va bene così

Dice la mia capa spiandomi la faccia, stai sorridendo, non è così usuale vederti sorridere. Io che non avevo motivi per sorridere, sorridevo solo perché certe volte al lavoro mi sembra brutto mantenere una espressione neutra per troppe ore, allora prima di girare gli angoli in corridoio, o prima di entrare in una stanza, faccio le smorfie e monto su un mezzo sorriso. Non è usuale vederti sorridere – comunque, mi dice.

E il discorso finisce lì, anche se io volevo dirle No Aspetta, Parliamone. Io non ho voglia di sorridere la mattina appena arrivo, sai? Cioè, a volte succede, ma è raro. Molto più spesso non mi va. Anzi mi chiedo, mentre ticchetto sul computer, come si fa a ridere ogni mattina. A sghignazzare. Non mi da fastidio per niente. Fate fate pure, ma io mi chiedo come sia possibile. Anzi la domanda sarebbe un’altra. Anzi, non sarebbe neanche una domanda.

Sarebbe solo da dire: io Questo Sono. Cioè, mi togliessero questo broncio, non so cosa rimarrebbe. Mi togliessero tutte le cose che ho avuto con un broncio nella mia vita – la mia letteratura con il broncio, e la musica con il broncio, l’interesse per le persone con il broncio, la mia esistenza attorno all’adolescenza con il broncio, le mie prospettive con il broncio, tutto questo disseminato pure di momenti in cui invece ridevo – ecco, non so proprio dire cosa rimarrebbe.

nella nuova casa

Sono nella nuova casa. Ci sono tante (ma tante) cose da raccontare. Non adesso. Ho una finestra lunga cinque metri e una pianta enorme con le foglie enormi a forma di cuore ritagliato. Il giovane proprietario della camera – di cui già detto qui sotto – la chiama la sua “green girl”. Mi ha lasciato un bigliettino nella camera, mi ha scritto: prenditi cura della mia green girl, perfavore. C’è un piccolo annaffiatoio bianco che potrebbe essere stato di Cappuccetto Rosso, in un tempo lontano. Ho anche un televisore e le pareti della camera sono alternativamente bianche e arancioni. Una bianca e una arancione, una bianca e una arancione. I prossimi sei mesi saranno fra queste mura bianche e arancioni, per la mia casa numero… numero? Non me lo ricordo più.

ogni giorno che passa faccio la sottrazione

Ogni giorno che passa faccio la sottrazione fra tutti i motivi che ho per rimanere a lavorare qui, e tutti i motivi che avrei per non rimanere. Il risultato, cerco di fare in modo che sia ogni volta positivo. Questa si chiama ostinazione positiva. Scriviamolo sulla lavagnetta: Ostinazione Positiva. Così ogni volta poi decido di rimanere. Purtroppo credevo sarei venuto qui a fare chissà cosa, mi ritrovo a fare il burocrate segretario, con la prospettiva di diventare capo burocrate segretario. E la colpa alla fine è tutta mia che ho capito male, mica è loro, la colpa. La colpa è mia. Scriviamo sulla lavagnetta di chi è la colpa: mia. 

Ogni volta cerco di bilanciare la delusione e la disillusione e l’umiliazione con i lati positivi. Il punto è che ci sono tutta una serie di lati positivi che mi arrivano addosso che per adesso l’idea di mollare viene pesantemente respinta. Mi dispiace per il lettore ma da ora in poi ste pagine diverranno anche una specie di taccuino dove segnare tutti sti lati positivi, che da quando c’è il blogghe ho perso tanti quaderni e taccuini mentre il blogghe mica è di carta, quello è difficile perderlo. Il blogghe resta lì. Dunque, lati positivi:     

– Ieri mattina c’avevamo una riunione che io mi sono presentato col taccuino ma poi dopo tre minuti di discorso abbiamo finito per brindare con un bottiglione di champagne e il capo ha pure fatto un regalino stupido a tutti i presenti.

