tra l’altro.

Ogni giorno dalla Porta di Brandeburgo parte un tour turistico cosiddetto Free, nel senso che se vuoi puoi dare qualche euro al povero cristo che si sgola per te, se invece non vuoi allora ti alzi il bavero e te ne vai poco prima che il tour finisca, con la tua coscienza che ti tira piccoli calci sugli stinchi.

La Guida Turistica ( userò l’iniziale maiuscola per nobilitarla, a causa dei piccoli calci sugli stinchi che continuo a ricevere) ci ha portato in giro. Poi si è fermata ed ha detto: Qui, dove vedete una linea per terra, una volta c’era il Muro. Ma Adesso Non C’è Più. Poi dice: adesso andiamo tutti insieme da quella parte che vi faccio vedere una cosa. Ecco, vedete questa strada? Qui una volta, dove vedete la linea per terra, ci passava il Muro, ma adesso non c’è più. Poi ci fa pascolare come un gregge ancora per un isolato, punta il dito verso un palazzo grigio, e declama: Vedete quel Palazzo? Ecco, lo vedete? Lì ci abitava il signor Tizio Von QualcheCosa, ovvero il vecchio progettista che ha progettato il Muro (progettato?) Ma adesso non ci abita più.

Ehi, Guida Turistica, mi stai a prendere per il culo?

Allora riprende: non abita più lì, il Signor Tizio Von QualcheCosa , ma adesso si è trasferito nel palazzo di fronte, che potete vedere lì. E la sapete una cosa? No, Cosa? Può capitare alle volte di vedere il Signor Vecchio Progettista uscire di casa e andare a fare la spesa nel Market qui vicino. ( La Guida Turistica inizia a mimare il Signor Tizio che avanza appesantito dalle buste piene della sua spesa) . Temo per un attimo che voglia farci rimanere appostati lì, ad aspettarlo. Non lo si aspetta, invece, e si va oltre.

Perché basta continuare a seguire la linea per terra, dove Prima C’era il Muro, Ma Adesso Non C’è Più, e finalmente un pezzetto di muro lo trovi. E allora via con le macchinette fotografiche digitali lo si tempesta di foto, per la paura che da un momento all’altro anche quel pezzetto di muro Non Ci Sia Più.

Poi cosa abbiamo fatto.

Come delle trottole, siamo stati in giro. Per capire la metafora non bisogna pensare ad una trottola che è stata appena lanciata, che ruota bella dritta e regolare, quanto piuttosto ad una trottola verso la fine della sua corsa, quando inizia a perdere potenza e sbanda di qua e di la’. Quando verso la fine della sua corsa si piega su di un lato e assume un moto disordinato e incontrollabile.

Ecco, in questo senso, siamo stati in giro.

In Italia andava in onda lo scontro Berlusconi Prodi e noi intanto si trotterellava per le stradine deserte del centro. Volevamo capire dove cazzarola erano tutti i berlinesi, in quali locali si erano rifugiati. Non c’era nessuno in giro. E non è che abbiamo chiesto informazioni al berlinese alternativo con la cresta e le catene al culo. Macchè. Non è che abbiamo chiesto info alla ragazza con i capelli fucsia e le occhiaie da eroinomane. No. Siamo andati a chiedere delucidazioni ad un pizzaiolo di Gallipoli. Per la cronaca Gallipoli è a 10 Km dal mio paese. Sono andato a Berlino per mangiare una pizza al salame e parlare dialetto. Il pizzaiolo ci ha detto: andate di là. Ci siamo andati. Poi volevamo sentire anche qualche altra opinione. E allora non è che abbiamo chiesto qualche dritta al Tipico Berlinese con le cuffie e la zazzera bionda. No. Non è che abbiamo fatto domande alla tipa figa che veniva fuori dalla metro. Macchè. Figurati. Abbiamo chiesto ad un tagliatore di pesce crudo cinquantenne che lavorava in un fast food giapponese.

Alla fine siamo andati a finire in un centro sociale berlinese seguendo un tipo rasta con le gambe amputate che correva veloce sulla sua sedia a rotelle. E , vi giuro, sulla porta di questo posto, il tipo rasta ha legato con una catena la sua sedia a rotelle ed è sceso. Si è messo a camminare su dei monconi di gambe lunghi forse dieci centimetri. Oooh di stupore.

Poi uno pensa: cosa so di Berlino?

