Tra le piccole cose da annotare in questo periodo.

Una sciarpa lavata a tua insaputa, e che ti torna indietro con un profumo diverso. L’accettazione sincera del fatto che “a volte sei in testa/a volte resti indietro. La corsa è lunga e, alla fine, è solo con te stesso”.  Questa cosa di avere a volte in casa della roba cucinata il giorno prima. Il tizio che vende polli arrosto rotondi nel mercatino di quartiere del venerdì.

Il fatto di avere un mercatino sotto casa il venerdì. Con la mortadella e il polpo marinato e la scamorza affumicata. Che lo ripeti sempre col dito indice alzato, vivessi a Liverpool, non ce l’avresti. Non sei mai stato a Liverpool, ovviamente, ma non per questo smetterai di dire così.

Quella volta che sei riuscito a svegliarti col buio per andare a correre. Ok poi tre giorni dopo – per altre ragioni – ti sei ammalato e non l’hai fatto più, però una volta l’hai fatto, e sei stato abbastanza furbo da scattare una foto a futura memoria, per ricordarti che è possibile.

L’esserti svegliato troppo presto stamattina – prima delle cinque – senza motivo, essere devastato di stanchezza ma senza nervosismo.  Il tantissimo vento che hai preso in faccia.

non lo scrivo mai che i grandi avvenimenti europei

Non lo scrivo mai che i grandi avvenimenti europei mi capitano praticamente sotto casa. Che se la TV racconta della Merkel in riunione con Tsipras, poi sotto casa non trovo parcheggio facilmente. La Commissione Europea è per me un enorme fungo architettonico che osservo sempre chiuso: ci vivo quasi a fianco lavoro lontano da qui. Quando il fungo architettonico è vivo e pieno di gente – quindi durante gli orari di ufficio – io sono altrove impegnato a fare altro. Ci passo spessissimo il sabato mattina per prendere la metro e siamo solo io, lei e pochissimi altri. Rarissimi turisti che a volte mi chiedono di scattargli una foto.

Quando qualche giorno fa sono passato da lì – poco prima della chiusura dei seggi in Grecia – uno dei tanti giornalisti era di fronte alla telecamera vestito con giacca e cravatta, mentre poi sotto indossava un paio di boxer colorati che tanto non entravano nell’inquadratura – faceva molto caldo in quei giorni a Brussélle. La storia era lì a fianco a me ed io andavo a cenare ad un sushi di St Gilles.

Quando dicono che vogliono fare gli Stati Uniti d’Europa come gli Stati Uniti d’America, penso alle difficoltà delle relazioni tra persone già adulte. Fino a quando si è molto giovani e non completamente formati, basta la volontà di stare assieme (gli Stati Uniti d’America). Quando invece hai una personalità già cristallizzata, preferenze e allergie, abitudini e difetti e pregi arrugginiti, la volontà di stare assieme non basta, e la paura di restare da soli non basta: serve uno sforzo maggiore di volontà, con la consapevolezza che di certo andrai a perdere qualcosa.

La misura del fatto che non riesci a stare dietro a tutte le cose che ti proponi di fare – troppe – è quel biglietto che ti hanno lasciato sulla macchina scritto a mano, te l’ha lasciato qualcuno o qualcuna dopo averti colpito lo specchietto retrovisore, e c’è scritto che questo qualcuno o qualcuna si scusa, e di chiamare un numero di telefono per il risarcimento, e tu ti dici va bene chiamerò domani, poi domani non chiami, poi perdi il biglietto, dove lo hai messo, poi ti dimentichi, poi torni a casa una sera e chiudi la portiera noti il danno – lo specchietto si è riattaccato ma fa uno strano rumore quando la portiera si chiude – ti ricordi che devi fare qualcosa, chiamare qualcuno o qualcuna, ti distrai vedendo i primi alberi in fiore – è primavera – ti ripeti che chiamerai domani, sai già che non lo farai e soffrirai di lievissimi e superabili sensi di colpa.

una delle prove

Una delle prove inconfutabili della tua imperfezione è la distanza tra quello che credevi ti piacesse – le cose che credevi ti piacesse fare, le persone, le cose – e ciò che poi nella vita invece inaspettatamente desideri, davvero contro ogni logica.

Le cose che invece ti piacciono, le persone di cui invece sei curioso. Le persone che – contro ogni logica – vorresti sapere quale faccia hanno appena sveglie la mattina, quale calligrafia lasciavano sui quaderni di scuola.