– Non devo timbrare alcun cartellino, entro ed esco più o meno quando mi pare. Non esco mai prima del dovuto per senso del dovere. Che bravo.

– Da un paio di giorni lavoro con l’ipod alle orecchie. Anche la mia capa fa così e pure la collega del tavolo avanti a destra. 

– C’è un gruppetto di persone che ogni giovedì lasciano tutte le carte sul tavolo, si infilano la tutina aderente ginnica e vanno a correre fra i boschi. Poi tornano con le guance rosse e ricominciano a lavorare. Con la tutina e le scarpette da corsa.  

– La città. Bella e rilassante. Gente con la faccia felice.   

  La città. Anche fosse brutta, non potrei mare tornare dove non sanno nemmeno raccogliere la spazzatura.

– A Bologna adesso sarei a distribuire cartoline oppure a fare il cameriere. 

– Pur volendo andare via: dove vado? Cosa faccio? Dove vado?  

– Essere costretti a svegliarsi presto la mattina che è ancora buio ti fa vedere le cose in modo diverso. Scegliere una direzione quando sei in vacanza per mesi che ti tiri dal letto a mezzogiorno è una cosa, scegliere una strada che devi tirarti su alle sette e lavorare tutto il giorno, è un’altra. E’ come se qualcuno ti prendesse per l’orecchio e ti dicesse: dai, su, scegli, fai, prendi una direzione, su’, fai presto, su’, veloce! 

E questo si chiama Bilancio Provvisorio.
E adesso da bravi, scriviamolo sulla lavagnetta: Bilancio Provvisorio.

ultimamente mi tiro su dal letto

Ultimamente mi tiro su dal letto che c’ho una porzione di cranio ricoperta di capelli ritti. Si drizzano solo da un lato – e generalmente questo lato cambia sempre – e non vogliono tornare giù. Devo passare la capoccia sotto il rubinetto dell’acqua calda, solo dal lato coi capelli rizzati. Questa operazione si chiama lo shampoo laterale, e l’ho inventato una settimana fa. Questo è l’elemento più tangibile dei miei sogni irrequieti e delle mie notti insonni.

Il pavone comincia a diventare un elemento preponderante di questo luogo. Il pavone davvero bussa alla finestra per farsi dare il pane. Il pavone davvero si ingozza con certi pezzi di pane che neanche il mio cane. Il verso del pavone – l’ho scoperto ieri mentre ero a colloquio con la mia capa – è un miao felino molto più acuto e stirato di quello del gatto. Ero di fronte alla mia Capa e all’improvviso da dietro la finestra: Miaoooooo!

Ora tu lettore diffidente dirai: eh, dici così per fare il simpatico, figurati se il pavone miagola. E invece No, giuro che è così. 

L’inquietudine di cui già detto qualche giorno fa resta inquietudine, però ci sto lavorando su. Gli elementi che mi aiutano in questo senso sono:

– La lenta costruzione di una Prospettiva. Sta cosa per adesso non la posso spiegare. Ci sto lavorando su, alla mia Prospettiva. Ci sono ricerche da fare sul webbe con la gola che si asciuga e la sensazione di averci la febbre. Ma ci sto lavorando su.
– Aver sbirciato quanti soldini riceve la mia Capa per una sola ora di consulto. Io a quella cifra non ci arrivavo neanche con tre settimane del caro vecchio lavoro di distributore di cartoline, e io sono il suo assistente, e queste son cose.
– La signorina.
– La consapevolezza che se non stringo i denti adesso, allora vuol dire che non valgo niente.

E comunque dalla regia mi avvertono che il pavone non miagola, bensì paupula.

seduto alla mia scrivania

Seduto alla mia scrivania – la scrivania che mi hanno assegnato al lavoro – guardo fuori la finestra un enorme pavone che mette il becco nel prato e un galletto con la coda rizzata che lo segue poco distante. Il pavone – mi viene da pensare – è proprio un uccello anni 80. Quelle piume, quei disegni. Avrebbe bisogno di un restyling ma è solo un uccello, purtroppo per lui.   