So che c’era il muro, ma come diceva il Povero Cristo Guida Turistica For Free, il Muro non c’è più. A Berlino, mi pare, c’è lo Zoo. Ah, già è vero. E  allo Zoo ci dovrebbero essere, se non ricordo male, i Ragazzi dello Zoo di Berlino. Ho visto il film. Ho letto il libro. Pure io. Naaa, pure te? Allora dai, andiamo tutti assieme alla ricerca dei Drogati dello Zoo di Berlino. Dai, che bello. Ci facciamo la foto con il drogato più clamoroso di tutti. Dai, che questa è un’idea mica male. Dai. Magari riesco a portarmi a casa, come souvenir, un laccio emostatico d’epoca, un laccio emostatico dell’era della guerra fredda. Cosa ne sai. Ma come minimo mi faccio la foto col drogato dalle occhiaie più incavate. Dai andiamo.

Niente, non ci sono neanche i drogati.

Mi pare di sentire una voce nell’aria: Ecco, vedete questa linea di aghi arruginiti e siringhe usate? Bene, qui una volta c’erano i Drogati dello Zoo di Berlino. Ma Adesso Non Ci Sono Più.

E allora mancando i souvenirs d’epoca dei Drogati di Berlino, siamo andati per negozietti, come tutti i bravi turisti. Sulle porte dei negozi che esponevano stronzate e cartoline, Franz ha affermato: ma non entrate lì dentro, che queste sono solo Allodole Per Turisti. Più tardi questa frase ha subito una ulteriore modifica, per cui entrare o uscire da un negozietto di souvenirs è diventato “ entrare o uscire da un’ Allodola”.

Ho cacato un post troppo lungo, mi sa.

A proposito di cacare.

Nei bagni dei treni tedeschi, c’è un mensola che serve per cambiare il pannolino al bebè ( anche in quelli italiani). Questa mensola, ho visto, è concepita in modo tale che se ti distrai un attimo, o se il treno accelera improvvisamente, ti cade il bebè nel cesso.

Questo per chiudere degnamente.

Tiro lo sciacquone.

non mi pare.

ma vi pare che posso scrivere un post con questo font? non credo. Berlino e’ fredda e grande, io ho addosso tutti gli indumenti che avevo nello zaino, e ora mi sento agile come un astronauta con la tuta da astronauta.
Come un Tele Tubbies con la tuta da Tele Tubbies.

Ho a disposizione questo computerino con la tastierina che ricorda vagamente quella di un Commodore 64.
Mi manca pure l’accento, per la miseria.
C’ho a disposizione un abbondanza di dieresi, in compenso.

üöÄöäöüöäöü, per fare un esempio

Dalla regia mi dicono che bisogna andare.
Dove, non si sa.

felicità potenziali

Le strade sono piene zeppe di donne molto incinte. Quelle che non sono incinte hanno invece dei bambini che saltellano attorno a loro. Nevica e poi esce il sole.

E poi di nuovo nevica.

E poi di nuovo.

E poi di nuovo.

C’è anche una piccola percentuale di donne incinte e contemporaneamente dotate di bambino saltellante e schiamazzante. I bambini sono molto eccitati, per strada c’è la banda che suona. Palloncini arancioni verdi e bianchi. E’ il St. Patrick’s Day. C’è una donna incintissima che cerca di fermare il suo bambino saltellante che vuole scoppiare con i piedini i palloni arancioni verdi e bianchi. Siccome non ci riesce, che è troppo piccolo, allora urla Pum Pum! mentre saltella.

Penso che mi piacerebbe rimanere qui per molto, molto tempo. E invece.

Mi vedo che spingo un passeggino con dentro un bambino. Con me cammina una donna discretamente incinta. Spingiamo il passeggino fino all’incrocio della strada, e lì le chiedo, indicando il suo pancione: sono stato io a fare questo?

Poi con me e la donna nettamente incinta cammina anche un cane molto educato, che porta da solo il suo guinzaglio con la bocca. In questa mia visione ho un bambino nel passeggino, una donna ed un cane. Anzi, ho un bambino e mezzo, una donna ed un cane molto educato.

Questa, con molte approssimazioni, potrebbe essere una vaga immagine di una felicità possibile. Di una felicità potenziale.

Ma siccome io sono quello che sono, devo raffazzonarmi con i miei casini.

