e lo so che non ha molto senso

Quando si dice che bisogna riformare la legislazione sul lavoro per renderla attuale e in grado di affrontare le dinamiche contemporanee, il sottoscritto involontariamente mette la propria esperienza al centro del mondo e pensa che – ancora prima dell’articolo 18 – un diritto fondamentale di tutti i lavoratori dovrebbe essere quello di poter ascoltare della musica in cuffia durante l’orario di lavoro.

E lo so che non ha molto senso ma ci sono certi pomeriggi senza niente di piacevole fuori dalla finestra, e con poche prospettive per il resto della giornata, dei pomeriggi nei quali avere in cuffia la musica che vuoi al volume che vuoi diventa l’unica ancora di salvezza, l’unico modo per renderti sopportabile la cosa.

E se invece al contrario fuori dalla finestra c’è quello che vuoi e sei contento di quello che farai dopo aver finito – e magari sei pure contento di quello che stai facendo – in questi momenti, senza la musica che vuoi al volume che vuoi, potrai benissimo essere felice: ma solo fino ad un certo punto. Se invece vuoi essere felice ulteriormente e irrazionalmente, allora in certi pomeriggi seduto alla scrivania di fronte ad uno schermo potrai esserlo solo grazie alla musica. E questi momenti di felicità ulteriore e irrazionale dovrebbero – io credo, ed io lo farei fossi il capo indiscusso del mondo – essere garantiti per legge infrangibile e imperitura.

cosa faccio in una giornata

Cosa faccio in una giornata, devo prenderne appunti.

 

Siedo al mio tavolo al lavoro, parlo al telefono con gente lontanissima, mi accorgo che è normale giocare con la penna e accavallare le gambe quando si parla al telefono. Faccio una presentazione che poi la gente ne è contenta. Quattro delle persone che mi ascoltano poi verso sera saranno in tre nazioni diverse.

 

Prendo appuntamenti per andare a Londra. Mangio cioccolata. Verso sera ascolto uno scrittore che dovrebbe parlare del suo libro, parla invece di se stesso e fa battute che non fanno ridere: possibile che non se ne renda conto? Bevo vino piemontese per dimenticarlo, poi bevo vino salentino.

 

Poi più tardi a casa mi piace la luce che mi arriva sulle mani mentre cucino. Bevo vino francese, adesso. E poi guardo happythankyoumoreplease, che si scrive così, tutto attaccato.

 

In questo film ci sono io e c'è tanta gente che conosco: molto di quello che ho visto, che vorrei vedere e che non sarà mai. Ah quanto mi piace questo dolorino piccolo sotterraneo che mi viene da questa consapevolezza. Film che lo apprezzi se sei pastafrolla come me, ma che vorrei mettere qui in piazza e inviterei pure chi legge a guardarlo. Ci metto anche il link mariuolo guarda, che non dovrei, ma voglio proprio metterlo in piazza. L'attore principale è poi pure il regista e pure colui che lo ha scritto, il film.

 

Ad un certo punto lui viene spinto nella macchina della polizia e dice al bambino al suo fianco, che forse non rivedrà più: vorrei che tu leggessi tanti libri, promettimelo – e vorrei che continuassi a disegnare, promettimelo – tra vent'anni verrò ad una tua mostra. Il bambino risponde Sì.

 

Nella prossima vita voglio fare l'organizzatore del Sundance Film Festival.  
 

e quindi la domanda era

E quindi la domanda era:

 

Dovrei correre via e buttarmi a bocca aperta su di un prato? Addomesticare una zebra e girare i paesini suonando un campanaccio colorato di rosa? Scrivere poesie appoggiato sulle cassette della frutta con indosso un saio e una collana di cipolle? A questo punto mi rispondo di No. 

 

E perché?

La risposta è troppo semplice: perché vivo in questo mondo. E in questo mondo dove vivo, la gente lavora più o meno ogni giorno. Non è conformismo. È per vivere in questo mondo. Lasciamo perdere per un momento che esiste il bisogno di farlo. La gente lavora, e respira i luoghi di lavoro, le metropolitane e gli aeroporti e i bar per prendere un panino e le storie dei colleghi che chissà da dove cazzo vengono. Ve la immaginate la solitudine del figlio del Sultano del Brunei? Non è bla bla bla, dico seriamente: ve la immaginate? Lui che si sveglia la mattina e c'è un mondo intorno a lui che lavora –insomma, la gente normale – e lui No. Ci sono i film, le canzoni e i libri che parlano di gente normale e lui No, non è normale. Lui è escluso dai suoi milioni. 