Questa discordanza tra la persona che credevi (che speravi) di essere e quella che invece sei ti fa arrabbiare con te stesso, ma dura molto poco, perché poi da adulto invece di respingere, accetti. Prendi atto di ciò che desideri, perché le forzature non hanno senso, e perché sai che come i bambini le negazioni non fanno altro che aumentare la curiosità.

il 2014

Il 2014 è stato un anno in cui ho scritto poco, ho scritto in ritardo (come questo post), in cui ho letto poco e male. Continuo ad odiare i capodanni. Le celebrazioni, i regali. E quindi pure i bilanci di fine anno, che perciò posticipo. Insomma continuo ad odiare quelle cose che dopo l’antagonismo adolescenziale la gente poi comincia ad apprezzare, e a dirsi che bisogna rilassarsi, che in fondo cosa te ne frega.

Per me non vale.

Un anno in cui ho capito che la stabilità può essere perfino un problema. Ovvero che mi è più facile vivere la precarietà delle persone, dei luoghi, dei lavori. Piuttosto che la consapevolezza che una persona, un luogo, un lavoro, potrebbero durare tantissimo. Le domande che si generano davanti a quell’ipotetico tantissimo sono ossessive e dilanianti. Certi giorni si potrebbe dire che essenzialmente lavoro, mangio dormo e poi – in tutti gli interstizi di tempo rimasti – mi pongo domande sulla stabilità.

Un anno in cui sono rimasto in panne con l’auto una volta, di notte (e non ne scrissi, ecco, appunto), in cui ho speso una cifra abnorme in ristoranti. Un anno che ho ascoltato molta musica online e comprato pochi dischi. Che ho passato più di un mese al mare. Un anno che mi sono detto basta, adesso non stiro più le camicie, ma poi ho ricominciato. Che ho giocato ai videogiochi sul telefonino – non si dovrebbe, lo faccio lo stesso. Che non ho visitato posti nuovi e non me ne dispiace; il piacere di ripassare dagli stessi luoghi è molto sottovalutato. Ho anche fatto tanti chilometri a piedi, ho fatto due spettacoli teatrali, ho riso sinceramente, ho lavorato molto, ho finito una mezza maratona. Un anno in cui non sono riuscito a cambiare casa, in cui ho tagliato via persone inutili. Un anno in cui mi sono sforzato di tenerne altre vicino perché speciali.

Un anno in cui sono diventato geloso di chi riesce a farsi riempire tanto da una sola conquista: un lavoro, un figlio, un partner. Si riempiono e gli basta. Gli esseri viventi – si legge sui libri di biologia – nascono, crescono, si riproducono e muoiono. Chi grazie a questo riesce a sentirsi riempito possiede una fortuna che non immagina neanche, perché poi ci sono altri esseri viventi più sfortunati che nascono, crescono e si pongono domande.

Un anno che però mi piace ancora bere il caffè di fronte ad un computer e elaborare informazioni complesse.  Un anno che in certi momenti mi piacerebbe essere in campagna a spostare zolle di cacca di mucca da una stalla all’altra.

I più letti tra i post del 2014:

Tutta l’infelicità dell’uomo (31 Marzo)
Senza titolo (31 Luglio)
Ma quindi perché di certe persone (7 Gennaio)

Non posso fare a meno di segnalare un articolo di Enrico Brizzi sui vent’anni dall’uscita del suo Jack Frusciante. Racconta storie che in parte so, data l’ossessione di allora per quelle pagine, e visto come consumai pure il libro scritto dalla sua futura moglie sul parto del romanzo e la stagione di gloria che ne segui’. A tutto questo si aggiunge la presenza di Bologna e altre mie storie di contorno parallele alla trama e la sensazione di essere contemporaneo e conterraneo con gli elementi del proprio romanzo di formazione. Sono vent’anni e non posso fare a meno di leggere queste righe con la pelle d’oca sulle guance.

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Uno di quei periodi in cui senti che tutto quello che c’era da dire, è già stato detto. Allora piuttosto che scrivere vai a dar fastidio alle colonie dei gabbiani al largo, a guardare i nuovi nati del 2014 che hanno le piume più scure, così facendo tardi e saltando l’ora di pranzo, e poi pranzare olive e spritz spiando le coppie di turisti.

