alors


Alors
, con le carte di Barcelona ancora sparse sul tavolo domani mi avvio verso Eindhoven. Prima di questo, qualcuno avrà voglia di farsi trenta e passa chilometri per venirmi a dire ciao per neanche mezzora e poi tornare subito a casa. A Eindhoven si farà il pieno di melatonina, ché in Belgio te la danno solo su prescrizione e a prezzi irragionevoli. Da Eindhoven si parte nel pomeriggio per Pisa. A Pisa si posano le valigie e si va a fare festa in un paesino sconosciuto ma tanto non guido io quindi sapranno loro dove si va. Nella notte dormirò nello stesso letto con Billigiò – che solo gli aficiondados ricorderanno – tremando di paura per le sue celeberrime scorreggie notturne che gli fecero guadagnare una fama internazionale già un quindici anni fa. La mattina seguente partirò per Bologna, ma belle, che vedrò per poche ore. C’è una cena organizzata, ed io reduce da poco sonno e scorregge, vorrò davvero esserci tantissimo. Non andrò a dormire, ma verso le tre mi caricherò su un taxi e alle 6 di mattina partirò per il paesello giù al tacco.

Abbiamo un corpo, dobbiamo usarlo, porcalamiseria.

ne ho parlato tanto in questi giorni

Ne ho parlato tanto in questi giorni, per esempio con italiani trapiantati a Barcelona, per esempio con francesi che hanno lavorato in Inghilterra. Ho parlato cioè del modo tutto latino e mediterraneo di essere capi sul lavoro, di come quasi sempre i capi sul lavoro – nei paesi latini e mediterranei – sono quelli che si permettono di essere più sgarbati e presuntuosi e di come – anzi – si misuri il loro potere proprio in base a quanto possono sgarbare e pretendere dai loro sottoposti.

In altre parole: ti tratto male per farti capire quanto sono sopra di te, per farti percepire la distanza.

Mi trovo a lavorare con persone che sono tutto l’opposto: quanto più in alto si trovano rispetto a te, tanto più sono disponibili ad aiutare. Anche se non glielo chiedi, saranno loro a venire da te per chiedere se va tutto bene, se hai bisogno di qualcosa. Ti inseguiranno proprio fisicamente, per chiedere se hai bisogno.

E se per caso fai una domanda, quelli passeranno intere mezzore ad aiutarti a capire. E se passi troppo tempo al lavoro, ti diranno di non passare troppo tempo al lavoro. E se non prendi le vacanze che ti spettano, saranno loro a ricordarti di farlo. Perché hanno bisogno di avere intorno gente che stia bene, e che lo trasmetta nell’aria questo stare bene. C’è bisogno concreto di sorrisi sinceri.

C’è di mezzo una fortuna spropositata se posso raccontare queste cose – se durante una cena dobbiamo parlare piano per non far capire al nostro capo quanto bene stiamo parlando di lui, e del suo capo, e del capo del suo capo – ma è una cultura certamente non latina, questa che descrivo, che purtroppo in Italia dove tutti si chiamano per titoli e cognomi non esiste, oppure è rarissima, e che fino ad oggi ho osservato nei paesi germanici anglosassoni e barbari. E’ cultura nel senso che se lo fanno con te, avrai voglia di farlo con chi verrà dopo di te, e la tramanderai. Si tratta di trovare buoni esempi e riprodurli, arricchirli.

Non puoi cambiare il mondo, puoi invece cambiare i pochi metri quadrati attorno a te. Ogni giorno che ti verrà data la possibilità di farlo, sarà un giorno che ne sarà valsa la pena, avrai costruito qualcosa che forse non se lo porta via il vento.

per anni hai pensato

Per anni hai pensato che pur non avendo mai visitato la Spagna – eri l’unico italiano che conoscevi in questa condizione – pur non essendoci stato gia’ immaginavi quello che avresti visto, i profumi, le facce, gli edifici. Sei venuto in Spagna e infatti era davvero cosi’. Non sei sorpreso di nulla. Sei sorpreso invece dell’immensa camera d’albergo, e degli optional, che’ mai ti era capitato un bagno con il telefono di fianco al cesso, probabilmente l’apoteosi massima del business man.