 

Ah ma è facile dire che non vuoi essere il figlio del Sultano del Brunei, visto che non PUOI essere il figlio del sultano del Brunei. Si ok, ma ci sono tanti modi per escludersi dalla società. Per esempio una si può fare suora. O scegliere un lavoro di pochissima responsabilità. O fare l'eremita. O scegliere piccoli gruppi di opposizione sterile e autoreferenziale. 

 

Ma è un mondo capitalista di merda!

 

Forse Sì. Non lo so. In ogni caso non ho vissuto in altri mondi per fare il confronto. In ogni caso, se quello che vedo non mi piace, posso cambiare i tre metri quadrati intorno a me. Li posso addolcire. Li posso avvicinare per quanto possibile alla mia idea di mondo non-di-merda. Se poi riesco a crescere – in questo ipotetico mondo capitalista di merda – i tre metri diventano dieci, e poi venti e poi eccetera. Tutto in funzione di quanto vale la mia voce. Se invece dico: questo è un mondo capitalista di merda, e mi rifiuto di scenderne a patti, ecco lui andrà avanti anche senza di te. Quindi – in ogni caso – sempre meglio essere dentro che essere fuori.

 

Non avessi sti tre decimi di febbre, giuro, mi spiegherei meglio.

ultimo giorno di lavoro

Ultimo giorno di lavoro dopo tre anni, tre mesi, ventisei giorni.

 

Ci sono arrivato abbronzato per il sole del Salento preso in faccia di proposito, per presentarmi abbronzato all’ultimo giorno di lavoro. Come gli scemi che vanno nei posti esotici e lo vogliono far notare. Camicia che non mi hanno mai visto addosso (perche’ fra colleghi ci si impara i guardaroba a vicenda) anche questa di proposito, affinche’ vedano qualcuno che prima non hanno mai visto. Al polso un bracciale brutto che pero’ da qualche anno metto quando sono in vacanza.

 

In realta’ sarei tornato dalle vacanze ieri, lo indosso oggi che e’ l’ultimo giorno di lavoro. Compro chili di torte costose da pasticcerie incredibili, e lo faccio per il piacere di farlo ma anche perche’ i barbari sono tirchi e quando tocca a loro portano le cose piu’ economiche che trovano al supermercato, coi prezzi ancora attaccati (in realta’ sta ripicca tutta mia la porto avanti da sempre, non solo ora che e’ l’ultimo giorno).

 

Cosa dire di questi tre anni? Che e’ meglio averli fatti ma – come moltissime scelte nella mia vita – se avessi fatto altro sarebbe stato meglio. Mi trovo sempre nella posizione di notare che mi sarebbe potuto andare peggio (guardando in giu’) o mi sarebbe potuto andare meglio (guardando in su’). Pensa a chi sta peggio di te, dicono i saggi. Dice la mamma quando non mangi. Pensa a chi muore di fame. Nell’invito via email per la torta volevo scrivere “etc etc….we survived to each other etc etc…” ma poi ho sottoposto il testo alla stagista che c’ho di fianco e non ha capito l’ironia, ho lasciato perdere.    

andrebbe pure detto che

Andrebbe pure detto che licenziarsi non significa dire Affanculo me ne vado come nei film, sbattere la porta come nei film, uscire di scena con una musica rombante come nei film. Qui sulla terraferma e in questo momento storico, licenziarsi significa semplicemente chiamare da parte i tuoi capi e pronunciare qualcosa del tipo: Ah, lo sai? Fra poco me ne vo.

 

Significa farglielo sapere e quindi entrare in una fase ectoplasmica dove sei un dead man walking che ci sei ma solo fisicamente, perche’ in realta’ non ci sei, oppure ci sei ma chi se ne frega. Passi le giornate a fare niente. Non sbatto le porte e non brandisco diti indice nell’aria solo perche’ voglio “abbastanza” bene a tutti i compari che ho nell’ufficio. Percio’ quello che dico, preferisco dirlo sorridendo.

 

Fra le reazioni collezionate al mio annuncio:

 

Il sottoscritto: Ah lo sai? Fra poco me ne vo

Capo Supremo: Ohhh, it’s a pity…  

Il sottoscritto (ridendo, e intuendo la frase di circostanza): Oh, come on! (traducibile con un Ma Fammi il Piacere)

Capo Supremo ride con me della sua esagerazione.

 

Capo Supremo (c'e' gente attorno, mi indica con gli occhi): E quindi Rafeli se ne va!  

Collega (con tono sinceramente affettuoso): You Little Bastard! 