Ti interessano in particolare quelle avanti con l’età, vuoi capire se si parlano e cosa si dicono, ma soprattutto se si parlano in generale, mentre siedono al tavolino del bar a godersi il mare, e sarà la trentesima volta che ci vanno, al mare insieme.

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A futura memoria – per memorizzare le giornate semplici – un venerdì di maggio del 2014 sei andato a lavorare con il sole.

Tra le altre cose hai voluto pranzare da solo, ascoltare musica durante il caffè e innaffiare la tua piantina sul tavolo.

Durante una teleconferenza, siccome con alcuni colleghi ormai ti permetti tutto, quando al telefono la voce proveniente dall’altra parte del mondo rispondeva alle tue domande, tu giravi sulla sedia girevole fino a farti girare la testa. Giravi giravi e poi ti fermavi soltanto per guidare la discussione su altri argomenti. Quando sei uscito dal lavoro faceva ancora più caldo e non ti andava di cucinare.

Allora sei andato a cenare da solo nella pizzeria dove a causa dei tuoi incontri a tema letterario il capo cameriere si ostina a chiamarti “professore”. Da professore ti sei seduto al tavolo vicino alla finestra con il computer aperto davanti. Una delle cose più belle che si perdono nel vivere nei piccoli paeselli dove tutti ti conoscono è poter andare a mangiare una pizza da solo con il computer aperto davanti. E’ passato un signore che tu sapevi essere tuo collega, e lo sapeva pure lui avendomi incontrato ogni giorno per anni, anche se non avrebbe mai pensato che potessi essere italiano.

Quando succede – quando questi italiani che non mi credevano italiano stanno per scoprirlo – c’è sempre un momento di incertezza in cui mi chiedono se sono italiano, ma me lo chiedono in inglese. Un anziano seduto più avanti inventava poesie d’amore per una ragazza di passaggio. E poi costringeva il nipote adolescente a far vedere davanti a tutti quanto era bravo a cantare. E difatti era bravissimo, una voce da tenore contenuta in una faccia brufolosa, una voce sicura dentro un corpo che si vergognava e che si schermiva impegnandosi a mettere assieme palline di mollica di pane. Ecco a cosa servono gli smartphone, hai pensato, tu che resisti solitario in questa isola ormai deserta.

Quando sei uscito mentre tornavi a casa hai salutato gente che si accalcava ad un concerto molto indie e molto pomeridiano; sei andato a casa, hai parlato al telefono per un’ora steso sul divano con le gambe poggiate sulla parete. Eri contento di non aver nulla da fare la mattina dopo, e di avere il tempo finalmente di lavare i piatti.

Ecco Sì, una delle cose che mi fa più ribrezzo in assoluto in questo momento storico è il rumore del deodorante spray che certe impiegate si spruzzano in orario di lavoro, al tavolo di lavoro, come se fosse normale.

Non mi fa ribrezzo l’autoconsapevolezza di puzzare – né l’ipotetica mancanza di igiene – quanto l’ignorare completamente le alternative più discrete, come un deodorante non spray che non produca il pssszzzzz nel silenzio, il non chiudersi un momento nel cesso se proprio se ne ha bisogno. Non è l’ipotetica puzza, ma proprio il fottersene delle alternative leggermente più plausibili.

E va bene, se si deve viaggiare cosi’ a lungo in auto e non mi vuoi far guidare – collega – allora mi siedo dietro. Però non aspettarti conversazioni, con il tablet dei tuoi figli giocherò per tanti chilometri francesi fino a farmi venire la nausea. Smetterò appena prima di vomitare, farò un po’ di conversazione e subito ricomincerò.

Certe strade periferiche di Parigi sono talmente esotiche che trovi i comitati elettorali per le presidenziali del 2014 in Algeria.

Certi formicai di metropoli ti paiono interessanti – o leggermente più interessanti della media – quando noti particolari specifici.

Come le tre amiche quindicenni che rientrano a casa chiacchierando agitate e scomposte come fanno le quindicenni di ogni luogo della terra. Solo che loro lo fanno esattamente li’, nel mezzo del formicaio della metropoli, e allora ti chiedi in che senso la loro personalità sara’ stata influenzata da questo. Vorresti scrivere un manuale esatto delle affinità e divergenze tra te e loro – avendoci molto tempo da spendere sulla cosa – seduto ad un grande tavolo di ciliegio, mangiando cioccolata e nelle pause della scrittura giocare a calci di rigore da appartamento con una micropalla che non rompa i vetri.