Raffazzonarsi, segnatevi questo verbo riflessivo.

Tipo due giorni fa, che ero a cena con la Tipa del Nord. Mi dice che l’ha chiamata suo padre qualche minuto prima che io arrivassi, e le ha chiesto: Cosa fai? E lei: niente, cucino. Lei è una che non cucina mai. Allora il padre le ha chiesto subito: ok, chi è questo qui?

Questo qui ero io, che ero seduto a sorseggiare un bicchiere di vino versato in un bicchiere di birra. Scherzavo con lei, facevo lo spiritoso dicendo cazzate sull’orrida musica tedesca. Lei rideva e io ridevo. Io ridevo e un po’ mi distraevo. Un po’ ridevo e un po’ sorseggiavo dal bicchiere.

Lei mi dice: – La conosci QuestaQui ?-

Il nome di QuestaQui è, guarda il caso, lo stesso nome della Tipa del Sud.

Io sono col bicchiere di birra in mano che mi si ferma il sangue nelle vene per un momento. Appena sento pronunciare il nome di QuestaQui  immagino che le due Tipe, quella del Nord e quella del Sud, siano venute a conoscenza l’una dell’altra. Chissà come, chissà quando. E che si siano raccontate tutto. Mordo il bicchiere. Sento i miei denti che fanno Crunk Crunk sul vetro. Penso che potrei alzarmi dal tavolo e iniziare a correre. L’uscita non è lontana.

– Allora la conosci?- Potrei rispondere Si, potrei rispondere No.

Tolgo il bicchiere dalla bocca e rispondo:

– Smgnh…-

Lei mi dice: – Ma come non la conosci, è quella famosa cantante tedesca!-

Il mio sangue torna a circolare e riprendo anche l’uso della parola. Mi sento come una gazzella acquattata nell’erba che ha visto passare vicino a lei il leone affamato, ed il leone non l’ha notata. Poi la sera continua, la notte continua.

La mattina dopo c’è la solita tormenta di neve.

Stanotte si prende il treno e si va a Berlino. Che ne so, magari mi diverto. Proverò a cacare un post dalla Capitale, se mi riesce. 

 

nausee che poi mi passano

I passerotti volano nel cielo e fanno cippi cippi. Il sole è alto, riscalda la Terra e i passerotti che nel cielo svolazzano facendo frrr frrr con le alette e cippi cippi con il beccuccio. Che carini che sono. Che teneri.

No, non ce la faccio.Volevo scrivere un post delicato e dalle tonalità pastello ma non ce la faccio.

Ho il voltastomaco, la nausea.

A Milano una strada è stata messa a fuoco da un gruppo di “autonomi” che protestavano contro una manifestazione organizzata da un partito di destra. Incendi, molotov e bombe con i bulloni. Persone finite  all’ospedale. Automobili e un edicola andate a fuoco. Un carabiniere si è preso un razzo in faccia. Perché dovevano protestare.

In tv , leggo da internet, Alessandra Mussolini con il fumo che le usciva dal naso ha urlato: meglio fascisti che froci. Bruno Vespa si è messo le mani in faccia.

Il Ministro della Sanità si è dimesso perché hanno scoperto che spiava i suoi avversari in campagna elettorale. Le intercettazioni telefoniche sono limpidissime, chiarissime, senza possibilità di altra interpretazione. L’ex Ministro continua a dire : tutte balle, tutte balle. Io leggo le intercettazioni. Sono chiarissime, limpidissime. Le altre persone coinvolte ammettono tutto alla magistratura. L’ex Ministro continua a dire: tutte balle, tutte balle.

I passerotti fanno cippi cippi e ogni tanto fanno cadere dall’alto qualche cacchetta. La neve si scioglie e la Primavera manda a dire: preparati rafeli, che sto arrivando. Io le rispondo: quando tu sarai qui io sarò già tornato in Italia.

Qualcuno mi chiede: ma non sei contento di tornare? Io cambio argomento e dico: ma sai come sono carini, i passerotti che vedo dalla finestra e che fanno cippi cippi?

Che teneri, che sono.

gli intensi langweil di noialtri

– Non avete vita interiore! – urlava il papà di Natalia Ginzburg ai figli ad alla moglie – ecco perché vi annoiate voialtri. Non avete vita interiore!-

C’è questo libro della Ginzburg, Lessico Famigliare è il titolo, in cui l’ autrice parla della sua famiglia, che non era la famiglia Ginzburg ma la famiglia Levi, perché Ginzburg era il cognome che lei aveva assunto da sposata. Ma questi sono dettagli da niente.