Al lavoro – perchè adesso abbiamo cominciato con sto benedetto lavoro – condivido la stanza con altri personaggi che perlopiù non ricordo come si chiamano, ché i primi giorni sono di assestamento e nelle prime ore già ti dicono tanti nomi che li dimentichi praticamente all’istante. Nella mia stanza c’è il fratello di James Blunt che se non è il fratello allora è il cugino, e un capetto con gli occhi a mandorla con un cervello da sette chili e mezzo che è sempre contento e lavora anche mentre mangia. C’è pure un italiano coetaneo e gentilissimo che se non fosse stato per lui, adesso non potrei usare neanche la posta sul computer. Per fargli percepire la mia gratitudine l’ho riaccompagnato a casa in macchina per evitargli la biciclettata di quindici chilometri nel freddo della madonna.   

Posso bere tanto caffè e tante tazze di the quante ne voglio, al lavoro, e nessuno protesterà mai perchè pare che sia un mio diritto. Ho pure una sedia comodissima che scivola con le rotelle. Se poi vogliamo parlare del lavoro, cosa dire del lavoro. Cosa dire. Qualche ora fa avevo un umore nerissimo che avrei voluto mollare tutto per vendere frittelle per strada, poi mi sono calmato. Poi di nuovo mi hanno infilato in una riunione che ho capito il 3% di quello che hanno detto ma non se ne è accorto nessuno, ché io sono bravo a sfoderare le facce interessate e concrete senza alcun fondamento. Poi all’uscita volevo di nuovo scappare piangendo col pavone sotto braccio. Poi però sono rimasto.     

Il destino degli indecisi in fondo è questo: se non sai scegliere un lavoro, è il lavoro che sceglie te, e a quel punto c’è solo da stringere i denti e tenere botta. Con l’espressione “tenere botta”  si capisce bene che io – seppure tanto terrone – ho vissuto tanti anni al nord. E questa ultima digressione è solo un artifizio stilistico per cambiare argomento all’improvviso ed evitare di cadere in considerazioni lacrimevoli. Fregati.  

2007 natale nel paesello

C’è troppa troppa gente che vedo solo a natale e pasqua, tutti questi anni da emigrante si fanno sentire. Troppa gente a cui stringo la mano due volte l’anno e ci conosciamo da sempre ma non sappiamo più cosa dirci. Cosa ci diciamo? Io non so cosa dire, certe volte sono bravo a riempire il vuoto con parole insignificanti e battute analcoliche ma poi ci guardiamo in silenzio, e finisce lì. E poi ci sono quelli che si sposano e fanno figli. Che si sono riprodotti. I tuoi coetanei che si riproducono. Con quelli che si sono riprodotti, parli del figlio. Cacca e pipì tutto bene? Dorme? Mangia? Per riempire il vuoto saresti capace di metterti a recitare una poesia di natale o a suonare Bianco Natale con le pernacchie.

Il Cuggino Rasta ha accorciato i rasta e i pezzi di rasta tagliati sono conservati in uno scatolo di telefono cellulare. Il Cuggino Rasta ha detto che una sua collega di lavoro – perché adesso il Cuggino lavora – che una sua collega gli suscita delle emozioni, ma che nel frattempo si tiene allenato con altre due o tre. Ha detto esattamente Tre ma io tendo a minimizzare sennò poi dice che esagero quando scrivo di lui. Il Piccolo è stato bocciato all’esame e ci pensa spesso, si ferma nel bel mezzo dei discorsi e ti dice: Mi hanno bocciato, ma ti rendi conto?  Il sabato sera in tutto il paesello non trovi nessuno, trentacinquemila abitanti e per strada non c’è nessuno. Nella piazza centrale siamo quattro pazzi che ci scrutiamo nelle palle degli occhi mentre un cane randagio miscellaneo scodinzola ai piedi di Billigiò, il quale prontamente risponde mollando uno scorreggione etilico che ci fa muovere tutti di venti metri, per riposizionarci in cerchio un po’ più distanti da questa hiroshima improvvisata e simpaticissima. In tutto il paesello ci sono più Mini bmw e Smart ForFour di tutta l’Olanda messa insieme. Colgo l’occasione per un caloroso augurio di buona natale e felice anno nuovo a tutti i possessori di Mini bmw e Smart ForFour del mondo ma soprattutto a quelli del mio paesello. Siete fortissimi, siete ricchissimi e bellissimi. E anche al possessore di sto enorme macchinone che ieri mi ostruiva il passaggio in una strada scassata. Qui a macchinazze chiccose siamo i primi e non ci batte nessuno.