Ieri i colleghi si muovevano verso l’hotel, tu prendevi un taxi per un paesino della provincia catalognese. Lo facevi fermare davanti alla porta di una clinica. Li’ dentro – ma non era ancora arrivato – ci sarebbe dovuto essere il titolare, ovvero un tuo compagno di universita’ che aveva studiato sui tuoi appunti delle lezioni. La ragazza e socia lo ha chiamato dicendogli che c’era una semi-emergenza in sala chirurgia ma in sala chirurgia invece c’eri tu con le valigie in mano. Vi siete presi a pugni come si fa tra compagni di scuola, bevuto una birra in questo paesino che tanto somiglia alle tue estremita’ terroniche salentine. Lo hai salutato davanti alla stazione dei treni. Il treno che avrebbe dovuto portarti in centro, a due passi dall’albergo.

Invece ti sei perso.

Con la valigia in mano hai cambiato treni e metropolitane e chiesto di pisciare in baretti malfamati e visitato posti periferici di Barcelona e mentre lo facevi – non fosse per la stanchezza – hai pensato che era meglio cosi’, che’ per i luoghi turistici c’e’ tutta la vita davanti, e molto prima di tutta la vita, c’e’ google image.

E quindi, anche se fra poco avresti tempo per una visita al centro, te ne andrai invece a correre sul lungomare.

non far sapere a nessuno

Non far sapere a nessuno quanto diventa bella Brussélle quando la primavera le salta addosso.

Un parco pieno di luce e di gente e di sedie a sdraio offerte da non si sa chi. Ciao, coppia di arabi di cui lei con il velo che stesi sul prato vi baciate à la europeénne. Ciao, libraio che mi riconosci e mi saluti mentre corro sul marciapiede. Ciao, bambine indiane che vi scappa la pallina da tennis e mi rimbalza sul ginocchio mentre corro nel parco.

Ci sono almeno due cose che mi piacciono di te: il fatto che due volte a settimana sei a visitare tua nonna nella casa di riposo, e se mi chiami devi spegnerle l’auricolare per non farla spaventare mentre parli inglese al telefono, e poi che quando lasci la mia casa di mattina presto – mentre sono sotto la doccia- ci sono certe mattine che mi aspetto di trovare un biglietto da qualche parte e infatti lo trovo.

Epperò faccio cazzate e non ho giustificazioni. E faccio confusione.

Prendiamo un gelato in centro e ci sono due ragazze afro-belghe che fanno casino al tavolo di fianco. Mi ricordo di quella volta in pizzeria, di quei due ragazzi afroamericani figli di diplomatici della Nato che facevano casino in pizzeria, una sera di un mese fa. Ti dico: ma hai notato che non è la prima volta che ci sono ragazzi neri che fanno casino al tavolo di fianco mentre mangiamo qualcosa? No, non mi ricordo, dici tu. Non mi ricordo proprio. Ci penso un attimo e mi rendo conto che l’altra volta non eri tu, madonna non eri tu, come ho fatto a confondermi, provo a riparare e cambio argomento, ti parlo del parco e del sole di stamattina.

Lunedì sono a Barcellona per tre giorni quasi quattro, devo riuscire a fare una sorpresa ad un vecchio compagno di università.

ma se tu

Ma se tu mi dici Vediamoci Beviamoci Qualcosa insieme un giorno di questi, se poi faccio finta di dimenticare una volta, se poi faccio finta di dimenticare due volte, è perché c’hai undici o dodici anni meno di me, e credimi non è una questione morale, è piuttosto una questione di principio: quando ero giovane quelle che si interessavano ai MoltoPiùGrandi non mi stavano simpatiche – non perché non si interessavano a me, non mi stavano simpatiche a prescindere.

fotografo queste righe

 

 

 

 

 

 

Fotografo queste righe che qualcuno ha lasciato sul muro vicino casa. Immagino l’autore e me lo immagino maschio, mentre scappa via da un appartamento non suo, apre la porta, esce.

Poi torna indietro e si fa venire in mente questi versi oscarwildiani. Mi sveglio/ di fianco al tuo petto/ti bacio/ alle porte dell’alba. Le googolo: non esistono in giro quindi è creazione originale. Provo ad intuire l’urgenza vandalica che lo ha costretto a metterle lì. Più tardi, lei che esce per cominciare una giornata, le scopre e capisce subito che sono dedicate a lei, anche se di lui ancora non conosce la calligrafia.

torno

Torno dal lavoro, lancio la borsa sul pavimento e afferro una banana – era la tua colazione di stamattina – e scappo via. In strada incontro casualmente collega britannica mentre cammina assorta, mi avvicino facendo finta di spararla con la banana-pistola. Mangio la banana. Avverto i passanti di fare attenzione alla merd sul marciapiede, quelli mi rispondono merci. Dove vai? mi chiede. Dove vo?