Dicevo, c’è questo libro che non è un romanzo perché narra di fatti e persone realmente esistite, e la Natalia Ginzburg non ha voluto neanche cambiare il nome ai personaggi, ed ha lasciato i nomi reali.

Ma cos’ è che volevo dire, che mi sta scappando il concetto?

Volevo dire che c’è questo libro che profuma di casa e di colazione tutti assieme attorno ad un tavolo, dipinge una realtà semplice semplice dove c’è un padre che brontola, una madre che si dispera ma mica tanto, fratelli e sorelle che litigano per chi deve andare prima al bagno. Un libro semplice come una marmellata, eppure efficace. Uno di quei libri che poi ti fanno pensare se è davvero necessario leggere cose del tipo la Tamaro o Oceano Mare di Baricco.

-Non avete vita interiore! – sbraitava il papà di Natalia Ginzburg sprofondato con la pipa in poltrona- E’ normale che vi annoiate! Non avete vita interiore voialtri! Guardate me, invece.-

Questo trucco stilistico del ripetere due volte la stessa cosa, mentre si scrive, è qualcosa che mi affascina. E mi diverte, anche. Questa cosa stilistica dello scrivere due volte la stessa cosa. 

Quanta vita interiore avete, voialtri? Io purtroppo ho la vita interiore che mi sbrodola dalle orecchie, mi cola a gocce dal naso, la sudo dai pori della pelle. Così succede che, a causa della mia vita interiore che mi sbrodola dalle orecchie, finisco per sembrare un sempio. Secondo il gergo del papà di Natalia Ginzburg “sempio” significa stupido e di conseguenza “sempiezzi” sono le stupidate, le boiate.

-Non dite sempiezzi, voialtri!- sbuffava il papà di Natalia Ginzburg da dietro le porte- non fate sbrodeghezzi! Non perdetevi in vaniloqui!

Si chiama Lessico Famigliare mica per niente, sto libro.

Il problema è che ha ragione, il signor Giuseppe Levi padre della Natalia, c’ha ragione a dire sta cosa della vita interiore. Quanta ne avete, voialtri? Non importa la qualità, ciò che importa qui è la quantità. Poco importa se vi perdete in sempiezzi e vaniloqui, ciò che conta è se la vostra vita interiore vi rende indipendenti da tutto il resto. E soprattutto se vi rende indipendenti da tutti gli altri. Vi rende indipendenti?

Mi spiego meglio.

Ho scoperto cosa mi divide dal popolo dei crucchi. Questo popolo che apprezzo e che inizio a stimare. C’è qualcosa che mi divide da loro. I biondi crucchi per dire “ noioso” dicono Langweil. La traduzione letterale di questa parola è momento ( Weil ), lungo ( Lang). Dunque nel cervello crucco un “lungo momento” è di per se’ noioso.

Vorrei poter dire al popolo crucco tutto intiero: ma non dite sempiezzi, voialtri.  Ce ne fossero, di momenti lunghi  da trascorrere, a guardare il soffitto e a riflettere. Ce ne fossero, ma sono sempre pochi. Potessi avere sempre il tempo di stare per i cazzi miei ad ascoltare il funzionamento dei miei organi interni. Non mi annoierei mai, a monitorare la mia vita interiore che trabocca.

Mai mai.

Ma adesso mi fermo qui, che volevo spiegarmi meglio e non ci sono riuscito, ogni volta inizio a scrivere che voglio dire qualcosa, e poi alla fine mi perdo in tanti piccoli e simpatici sbrodeghezzi.

centro, sud, nord e periferia di tutto.

Improvvisa come una scoreggia, un giorno è arrivata l’estate del ’92.

Alla radio, in quell’estate,  mandavano in continuazione All That She Wants degli Ace of Base.

Gli Ace of Base erano questo gruppo con due donne cantanti, di cui una soprattutto cantava, l’altra cantava meno ma era bella uguale. Tutte e due erano alte e  sicure di se’. Ma soprattutto, erano tutte e due svedesi. Svedesi significa che vengono dalla Svezia, ho saputo poco dopo. Dove’è la Svezia? chiedevo in giro.