Per la maggior parte del tempo ho un certo freddo e non mi va di vedere nessuno. Mi piace solo dar da mangiare ai pesci nell’acquario e grattarmi in un posto preciso del cranio che a parole non mi viene da descrivere. Cosa posso dire, i tempi sono questi. Ovviamente l’augurio di cui sopra è esteso – in una declinazione diversa – anche a tutti i palloni Wilson che passano da qui. Tante belle cose.

e l'avevo pure proposto io

E l’avevo pure proposto io, di andare a fare un giro fino in spiaggia, che io da bravo mediterronico dovevo vederlo per forza sto benedetto mare del nord, e poi poter pensare di aver spaccato l’europa in solitaria da parte a parte, vuoi mettere? Che poi arrivare in bicicletta fino alla spiaggia del mare del nord, succede che ti senti sopraffare dalla natura, dai cavalli che galoppano nei prati e dai torrenti di acqua verde che ci sono per davvero e non è che dico così tanto per impressionare gli impressionabili. E la spiaggia sconfinata e piatta che ti pare di essere, che ne so, a Malibu, anche se a Malibu non ci sei mai stato però hai visto tante puntate di Baywatch, e se trovi una spiaggia più chilometrica e più piatta di quella del tuo paesello – che comunque resta imbattibile sul colore dell’acqua – allora ti viene da pensare alle coste americane di quando David Hassellhoff era ancora una persona normale.

E comunque – senza girarci attorno –  nel silenzio che ti avvolge mentre pedali fra le dune di sabbia, cominci a pensare Ah la Natura, Ah i Cavalli liberi nei prati, Ah i torrenti di acqua verde, Ah gli Uccelli nel cielo. Poi nel silenzio più assoluto ovviamente succede che ti scivola via un piede dal pedale della bicicletta – e non sai perchè o percome – ti incastri nel telaio e fai un volo lento e rumoroso, tanto lento e tanto rumoroso che la ragazza che ti precede sullo stesso percorso fa in tempo a sentire i tuoi grugniti e una bestemmia in puro dialetto salentino – a cento metri dal mare del nord! – e a voltarsi per vederti lottare contro l’inevitabile, cincischiare un paio di secondi con il busto tutto davanti al manubrio e poi finalmente accartocciare sulla striscia di asfalto fra le dune di sabbia del mare del nord, che tu (e qui sta la morale della favola) giustamente se proprio devi fare una figura di merda ti piace scegliere le location più suggestive. E tu neanche hai posato il culo per terra che già ti viene da ridere.

ultimo gesto

Ultimo gesto prima di uscire da questa casa per sempre, ho tentato di sistemare la tapparella e non ci sono riuscito. Posso prendere questo avvenimento come simbolo sgangherato della mia esistenza in questa città. La mia vita in questa città si conclude con una tapparella rotta, un leggero abuso di succo d’arancia e due cucchiaini da lavare in cucina.  