Il Sottoscritto (che preferisce il You Bastard all It’s A Pity): …. (allargando le braccia)… 

 

Poi dopo c’e’ il solito gioco nel corridoio dove io la stendo sul pavimento, le sfilo le scarpe e le lancio fuori dalla finestra. 

lezioni

Riferendosi a questo post in cui spiego i miei atteggiamenti telefonici con i recruiter, Franz mi scrive in chat:

 

Franz: oggi mi ha chiamato una per un colloquio di lavoro. mi trovavo in bagno. mi fa "le va bene martedi alle 2?". io temporeggio guardando i tasti della lavatrice. poi dico "si". Raffaello docet!

 

Bravo, hai imparato la lezione. Tranne per quel "raffaello" per cui potrei uccidere.

al telefono

"Ciao Raffaele come va? Puoi parlare adesso?”

Lei è una recruiter barbara però dal nome esotico che in italiano sarebbe un anfibio, per cui la chiameremo Anfibia.

“Sono Anfibia, puoi parlare adesso? Avrei un'offerta per te.”

Ultimamente ho molto spesso a che fare con i recruiter. Tipo almeno uno al giorno. La faccio attendere qualche istante. Sto leggendo sul corriere online che averci il computer sulle ginocchia fa diminuire la fertilità. Faccio finta di essere occupato.

“Un momento, eh. Mmmhh.”

“Se non va bene richiamo, eh."
Clicco a caso con il mouse per fare rumore.

“Un momento. No è ok, possiamo parlare.”

Chiudo la finestra del Corriere online.

“E insomma ci sarebbe sta posizione etc etc. Ti interessa?”

“Mah non saprei….”

Riapro il Corriere online. La scarsa fertilità era data anche dai jeans troppo stretti, mi pare di ricordare.

“Guarda No. Sai Anfibia, avevo visto il tuo nome per altre offerte di lavoro che mi sarebbero interessate. Però richiedevano una perfetta conoscenza della lingua barbara e allora ho lasciato perdere.”

Pure I jeans troppo larghi causano infertilità. E pure il telefono in tasca. Praticamente tutto causa infertilità. Si dovrebbe andare in giro con il coso di fuori, per stare sicuri.

In che senso hai lasciato perdere?”

“Non ti chiamato”

“Ma noo! Non dovevi farlo!”

Intanto, urla in sottofondo, dalla sua parte.

“Ok non parli il barbaro, ma cosa significa? Vedi, uno scrive le cose che vorrebbe, non le cose che poi si aspetta davvero. Capisci?”

“Mbah.”

“È come se tu vuoi una ragazza, no? La vorresti che sa ragionare, cucinare, raccontare storie, cantare e pure bellissima. Però poi la realtà è diversa.”

Anfibia, tu mi poni queste questioni, il mio cervello prende il deltaplano e vola su prati verdi e immensi, e osserva ruscelli delimitati da pietre liscie foglie larghe di piante calpestati da cavalli pezzati e…

“Capito?”

Torno in me.

“Ok, ho capito. La prossima volta rispondo.”

Urla in sottofondo. Qualcuno sta sbattendo ritmicamente contro qualcosa.

“Tutto bene Anfibia?”

“Benissimo. Non ti preoccupare. Sono riusciti a piazzare uno in un posto, e festeggiano.”

“Ah”

“Vabè allora pensa a quello che ti ho detto, ok?”

“Ok”

“Ti richiamo domani.”

 

Non ho inventato nulla. Anzi Sì: il nome.

ci sono sti cacciatori di teste

Ci sono sti cacciatori di teste che ti chiamano al lavoro per sapere se vuoi un altro lavoro – questo sarebbe uno dei vantaggi di vivere in un paese barbaro ma prospero e fare lavori non esaltanti, come sarebbe stato per me se avessi fatto il veterinario che salva i cavalli sul dirupo come nella pubblicità dell'averna.

 

Ci sono insomma sti cacciatori di teste che cacciano la mia testa e poi ci sono io che rispondo al telefono impostando la voce e lasciando vuoti di silenzio come se pensassi a complessità, quando invece mi gratto il polpaccio e mi accorgo che mi sono infilato due calzini di colore uguale mi di lunghezze troppo diverse.

 

Ci sono sti cacciatori che poi ad un certo punto ti chiedono quanto vuoi, e tu che conosci il mercato spari cifre assurde, enormi, e loro però non si scompongono: lo ritengono normale. E poi ci sei tu che hai sparato la cifra assurda che loro ritengono normale, ci sei tu che ti guardi allo specchio del bagno e  nel riflesso ci vedi un cetriolo, e come fanno a dire di Sì ad un cetriolo del genere, ti chiedi. Ad un cetriolo.