Moolto sopra, mi rispondevano.

Un giorno è arrivata l’estate del ’92, dicevo. La mia pubertà era già lì da qualche tempo, mica da tanto, ed io e lei cercavamo di conoscerci meglio. Faceva caldo e la radiolina gracchiava All That She Wants. Oppure c’era Jovanotti che urlava E’ Andata Come E’ Andata La Fortuna di Incontrarti Ancoraaa. Tutte le mattine andavo a buttarmi nel mare. La mia pelle bruciava e il mio naso si spellava. Le zanzare la notte non mi cagavano, il mio sangue non era tanto buono, ma non si dormiva lo stesso per il caldo. Quell’anno è entrato nella mia testa il concetto di Nord.

Posso dire che gli Ace of Base, in tutto questo, hanno giocato un ruolo mica tanto marginale.

Il concetto del Nord.

Per il rafeli bambino andare al nord significava andare in Abruzzo. Ma anche Bari era andare al Nord, in un certo senso. Volendo, anche la Calabria era Nord, perché c’erano le montagne. Dato che più a sud del mio paese non si poteva andare, ogni luogo era nord. Noi eravamo a sud di tutto. Noi eravamo, di conseguenza, alla periferia di tutto.

Quell’estate, avendo preso atto che esisteva un paese chiamato Svezia dove le donne erano alte e in grossa percentuale anche carine, preso atto che nello spazio dal mio paesello fino alla Svezia erano compresi tanti ma tanti paeselli ma anche grosse città e intere nazioni, preso atto che già per arrivare a Bari dal mio paesello col treno ci impiegavi tre ore…preso atto che le mie compagne di scuola delle medie  con l’apparecchio ai denti assomigliavano molto poco alle cantanti degli Ace of Base… Quell’ estate, dicevo, è entrato nella mia testa il concetto di periferia.

La periferia.

Io vivevo in Italia, e questo lo sapevo perché se accendevi la tv trovavi Domenica In.  Io però vivevo esattamente in SUD Italia, che è la periferia dell’Italia. Nel contesto del sud Italia, non venivo mica dalla Campania, che è a due passi dalla capitale. No, io venivo dalla Puglia. E nel contesto della Puglia, io venivo esattamente dalla provincia più a sud della Puglia, la più a sud di tutte,quindi dalla periferia, da Lecce. Ma mica da Lecce, Lecce. Magari. Io venivo dalla provincia, dai bordi, dalla periferia. Dal paesello. Nel mio paesello ovviamente vivevo in periferia, in campagna. Anche in casa vivevo in periferia, la mia stanza era infatti quella più alla periferia di tutte.

Alle volte mi sentivo un po’ alla periferia anche rispetto a me stesso.

Di conseguenza, sono cresciuto con la smania del centro.

Di stare al centro.Il traffico, le strade, lo smog. La metropolitana. I tram. Le strade, che se esci per andare da qualche parte, ci trovi sempre qualcuno. Al mio paesello dopo le otto non c’era più nessuno per strada. Io a quattordici anni tornavo a casa alle nove. Se invece tornavo alle nove e mezza, mi dicevano che non si poteva andare avanti così, sempre a fare le ore piccole. C’erano troppi motivi per volere il Nord, o per volere il Centro. Sono ancora affetto, da questa smania del centro. Voglio andare a vivere in una stanzetta appena sotto la madunina del Duomo di Milano. Con i piccioni che mi cagano sul davanzale della finestra.Voglio tornare a casa e trovarci una delle cantanti degli Ace of Base- o una che ci assomigli- e poterle dire Sei Bella Come il Solee, Mi Piaci Da Impazziree. Voglio una stanza che sia anche la fermata di una linea di metro. Il conducente deve urlare nel microfono: prossima stazione La Casa di rafeli.

E basta.

quelle cose lì

Esiste da qualche parte un Dio delle Mestruazioni che mi insegue ovunque vado.

Come Fantozzi aveva la sua nuvola, io ho il mio Dio delle Mestruazioni.

Questo Dio mi sgama ogni volta che sono sotto un lenzuolo, quando sotto il lenzuolo non sono da solo. Mi scopre ad armeggiare sotto le coperte, mi indica col suo dito insanguinato ed urla: “ rafeliiii!!!! Cosa Cazzo stai facendoooo?!?!?”

E allora ecco che Zac! mi manda le Mestruazioni.