C’è una festa appena dietro l’angolo: ci sono per davvero i Righeira che cantano vamosallaplaya e la strada bloccata da un tripudio di italiani che bevono Spritz e gente che balla sui tavoli e le pareti tappezzate di libri. Mi scopro a pronunciare tantissimi Ciao che pochissimi mesi fa non ci sarebbero stati. Andima si stupisce del mio tempismo nel decidere quando andare a pisciare dietro l’angolo come si faceva da ragazzini – e come tutt’ora si fa, del resto.

La mattina seguente infilo un paio di pantaloni e una giacca e  corro a comprare un gelato ed una banana. Schiaccio la merd della sera prima, ancora lì intatta dopo molte ore, entro in un minimarket indiano e provo in francese a spiegare il concetto di stracciatella.

molti

Molti di quei bambini andavano a scuola non lontano da qui, quindi stamattina ho pensato: che faccio se vado al lavoro e scopro che qualcuno dei miei colleghi eccetera eccetera? Ho proprio pensato che faccia faccio, quali movimenti deve compiere il mio corpo nel caso in cui eccetera eccetera.

Poi invece niente. E sai quanto è naturale che ti venga da dire “poi invece per fortuna niente”, e allora liberato da questo dilemma hai cominciato a pensare a quanto siamo vicini – sebbene ci crediamo lontani – alle formiche che zampettano sull’asfalto: una è viva e l’altra di fianco viene schiacciata da una ignara suola di scarpa, e non c’è motivo per spiegarsi perché una e non perché l’altra.

uno di quei periodi

Uno di quei periodi che pensi di questo non scrivo, e neanche di questo, e neanche di questo, finché ti ritrovi a tagliare via tutto ciò che è importante e quindi non ti rimane niente, ed hai bisogno di far decantare questo niente per qualche tempo, prima di ricominciare.

Ai primi di Aprile rivedrò Bologna dopo un anno e mezzo.

commessi e commesse

Commessi e commesse dei negozi che non ho bisogno di voi epperò voi lo stesso mi chiedete se ho bisogno di voi.

Ogni volta vi rispondo Non Ho Bisogno Grazie. Ma certe volte il mio testadicazzismo viene fuori, e non riesco a stare zitto. Tipo tu commessa che da lontano mi vedi mentre spio etichette di bottigliette di profumi ma senza reale interesse, solo per misurare la distanza infinita che esiste tra il nome ed il profumo, tu commessa ti avvicini e mi chiedi Posso Aiutare? Io ci penso un attimo e ti osservo senza dire niente. Stessi cercando qualcosa di particolare – e non sto, comunque – stessi cercando non potrei spiegartelo, ché dovrei raccontarti di un episodio della mia vita passata di quattro anni fa, di un profumo che mi è sembrato di sentire per strada, un giorno che tu non c’eri, e che vorrei ritrovare esattamente quel profumo. Dovrei insomma spiegarti cose che non si possono spiegare.

Tu commessa mi chiedi Ha Bisogno? prima in francese, io faccio finta di non capire, tu me lo ripeti in inglese: Ha Bisogno?

Allora ti chiedo: E Come Potresti Aiutarmi?

Tu rimani interdetta, non sai cosa dire. Poi aggiungi, Mh, Come? Non So. Ecco ma se non sai, allora cosa vuoi da me? Lei sta per morire, le sorrido – ma poco – giusto per farle capire che non le voglio morsicare la testa, lei si ripiglia e scappa via.

ci dipingevano il futuro

Ci dipingevano il futuro come una realtà fatta di auto volanti e abbigliamenti metallici e alimenti liofilizzati.

Il futuro sono invece io – alle nove e mezza di sera – che piscio stimolato da due pinte di Kilkenny nel bagno di casa, mentre intanto nelle cuffie seguo una riunione di lavoro con tre continenti diversi, e le cuffie sono collegate al telefono cellulare.

E piscio.

Poi esco dal bagno, c’è lei mezza addormentata sul divano, sotto una coperta, lei che mi dice cose vietatissime del tipo mi piace questa coperta, ha il tuo odore. Io dovrei rispondere che i patti non erano questi, non era nei patti dirsi cose del genere. Ma invece mi volto verso il computer dove intanto va la presentazione coi tre continenti diversi in simultanea, premo un pulsante sul telefono e dico la mia – ma prima mi tolgo dalla bocca un chupa chups fragola e panna che avevo rubato un mese fa – e quelli dall’altra parte del filo (non c’è neanche il filo) addirittura ascoltano e rispondono pure.

