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Bello il risultato del PD per una serie di motivi. Qualcuno lo metto qui anche se non sono i più importanti, anche se non li elenco partendo dal più importante.

– Innanzitutto, se non il PD, cosa votare? Grillo non si allea a prescindere con nessuno, quindi votare lui significa non votare. Ai grillini che si disperano la domanda da fare – semplice semplice – è la seguente: perché mai avrei dovuto votare Grillo? Seriamente, perché mai: esiste al mondo un motivo che dia un minimo di significato all’atto di votare Grillo, qualcosa che lo renda più significativo del – chessò – prendere a schiaffi le nuvole? Grillino dimmi perché mai.

– Il mondo era impestato di berlusconismo, ovvero di gente inebetita dagli slogan e dall’apparenza. Dal contenuto e non dal contenitore. In tutto questo, benpensanti di sinistra per anni si sono sbracciati blaterando che era uno schifo. Era uno schifo in effetti, è vero, ma il mondo era ormai impestato e la comunicazione contaminata. I cervelli sbrindellati non recepivano messaggi più seri e sostanziosi (anche per questo è sbocciato Grillo del resto). Fino a quando è arrivato Renzi e ha approfittato dell’humus creato dagli altri, ha usato gli slogan e le promesse ma a suo vantaggio (piuttosto che perculare chi lo faceva) e ha vinto. Quando il gioco si fa duro, i duri restano in piedi e accettano le nuove (dure) regole del gioco, mentre i deboli dicono che le regole non vanno bene, poco prima di essere travolti.

– Al netto di tutto, a tirare la carretta nel PD ci trovi la Serracchiani e Civati, Cuperlo e Fassina e tanti altri, ovvero – e questo è un dato oggettivo – la migliore classe dirigente che oggi si può trovare in un partito. Imperfetta per molti motivi, e che può offrire molti motivi per incazzarsi, ma basta guardarsi attorno per trovare il nulla.

– Al netto di tutto, mettere una classe dirigente nuova e inesperta, e vederla stravincere, fa piacere vederla stravincere con compostezza, senza proclami e bava alla bocca.

– Sapere che il risultato non piace a Travaglio trasmette la sensazione inspiegabile e irrazionale che il risultato sia proprio quello giusto

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A futura memoria – per memorizzare le giornate semplici – un venerdì di maggio del 2014 sei andato a lavorare con il sole.

Tra le altre cose hai voluto pranzare da solo, ascoltare musica durante il caffè e innaffiare la tua piantina sul tavolo.

Durante una teleconferenza, siccome con alcuni colleghi ormai ti permetti tutto, quando al telefono la voce proveniente dall’altra parte del mondo rispondeva alle tue domande, tu giravi sulla sedia girevole fino a farti girare la testa. Giravi giravi e poi ti fermavi soltanto per guidare la discussione su altri argomenti. Quando sei uscito dal lavoro faceva ancora più caldo e non ti andava di cucinare.

Allora sei andato a cenare da solo nella pizzeria dove a causa dei tuoi incontri a tema letterario il capo cameriere si ostina a chiamarti “professore”. Da professore ti sei seduto al tavolo vicino alla finestra con il computer aperto davanti. Una delle cose più belle che si perdono nel vivere nei piccoli paeselli dove tutti ti conoscono è poter andare a mangiare una pizza da solo con il computer aperto davanti. E’ passato un signore che tu sapevi essere tuo collega, e lo sapeva pure lui avendomi incontrato ogni giorno per anni, anche se non avrebbe mai pensato che potessi essere italiano.

Quando succede – quando questi italiani che non mi credevano italiano stanno per scoprirlo – c’è sempre un momento di incertezza in cui mi chiedono se sono italiano, ma me lo chiedono in inglese. Un anziano seduto più avanti inventava poesie d’amore per una ragazza di passaggio. E poi costringeva il nipote adolescente a far vedere davanti a tutti quanto era bravo a cantare. E difatti era bravissimo, una voce da tenore contenuta in una faccia brufolosa, una voce sicura dentro un corpo che si vergognava e che si schermiva impegnandosi a mettere assieme palline di mollica di pane. Ecco a cosa servono gli smartphone, hai pensato, tu che resisti solitario in questa isola ormai deserta.

Quando sei uscito mentre tornavi a casa hai salutato gente che si accalcava ad un concerto molto indie e molto pomeridiano; sei andato a casa, hai parlato al telefono per un’ora steso sul divano con le gambe poggiate sulla parete. Eri contento di non aver nulla da fare la mattina dopo, e di avere il tempo finalmente di lavare i piatti.

animali che non lo erano

Sono sempre affascinato da come i siti di informazioni presentano le notizie sugli animali. Al di la’ dell’inevitabile ignoranza dei giornalisti mi affascina il taglio sentimentale con il quale impregnano qualsiasi didascalia, dal leopardo “che grazia il cucciolo di antilope non divorandolo” (no giornalista, non almeno non in quella specifica foto pubblicata, poi magari lo fa giusto un secondo dopo) alla cagna che “adotta e allatta il cerbiatto” (come se questo portasse alla crescita di un cerbiatto sano e robusto). La gente vuole credere certe cose, e i giornalisti, che quanto ad argomenti scientifici fanno parte a pieno titolo della gente, si adeguano.

In questa gara alla castroneria condita da dosi variabili di sentimentalismo, una menzione d’onore va ai giornalisti di Repubblica.it, tra i più frettolosi e superficiali in assoluto quando si scrive di animali (si si certo, gli autori saranno stagisti pagati due euro a pezzo che non avranno il tempo di controllare, pero’ anche se pagati male e’ il loro lavoro ed ecco, lo fanno male).

Due esempi recenti.

Genova viene inspiegabilmente definita “città europea dei pappagalli” in quanto un tizio ha fotografato dei parrocchetti dal collare. Si scrive che Genova e’ “l’unica città europea” in cui sarebbero presenti questi comunissimi animali, quando praticamente sono ovunque, anche fuori dalla mia finestra belga mentre scrivo.

E ieri: un signore lombardo di tanto in tanto incontra una tartaruga nelle sue passeggiate in campagna e si e’ convinto che sia sempre la stessa. Addirittura che sia la stessa tartaruga da terra che gli regalarono nel 1956 quando aveva otto anni, perduta e miracolosamente ritrovata. Lo racconta ai giornalisti e quelli ovviamente ci credono, essendo questa la ricostruzione più sentimentale tra tutte quelle possibili. Peccato che quella fotografata e pubblicata dal giornalista sia una comune tartaruga d’acqua dolce che vive al massimo una trentina d’anni.

 

Ecco Sì, una delle cose che mi fa più ribrezzo in assoluto in questo momento storico è il rumore del deodorante spray che certe impiegate si spruzzano in orario di lavoro, al tavolo di lavoro, come se fosse normale.

Non mi fa ribrezzo l’autoconsapevolezza di puzzare – né l’ipotetica mancanza di igiene – quanto l’ignorare completamente le alternative più discrete, come un deodorante non spray che non produca il pssszzzzz nel silenzio, il non chiudersi un momento nel cesso se proprio se ne ha bisogno. Non è l’ipotetica puzza, ma proprio il fottersene delle alternative leggermente più plausibili.

– Hai capito se esiste la Grande Bellezza, poi?

– Penso che sia l’indimenticabile. La maggior parte delle cose tendono a svanire nella memoria. Ciò che resta impigliato, nel bene o nel male, ha a che fare con il bello della nostra vita.

(P. Sorrentino, ovviamente)