Qualche giorno fa questo Dio è stato più veloce di me. Quando sono arrivato io, lui aveva già mandato il suo flagello. Il flagello rosso. E vabbe’, succede.  Pazienza. 

Sabato invece le cose sono andate diversamente. Arrivo lì, e visto che bisogna fare, si fa.

Si fa, quella cosa che ogni tanto si fa.

E i flagelli? Niente flagelli questa volta? Niente flagelli.

Bene, ho pensato, meno male.

Che ero un po’ in ansia.

Mi tranquillizzo.

Mi rilasso.

Mi addormento.

Si dorme.Quante ore? Cinque? Sei?

La luce dell’alba dalla finestra.

Che bella dormita.

Rifacciamo?

Eh, che ne dici?

Rifacciamo?

Replichiamo?

Aspetta, no, mi sono venute le “ Women’s things”.

Oh  madonna, e quando è successo?

During the night.

Durante la notte?

Già, ho le mie “Women’s things”.

Oh madonna.

E dalla finestra insieme alla luce dell’alba posso vedere il Dio delle Mestruazioni che si spanza dalle risate e che mi urla “ pirla di un rafeeeliiii!!! Pensavi di averla scampataaaa!!!”.

La prima cosa che vorrei dirgli, al Dio delle Mestruazioni, è di smetterla di urlare con queste vocali allungate e strascicate, che inizio a notare un vaga somiglianza con Liam Gallagher degli Oasis. Stand by meeeeee, nobody knooooows.

Sono lì che penso alla definizione “ Women’s things”. Le Cose delle Donne. Quelle Cose di cui non si dice il nome. Per carità. Si trova sempre un nomignolo, un sinonimo. Ma il loro vero nome, non si dice. Guai.

Sono in dormiveglia, sprofondato tra i cuscini. Dalla finestra vedo scendere giù la più grande nevicata del secolo, ma io sono al caldo. Se sono al sicuro questo non lo so, per lo meno sono al caldo. Nel dormiveglia si sa, vengono in testa i pensieri più assurdi. Il mio cervello in quel momento sta pensando a qualcosa di rosso, e voi capite il perché. Il mio cervello sta pensando anche che , alle volte, ci sono Cose che le Donne non dicono. E anche di questo capite il perché.

Quindi il mio encefalo perso tra i fumi del dormiveglia  compie l’addizione: Rosso + Cose che le Donne non Dicono.Il risultato è che ho un’ allucinazione molto realistica, mi compare davanti al letto Fiorella Mannoia con i capelli che più rossi di così non si può, lei che di solito da’ sull’arancione. E’ seduta sulla scrivania di questa stanzetta di studentessa tedesca, con le gambe a penzoloni. Ha un microfono in mano –chissà perché – dentro al quale urla a squarciagola:  

“Siamo cosiiiiiiiii , dolcemente complicateeeeeee…sempre più emozionate, delicate, ma potrai trovarci ancora quiiii….”

Ommioddio Fiorella, anche tu a strascicare le vocali come quell’ alcolizzato di Liam? Potresti per favore cantare, se proprio devi, a bassa voce? C’è questa qui che dorme. Non vorrei che si svegliasse. No, no sta bene, non ti preoccupare. Ha solo le sue Women’s things fresche fresche, appena giunte. Niente di grave.

“ …portaci delle rose , nuove cose, e ti diremo ancora un altro siiiiiiiiiiii…”.

Le vocali, Fiorella, le vocali. Eddai.

Poi lei si sveglia, invece. Forse perché io continuo a rotolarmi da una parte all’altra. Capisco che di dormire di nuovo non se ne parla. Devo solo trovare il coraggio di abbandonare la stanzetta calda di studentessa crucca e gettarmi intrepido nella più grande nevicata del secolo. Il coraggio lo trovo. Lei mi dice: ma come te ne vai? Dico io: Si. E non so aggiungere un motivo. Forse vorrei dirle: “ è difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare”. Ma non lo dico. Penso a trovare le calze, che come al solito si perdono.

Mi perdo anche io nella neve.

Nelle cuffie, per dare un’idea, ho Marlene Dietrich.  

la megghiu gioventù

Per offenderci, da ragazzini, si tiravano in mezzo le mamme.