E invece sei li’ che dondoli al ritmo dei semafori francesi seduto al sedile di dietro e gareggi in un videogame su piste di Dubai, che leggi il nome della receptionist dell’albergo sulla targhetta, le bandiere sulla targhetta ad indicare le lingue di cui e’ capace (italiano incluso ma non ti va di verificare); cerchi di immaginare dove ha imparato tutte quelle lingue e per quale motivo, se ‘e contenta di lavorare li’, cosa pensa di me che ho dimenticato la carta di credito a casa, dove vive, in quale buco di questo formicaio, se fa colazione a casa oppure in albergo.

Da tempo sei convinto che la parte più difficile di questi viaggi non sia la strada da fare, le informazioni da dare o la professionalità da dimostrare, quanto piuttosto le le pause in cui sei costretto a parlare con gli altri, che non vorresti farlo, e gli argomenti da trovare per parlarci, che non li trovi.

Vedi, collega che vieni da Paese Mai In Recessione, e che quindi da quando hai terminato gli studi saltelli da un lavoro gratificante all’altro, ti puoi anche lamentare delle tasse alte di questo posto belgico in cui ora viviamo, e c’hai pure ragione, e ti puoi pure lamentare che a parità di ore in un altro luogo forse verresti pagato di più – e fino ad un certo punto c’hai pure ragione – ma io non proverò mai empatia per te. A differenza di te, vengo da un luogo con poche o nessuna speranza, e tutto va bene. Mi rendo conto che non vale come discorso (perché c’è sempre qualcuno che sta peggio) ma aver vissuto anni nella melma dell’incertezza e nelle zero aspettative di un futuro concreto, qualche vantaggio deve pure averlo oggi, o no? Sai qual è il vantaggio? Che posso ascoltarti mentre ti lamenti e pensare chissenefrega, non condividere le tue frustrazioni, vedere le stesse cose che vedi tu, solo che tu le valuti come insufficienze, io le valuto come fortune. Sai qual è il vantaggio? Sono gli occhi diversi che oggi ho, e che tu non avrai mai.

cose che non riesco a fare #1

Ciao Prefettura di Parigi che mi informi del ritrovamento, chissà in quali condizioni, della borsa trafugata di cui parlavo qui.

(ah, a proposito, ciao ladro dimmerda che non intuisci che la mia stilosissima borsa vale molti più soldi che ci hai trovato dentro e la abbandoni per strada).

Comunque dicevo, ciao Prefettura che mi spieghi dove andare a ritirare la borsa, quello che c’é rimasto dentro, e in quali orari. Ciao Prefettura, ho notato che quelli sono giorni e orari lavorativi. Che società è questa, che quando ti serve un disoccupato – in questo caso uno parigino e disposto ad andare per me al 15e arrondisement di Parigi entro fine Febbraio – non lo trovi.

Il 2013

Nel 2013 credi di aver compreso che la vita si manifesta in tante forme, alcune pure terribili. Che tutto è vita. Nel tuo essere in fondo pop, ti senti vicino a Ricky Fitts di American Beauty che filma un piccione morto perché lo trova bellissimo.

Nel 2013 hai apprezzato ancora di più le famose piccole cose. Non sei contento solo per questo: ti senti pure fortunato perché attorno noti tanta gente che non ci riesce, che arranca cercando continuamente l’incercabile. Sei contento di come stai invecchiando. Hai poco da rimproverarti.

Di molte cose che ti sono successe non hai scritto niente.

Hai viaggiato soprattutto per lavoro. Oltre ad un mese di mare diviso in tre parti, hai preso circa 25 voli e sei stato, anche più volte, a Londra, Roma, in Normandia, a Parigi, Utrecht, Berlino, Lisbona e poi a fare la trottola negli USA. Hai avuto 17 libri per le mani. Ti sei stancato tantissime volte. Se ci fosse un form da compilare, alla domanda “è questa classificabile come vita?” metteresti tranquillamente una crocetta sul Sì.