Bologna ha dei colori che mi lasceranno per sempre stupito. Tonalità di giallo del sole che si infila fra i portici ed illumina le pareti lercie. E  tante facce speranzose che perdono l’ingenuità della matricola con il passare del tempo, i denti diventano rossi per il vino e la malizia viene coltivata negli sguardi. Odore di copisteria e di smog sparato in faccia aspettando l’omino verde al semaforo. Odore di pizza al taglio, che quando si fa primavera invade le strade con più prepotenza. I nordafricani che ti offrono la droga. La ruota sgonfia della bicicletta. Le palle di polvere nel corridoio.     

E l’ansia che non ce la fa ad arrivare, ne vogliamo parlare?     

C’è un posto nel cervello – voi non lo sapete, ve lo spiego io – che è la stanza dell’ansia. Sulla porta c’è proprio il cartellino: Stanza dell’Ansia. Bisogna entrarci. Appena fuori dalla porta della mia stanza ci sono tutti i ricordi che aspettano di entrare, una massa enorme di ricordi legati all’esistenza in questa città. Una massa così enorme e ingombrante che non riesce a passare attraverso la porta perchè è troppo stretta. Se l’enorme massa riuscisse ad entrare, la stanza dell’ansia potrebbe scoppiare. Col passare del tempo, la massa di ricordi si sgretolerà e i pezzetti – uno per volta – entreranno nella stanza a provocare struggimenti saltuari. Tric e Trac nella mia serenità, chissà quando e chissà dove.

Adesso stampo queste righe e me le rileggo di fronte allo specchio, tanto per chiarirmi in largo anticipo.  Domani sarà Germania, dopodomani si arriva finalmente nel Paese Basso.

ma quante lavatrici

Ma quante lavatrici avrò caricato da quando vivo qui? Non lo so, migliaia? Migliaia. 

Poi il senso di precarietà e di stare andando via lo avverti quando caricando la lavatrice per l’ultima volta calcoli se i pantaloni ce la faranno ad asciugarsi prima di doverli mettere in valigia. Ma quante volte avrò messo ad asciugare i pantaloni da quando sono arrivato in questa casa? Non lo so, migliaia? Migliaia.   

Avevo 19 anni. 

Devi averci il sangue freddo – ma davvero freddo – a svuotare i cassetti ripieni di carte e fotografie e cartoline e elastici per capelli e monete da 100 lire. Serve la freddezza del killer a decidere cosa buttare e cosa No, e nei primi momenti continuare a pensare Questo No, Questo No, Questo No, per poi capire che non puoi andare avanti così, e fare un grosso mucchio – tappare il naso della tua coscienza sentimentale – e gettare tutto nella spazzatura.

Qui si gettano cose ingiallite nella spazzatura. 

E con il coinquilino Billigiò, aver vissuto otto anni insieme, finisce che una persona la riconosci dal rumore dei passi, come i cani. Se ci pensi in otto anni fai in tempo a far nascere un bambino e farlo crescere fino all’età in cui potrebbe addirittura essere capace di leggere queste righe.  

Vabbè, non proprio queste righe – che queste mie righe non le capisco nemmeno io – ma diciamo in generale delle righe qualsiasi. 

Questo mood da omelia di funerale finirà presto, abbiate pazienza.

già so che a scrivere queste righe

Già so che a scrivere queste righe, farò una foto di me stesso che di sicuro avrò voglia di tornare a curiosare nei tempi a venire, quando non so ancora se il blogghe esisterà ancora, quando forse avrò una faccia diversa e pensieri diversi.

E allora voglio ricordarmi che oggi ero un ragazzo con una felicità intermittente, con le mani che tremano per notizie in arrivo e una storia da raccontare. Quindi mi rivolgo al me stesso di domani e gli dico: sappi che oggi eri felice e tremante, e che hai passato la scopa a tirar via la polvere dal pavimento del corridoio, e che hai un letto con le lenzuola disfatte e un paio di scarpe troppo consumate ai piedi per il tanto camminare, e una foto sulla scrivania di una persona a cui vuoi bene. Oggi c’eri tu, le tue ansie ondulatorie e le cose che hai fatto negli anni per arrivare fino a qui, tutte appiccicate sulla faccia a lasciarti un odore che a volte è forte e a volte meno, e alcune piccole cicatrici asfaltate dal passare del tempo. Oggi sei contento di te stesso – anche questo lo pensi in modo ondulatorio e incerto – e ti abbracci con questa consapevolezza come fosse una compagna di strada che comunque resterà sempre lì a gioronzolarti attorno.