Nello slang del mio paesello le offese si evolvevano di anno in anno, dalle elementari alle medie, diventando sempre più fantasiose e assurde. Ci si poteva offendere con tutto, tirando in mezzo i santi, i parenti vari e i cari defunti. Ma le offese più originali rimanevano sempre quelle dove ci tiravi in mezzo la mamma. Tutto partiva dall’offesa più ovvia: figlio di puttana.

Questa era di per se’ un offesa fin troppo scontata, e chi la pronunciava veniva additato come banale. Era insomma come imprecare dicendo: Acciderbolina, Perdinci. Non si poteva pronunciare qualcosa di così ovvio, ne andava di mezzo la reputazione del bravo teppistello di strada. Serviva inventiva. Originalità. Bisognava spremersi le testoline di bambini, per dirne una più grossa degli altri. Ma rimane il fatto che “ figlio di puttana” fosse sempre il fulcro da cui poi si scatenava tutta la tradizione orale di oscenità di quei tempi.

Il punto di partenza era appunto : la mamma del prossimo mio è puttana.

Accertata questa verità, questo dogma, ci si poteva lavorare su.

– Sai, ho visto tua mamma sulla strada che porta da quella parte. Chi aspettava?-

Qui si intende una strada notoriamente frequentata da prostitute.

– Mah, non lo so. Forse doveva dire qualcosa a tua madre e siccome non l’ha trovata a casa, allora sapeva di poterla incontrare sicuramente su quel marciapiede.-

Ecco, per esempio.

Oppure, variante:

– Tua madre sta sul marciapiede.-

– E tua madre fa gli scontrini!-

Il significato di questa frase è che la mamma numero due vorrebbe lavorare come prostituta ma essendo orrenda, non se lo può permettere, e dunque viene assoldata dalla mamma numero uno per battere gli scontrini alla cassa, ovvero fa la cassiera della mamma numero uno. Il che la pone ovviamente su di un gradino più basso. Ma su questo punto ci sono alcune controversie. In alcune scuole, distanti dalla mia solo qualche centinaio di metri, la mamma che faceva scontrini era considerata al di sopra della mamma praticante la prostituzione.

Scuole di pensiero diverse.

Dunque poteva capitare di sentire ragazzini vantarsi che la propria mamma faceva gli scontrini, ed altri invece offendere additando i propri amici come “figlio di quella che fa gli scontrini”. Un casino, insomma. Soprattutto quando per la strada si scontravano bande di ragazzini che frequentavano scuole diverse.

L’ offesa del secolo fu pronunciata da un mio amico dopo una partita di calcetto. Bisogna premettere che dalle mie parti per dire “ tua madre” basta dire “ màmmata” in quanto la desinenza “TA” implica che si parla precisamente della tua, di madre. Questo personaggio alla fine della partita stava ascoltando la sfuriata di un suo avversario che lo accusava di falli, irregolarità, brogli e ovviamente anche di essere figlio di una che sta da qualche parte sul marciapiede a lavorare. Come al solito in questi casi furono spese tante e tante parole.

Ciò che pose fine al litigio fu la frase:

  Verba Volant, Mammata Manent”.

Le parole volano, ma tua madre rimane. ( implicito: sul marciapiede)

Scattò l’applauso.

Io ho riso per due ore tenendomi la panza.

'cause I got too much life/ running through my veins/ going to waste

C’è qualcosa di biondo che dorme nel mio letto.

Taratataaaaaa.

Suspence.

Mi sono tirato su alle 3 e lo specchio del bagno mi ha detto: torna da dove sei venuto. Avevo messo la matita sugli occhi ( e per la prima volta anche del mascara) e adesso la matita si è spalmata su tutta la palpebra inferiore, così che il risultato è che questa mattina ( questo pomeriggio) non sembro più Jessica Rabbit ma piuttosto Billi Joe dei Green Day.

Perché ieri sera, altro che boa di piume.

Ieri sera io ero Jessica Rabbit. Ieri pomeriggio ho comprato questo fantastico vestito lungo e rosso, con le maniche di zanzariera, con lo spacco sul davanti. Sotto, portavo comunque i jeans. Il vestito l’ho pagato cinque euri, e il mio budget per carnevale si fermava a sette euri. Dunque niente parrucca. E quindi potete immaginare.

Immaginato? Ecco, di più.