Ci sono io, il giorno dopo mentre osservo lei che parla, penso senza impegni cose del tipo mi sa che hai una bellezza anni sessanta, mi piacerebbe uscire da questa stanza e comprarti una gonna o un paio di occhiali coerenti con questo essere involontariamente anni sessanta, ma mi piacerebbe “non un giorno di questi”,  mi piacerebbe praticamente adesso, senza posticipare, si esce e si va, e se la taglia non è quella giusta pazienza. Però non era nei patti pensare cose del genere.

La leggerezza consiste nel fatto che potrei smettere pure adesso di pensare ste cose, e andrebbe bene uguale.

Sharon Van Etten

Sharon Van Etten ha un nome barbaro però è di New York. Cosa dire di New York, visto che tanto di quello che ascolto viene da lì: bella New York ma non ci vivrei, ma la ascolterei.

Sharon Van Etten l’ho vista sabato. Dal vivo è più bella che nelle foto e nei video, ché si è fatta crescere i capelli più lunghi sulle spalle, e le spalle restano leggermente nude per una maglia dal collo largo. Quando canta pare ipnotizzata da un punto nell’aria dove però non c’è niente. Quando suona la chitarra, Sharon guarda la chitarra, che è uno di quei gesti che fanno le persone che non sanno suonare bene. Sembra messa lì per caso – per la timidezza, per questo fissare un punto indistinto nell’aria, per questo maneggiare la chitarra con poca sicurezza – ma dopo dieci minuti che la ascolti, ti rendi conto che non è lì per caso.

entro

Entro con l’auto in una strada stretta. Al centro della strada, un piccione perso nei suoi pensieri. Io avanzo ma lui non si sposta. Uno di quei piccioni anziani e deboli e umiditi dalla pioggia, persi nei loro pensieri che il primo gatto che passa se li porta via.

Fermo l’auto davanti a lui, che però non si sposta. Da lontano mi vede un maghrebino, mi fa aspetta con la mano. Si avvicina al muso della mia auto e poi rivolto al piccione fa un gesto come per dire vada vada. E il piccione, impettito, come un vecchietto che si è accorto solo ora di intralciare il traffico, si porta zoppicando al lato della strada.

tanto ormai

Tanto ormai si può dire di tutto. Se liberano la Urru il Corriere può davvero permettersi di scrivere:

Non sono caduti nel vuoto gli appelli del mondo dello spettacolo rimbalzati sulla Rete

Dunque in pratica gli scenari sono due: 1) i terroristi di Al Qaeda in Mali si collegano su Twitter, trovano l’appello di Fiorello per la liberazione, se lo fanno tradurre da qualcuno che sa l’italiano, riguardano su youtube i filmati di Fiorello al karaoke, e quindi si fanno convincere e liberano la ragazza in cambio di un terrorista tuareg. Oppure 2) i diplomatici italiani sono indecisi se sia giusto scambiare un terrorista con la Urru, poi però si trovano la bacheca di Facebook invasa da appelli e re-post di Fiorello, e allora finalmente decidono che va bene, lo scambio si può fare.

un ricordo che ho

Un ricordo che ho di Dalla risale alla prima meta’ degli anni zero, c’era la televisione accesa nella mia casa di Bologna.

Attorno al tavolo siamo in quattro a cenare in silenzio, e siamo – tre ragazzi una ragazza – tutti giunti a Bologna dallo stesso paesello. C’e’ la televisione accesa e c’e’ lui che parla di quando era ragazzo e con Shel Shapiro andava in giro a fare concertini sgarrupati per l’Italia. Prima racconta di Bologna e poi dei paesini piu’ piccoli. Racconta che la gente si spaventava vedendoli arrivare con un furgoncino scassato vestiti come degli zingari.

E ad un certo punto racconta di una mattina in particolare, di un anno in particolare, nel sud Italia, quando era giunto nel mio paesello e tutti si erano nascosti in casa per la paura, chiudendo le imposte delle finestre. Al nome del nostro paesello che mai sentivamo nominare in tv, saltammo tutti sulla sedia con la forchetta in mano, ridendo senza motivo.