Due giorni fa sei stato in un Paese pieno di biciclette e canali d’acqua, sei sceso dall’aereo appallotolando il quotidiano che ti raccontava tutte le schifezze della tua nazione. Lo hai lasciato sul sedile per farlo portare via alle hostess bionde e corpulente. Hai visto cose, potresti spendere qualche parola in più per spiegarti meglio, ma la sostanza è che hai visto cose. Hai visto strade con quasi nessun lussuoso macchinone, molti meno di quanti ne vedresti in mezzora passeggiando nel tuo paesello, e hai parlato con persone disponibili al punto da farti vergognare. Hai avuto parole di incoraggiamento senza chiedere nulla, e hai visto coppie di anziani tenersi per mano, e giovani biondi che avevano già un pargolo da sistemare sul seggiolino della bici. 

Ma senza girarci troppo attorno, la cosa è questa.

La cosa è che tra poco qui si lascia tutto e si va via. C’è da fare tanti pacchetti e caricare la macchina, poi dire ciao a Bologna e salire su in Olanda dove ti aspetta un lavoro, e felicità intermittenti e ansie ondulatorie proprio come hai fatto fino a qui. Ci sono cose da  fare e cose per cui preoccuparsi, e tanto vento in faccia da prendere.

La cosa – signorimiei – è questa, e adesso qui si comincia a cercare la corda da tirare per far scorrere il tendone rosso sul palcoscenico.

molto bello

Molto bello fare lo schiavo di notte in un centro commerciale, molto bello, davvero. Ravanare fra gli scatoli di calzini per bimbi “da sei mesi ad un anno” per sette ore consecutive, tornare a casa che sono le cinque di mattina. Molto belli i centri commerciali, sono proprio dei luoghi finissimi, con queste finte palme altissime posizionate al centro di piazzette lastricate col marmo lucido, con automobili fresche di concessionaria piazzate a caso lungo i percorsi, e i clienti dai capelli ingelatinati che sbavano sbriciando attraverso i finestrini. E certi armadi che passeggiano tenendo per mano giovani femmine taccute e pericolanti, masticando chewing gum coi perizomi che sbucano dal bordo dei jeans, mentre indicano attraverso le vetrine certi prodotti griffati che non cito.

Sulla notte trascorsa in quel luogo, poco da dire. I miei colleghi erano un orso Baloo scienziato politico laureato dieci anni fa, un tizio smilzo e tabagista, una muflona femmina taciturna e scura. Il capo, un milanese che mi ha fatto capire che se voglio anche io posso sembrare milanese, dicendo cose del tipo PrAndi La MaGliAtta, Passami La PinzAtta, Portami La MacchinAtta.  

Tutta una serie di incentivi alla tristezza che non hanno avuto alcun effetto. Ormai qui scivola tutto addosso come se fosse niente. E’ tutta acqua fresca e polvere sollevata dal vento.

Tutto scivola via, perfino Bill Corgan che dalle casse gracchianti del negozio canta We Must Never Be Apart mentre faccio il conto delle gonnelline per bambina appese davanti a me. Che voglio vedervi a voi, al momento dell’assolo di sta canzone, a contare gonnelline nella notte a cento chilometri dal letto.