Poi vabbe’ la festa le birre gli amici le birre e bla bla bla. Tanto tanto bla bla bla e tanto tanto Tun Tunz Tunz. Fino a quando non so come mi trovo a parlare con questa tipa. Tedesca. Zebrata. Intendo il vestito, era zebrato. Dunque d’ora in poi per esigenze di narrazione sarà citata come La Zebrata. Io andavo via e la Zebrata era interposta tra me e la stazione della metro. Ehi, vai alla metro? Ehi, già, vado alla metro. Ma guarda, che combinazione, andiamo allora alla metro insieme. Andiamo. Che direzione prendi tu? Di qua? Io invece ho la casa di là, dall’ altra parte.

– E allora ciao Zebrata, buonanotte- e faccio uno sbadiglio. Ho sonno. Le orecchie fanno ancora Tunz Tunz. Da sole.

– Vengo a casa tua? – mi chiede ( sono le cinque del mattino Ndr)

– Vieni a casa mia? –

– Vengo? –

– Vieni.-  tanto ormai, abbiamo fatto settecento, facciamo settecentoventi.

Mi si avvicina, mi prende per le orecchie e mi guarda seria. Mi dice:

– Però, devi promettermi: niente sesso. Ok? –

– Ok.- dico io, subito- Niente sesso.-  Non sa quanto mi fa felice dicendo così. Voglio andare a casa, non me ne frega un cazzo. Se mi dicesse: andiamo a casa e facciamo gli Origami, direi di sì, se mi dicesse Andiamo a casa e facciamo una torta alla fragola, direi di sì, non me ne frega un cazzo, voglio andare a casa e basta.

E poi, scusate un attimo, apro la parentesi Love del post: a me piace dormire e basta. Con le ragazze, intendo. Mi piace. C’è qualcosa che non so spiegare, c’ è qualcosa di imprevedibile. Io lo apprezzo molto. Succede raramente. Ci sono meno aspettative. Non lo so, non lo spiego. Chiusa parentesi.

In metro sono incredulo e ridacchio davanti a lei: dunque tu vieni da me? Si vengo da te. Occheeei, come vuoi. Vieni pure. C’ho il letto stretto. Fa niente. Occheeei. Siamo sotto casa e sono le sei. Prendo le chiavi dalla tasca. Voglio dirle che dobbiamo fare piano per non svegliare il mio coinquilino ( che poi mi ha detto che invece si è svegliato) e mentre sto per rivolgerle la parola, mi accorgo che non conosco il suo nome. – Ah, senti un po’. Com’ è che ti chiami?-

– Charlotte. In italiano mi hanno detto che è Carlotta.-

Anfatti.- rispondo.

La posiziono sulla poltrona della mia camera e vado a fare altro in cucina. Bevo del latte. Mi gratto la nuca. Bevo del latte. Torno nella mia stanza che mi sono già dimenticato di lei, e così quando la rivedo mi viene da dire: e tu chi cazzo sei? Ma non lo dico. Ah, già. Sei Charlotte. Che poi sarebbe Carlotta. Di nuovo, vado al bagno, e quando torno mi viene ancora da chiederle : ma tu chi cazzarola sei? Boh, non riesco a registrare la sua presenza. Eccheneso. 

Poi per il resto i patti erano patti. E così giustamente non si è trombato. E neanche Origami e torte alla fragola. Ok, lo ammetto, ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto dirle: ma hai notato una cosa? Sei quasi nuda. Io pure. Lo hai notato? Brava. E ci sono dei punti del mio corpo in cui sono, diciamo così, un po’ convesso. E tu invece, in quelli stessi punti sei, diciamo così, un po’ concava. Lo sai una cosa? Concavo e convesso sono complementari! Eh?

Niente, non si è trombato. Più volte mi sono svegliato e mi sono spaventato vedendo una cosa bionda che dormiva lì vicino. Avrei voluto dirle: e tu chi cazzo sei? Poi ad un certo punto si è messa a piangere, senza motivo. Che ti succede? No niente niente, scusami. Non è niente.  Uno più uno fa due. Aveva le mestruazioni, come ho fatto a non arrivarci prima. Mi dice:

– Sai, non si può fare niente stasera, ho quella cosa che hanno spesso le ragazze..-

– Le paranoie?-

– No quella cosa una volta al mese. –

– Ah, ho capito. –

– Ecco, scusami.-

– Figurati.-

E giù di nuovo lacrime e singhiozzi.

Mah.

Boh.

Sigh.