I più letti tra i post scritti nel 2013:

1. La vicenda di Oscar Giannino, 20 Febbraio
2. Ciao aspirante studente universitario, 20 Settembre.
3. Se mi offrissero, 5 Maggio.
4. Alt, Prnt, Scrn, 6 Febbraio.

quando

Quando una ragazza – o un essere umano in generale – parla inglese con un accento eccessivamente americano oppure (peggio) eccessivamente britannico, e quindi si muove nel mondo gestualità e comportamenti eccessivamente americani o eccessivamente britannici, come per esempio (per gli americani) essere entusiasti di tutto a prescindere, e (per i britannici) non dire mai le cose come stanno ma girarci cautamente attorno (potremmo chiamarlo girattornismo), ecco, in questi casi subito mi viene da classificare la persona come appartenente ad un mondo lontano, magari interessante ma lontano, un posto remoto che lo so bene non mi troverò mai completamente a mio agio.

certe volte

Certe volte ti piace l’imprevedibile. Ti piace non essere convinto ma ugualmente lasciarti portare via dal flusso delle cose.

Alla fine di una cena durata fino quasi a mezzanotte, avevi deciso che la serata sarebbe finita lì. Però siccome non vuoi passare per asociale ha richiamato chi t’aveva invitato a fare un giro, sperando – come spesso succede – che a causa del rumore nessuno rispondesse alla chiamata. A quel punto avresti avuto la coscienza a posto, spegnendo il telefono e annullandoti con una doppietta di Breaking Bad. Ma ti hanno risposto.

Allora ti sei fatto vedere, pero’ con il progetto preciso di dichiarare: Soltanto Una Cosa Da Bere, e poi sparisco. Per sottolineare le tue intenzioni divergenti dalla realtà degli eventi, lungo la strada ascoltavi Un Oceano Di Silenzio. Quindi hai annuito a tutti i progetti per la serata e alla fine hai dichiarato: No No, bevo una cosa e poi sparisco.

Qualche ora più tardi hai posato un bicchiere sul tavolo in un luogo rumoroso e stipato di gente, e hai detto: me ne vado, ciao. Poi ecco l’imprevidibilità.

Ed ecco che all’improvviso mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei, e consideri ancora una volta che non e’ per niente scontato che domani potrai decidere se lasciarti andare al flusso delle cose oppure No.

Tra le note da prendere, ricorderai occhi chiusi, piedi scalzi sul marciapiede freddo, il rumore di un camion della nettezza urbana verso l’alba, mirto bevuto per sbaglio a colazione perché il bicchiere era nel posto sbagliato, risate sincere che non ti saresti aspettato, una spesa al supermercato dodici ore dopo essere uscito da casa e non esserci mai tornato, il passo incerto mentre ti avvicini al banco frigo e dei capelli appiccicati sotto la suola delle scarpe.

Un periodo che non scrivo non per mancanza di cose da scrivere, quanto piuttosto per eccesso.

Ho ascoltato voci che parlano di futuro. Ho visto occhi che mi guardano in un modo che io lo so – certo che lo so – devo provare a non fidarmi. Ho scritto righe per una persona che sta per lasciare questo mondo. Ho avuto voglia di fare dei regali. Mi sono comprato le scarpe nuove – in francese. Ho trovato una foglia a forma di cuore nell’insalata e l’ho portata in processione da tutti i colleghi: mi pareva la notizia più importante della giornata.

E se un giorno dovessi morire giovane, probabilmente sarà perché mi metto a far polemica con quelli che non rispettano la fila, senza pensare alle dimensioni e alla faccia da malavitoso.

Nella lista “posti che se non mi ci avessero portato, ancora non avrei visitato“, nel senso che rimandi ad un “poi” indefinito nel futuro che prima o poi arriverà, in questa lista dicevo, ora possiamo metterci pure Dublino.

Nei pisciatoi dei pub dei bagni maschili si usano i cubetti di ghiaccio – la funzione non ti è chiara, forse per attenuare lo smell? – e le ragazze del luogo si abbronzano artificialmente con una crema che le rende tutte arancioni. Ti viene da pensare alle proporzioni che si studiavano con la matematica della seconda media, e quindi ti viene da pensare che sotto molti aspetti, nel bene e nel male, le italiane stanno alle irlandesi come l’alitalia sta alla ryanair.

summer13

Appena tornato a Brussèlle, sei consapevole che in una vita da expat, le pause della vacanza – per compensare – devono essere necessariamente molto local. E infatti è quello che hai fatto durante due settimane di salsedine. Solo che poi tutto il tempo lo hai trascorso con persone che per la vast majority sono nelle tue stesse condizioni – di delocalizzati intendo – chilometro più, chilometro meno.

Sei contento di come hai speso il tuo tempo, spendendolo male, ripetendo i gesti all’infinito, diventando un perdigiorno, diminuendo allegramente la stima di te stesso.

Ricominceresti domani.