Anche i romanzi di Bukowski erano pieni di esperienze lavorative grame con chiari riferimenti autobiografici, però se poi non arrivano pubblicazioni e fama internazionale a pareggiare i conti, ecco, non ne vale la pena.

questa mattina/mi son svegliato

Il mio scintillante ingresso nel mondo del lavoro si fa sempre più scintillante, e ogni giorno si arricchisce di nuove scintille che brillano, e a forza di scintillare e scintillare è assai probabile che presto io prenda fuoco. Stamattina scintillante colloquio per uno di quei lavori da schiavo che solo io sono capace di scovare.

Apro gli occhi 18 minuti prima dell’ora stabilita con uno strepitoso mal di testa – perchè ieri tanta gente qui in casa fino a notte fonda a festeggiare il compleanno di Billigiò ed io non ci sono più abituato – ma nonostante l’orario riesco ugualmente ad arrivare in tempo all’appuntamento. Miracolo. La mattina uno si sveglia e fa le sue cose, giusto? Per farle tutte in meno di 6 minuti è ovvio che  queste cose non si posson fare una dietro l’altra, ma sarai costretto a farle in contemporanea, giusto? Io adesso non dico Cosa e Come, ma dico solo per star dentro ai 6 minuti ho fatto colazione in bagno. Il Cosa e il Come, sarà per un’altra volta. 

Gli aspiranti a questi lavori da schiavo che solo io sono capace di scovare, sono generalmente disperati sfasciati e con qualche evidente menomazione fisica o mentale. Generalmente. Questa volta, invece, nell’auletta erano tutte persone quasi normali. Dopo un breve test scritto che serviva a dimostrare che tutti i presenti fossero in grado di fare SeiPerOttoQuarantotto ma soprattutto TrePerCinqueQuindici (e non scherzo) una femmina di Barbapapà ci ha descritto il lavoro, e cioè che saremmo stati arruolati per contare tutte le scatole e le confezioni sugli scaffali dei centri commerciali. Un lavoro da svolgere di notte (fino alle tre, alle cinque, all’alba, chi lo sa) con un macchinino in mano capace di misurare in ogni momento la tua produttività, con una pausa di 15 minuti ogni quattro ore ( e che se la fai durare di più il macchinino fa la spia e sei fregato perchè ti fanno la multa sui tre soldi che ti vogliono dare). Contratto che dura un giorno: tu arrivi, firmi e sei assunto. Poi all’alba ti licenziano e ti riassumono il giorno dopo. Una di quelle cose che ora quando sentirò parlare di precariato alla tivvù potrò annuire pure io con faccia grave e smunta, in sincrono con tutti gli altri precari, ognuno da casa sua. Che io non vedevo l’ora di smetterla di considerarmi un privilegiato mentre i politici urlavano in tivvù, e volevo tanto annuire e sospirare pure io.   

Io in realtà volevo parlare della caporale Barbapapà, di come in questo mondo post post post industriale sono le macchine che serviranno veramente, e non le persone. E le persone – per trovare un posto al sole – dovranno sempre più somigliare alle macchine. E di come sarà tutto un casino quando tutti questi ragazzotti che pullulano per le strade di Bologna saranno espulsi dal grembo universitario, loro che si sentono tutti artisti e tutti credono di avere qualcosa da dire. Che io mi adatto pure a far schifezze, in fondo, ma là fuori sono le macchine che davvero servono. Venditrici col sorriso di plexigas e qualche impiegato ingegnere, che poi è come dire quasi-macchine che vanno avanti per atti respiratori.   

Sto esagerando.

Comunque, qualche disclaimer tanto per chiarirsi:

– non sono contrario a priori al lavoro precario.

– non sono un lamentoso come può sembrare, questa è solo catarsi.
– non sono contrario a priori ai barbapapà. 
– vorrei approfondire l’argomento Precariato ma qui c’è l’amico Bollo che racconta degli spezzatini di carne di balena cucinati in Norvegia che hanno un retrogusto dolciastro. 

Il test del SeiPerOttoQuarantotto lo abbiamo superato tutti: solo un tipo ce l’ha fatta ma poi hanno mischiato le carte ed hanno fatto finta che Sì.