 

Questo si chiama essere (ancora) giovani.

insistendo sugli stessi argomenti

Volevasi segnalare questa lettera di un giovane ingegnere a Italians di Severgnini che esprime piu’ o meno sto concetto: e’ vero che tanti giuovani non trovano lavoro, pero’ quelli che all’universita’ si sono fatti il mazzo quadrato in materie complicate, oggi lavorano tutti. Leggo e ci penso: e’ vero? E’ vero. Tutti quelli che conosco che non studiavano "robe semplici" e che soprattutto sanguinavano tantissimo sui libri, adesso un lavoro ce l’hanno. Pero’ poi subito dopo ritorno al concetto di qualche giorno fa, e cioe’….un ingegnere quadratissimo, che studia al Politecnico difficilissimo, che di conseguenza e’ precisissimo e professionalissimo, trova lavoro con discreta facilita’. Pero’ non lo so, mi resta in bocca la mancanza di quadratura del cerchio. Voglio dire, se "fatte non foste per viver come bruti", credo anche che "fatti non foste" (creati, evoluti lungo i millenni, etc etc) per diventare professionalissimi con la cravatta. Non lo so, nell’ipotetico quadro dell’evoluzione sta figura del professionista cazzutissimo non mi pare una svolta verso l’alto, ma proprio per niente.

uno dei problemi principali

Uno dei problemi principali del lavorare, per quanto mi riguarda, e’ che riesci tanto meglio quanto piu’ costringi tutta la tua personalita’ dentro recinti di schiene dritte, saluti standardizzati, battute contenute. La considerazione che si fanno gli altri di te e’ proporzionale a quanto sei capace di restare discreto e contenuto. Certo, e poi quanto sei bravo e veloce sul lavoro eccetera eccetera. Ma l’apparenza conta perlomeno la meta’. Contano i risultati, ma conta pure se indossavi una camicia stirata, mentre raggiungevi quei risultati. Per il me stesso di oggi questo e’ abbastanza difficile, perche’ per me la vita sta tutta compressa proprio in quelle sbavature che non dovrebbero esserci, e che invece ci sono. Nelle osservazioni che ti vengono all’improvviso e che collegano cose che non c’entrano niente, e che pero’ dimostrano che c’hai uno sbriccicolio da qualche parte nel cervello che fa le capriole.

per esempio

Qui fuori un prato verde e morbido come un tappeto di lana. Posso lasciare la mia scrivania del lavoro e andarci quando voglio. Per esempio poco fa, volevo. Quando c’è il sole – e oggi c’è tanto sole – ti pare la temperature perfetta, progettata appositamente per l’essere umano in salute e in pace con se stesso e con il mondo. Un luogo che ti andrebbe bene sempre e comunque. I pavoni vengono a mangiare il pane dalle mani: visti da vicino ti paiono di plastica, con quel collo blu elettrico e la corona sulla testa. 

Il ricordo si costruisce sui particolari, riflettevo coi piedi nel prato morbido come un grosso tappeto di lana, sono i particolari che ti sono rimasti di tutto quello che hai fatto fino ad ora, e sono sempre i particolari che resteranno nei tempi avvenire. Questa massima di saggezza, se vogliamo applicarla alla condizione attuale, mi fa capire che un giorno quello che mi ricorderò saranno questi pavoni, sarà il prato con le colline che ho davanti agli occhi per otto ore al giorno, i coniglietti che zompettano sulle colline (i coniglietti, signorimei, pure i coniglietti, che nemmeno in una puntata dei teletubbies ci trovi tutte ste cosette carine assieme). E poi partite di calcetto che vengono improvvisate in ufficio e nei corridoi con un pallino giallo che per poco durante un calcio di rigore non frantumavo una delle finestre. La mia collega che tira certe bombe con i suoi stivali a punta che ti ha fatto goal facendoti passare la palla tra le gambe già più di una volta. 

Vado a farmi un caffè di quelli che pubblicizzava giorgio clooney e poi vado via, passo in piscina e mi chiedono solo due euri e cinquanta per un ingresso. Poi dal benzinaio un poliziotto nero si avvicina alla mia auto e mi chiede cosa significa la sigla della provincia sulla mia targa, io glielo spiego cosa significa quella “Le”, lui si fa una risata e mi augura solo buona serata. Un’altra volta un poliziotto mi ha fermato al centro di una piazza per dirmi che avevo lasciato la cerniera dello zaino aperta, e che così rischiavo di perdere le mie cose. E tutte ste cose, tutte ste facilità, tutto questo poter vivere facilmente, ti fanno venire in mente certi pensieri che rimando alla prossima puntata.

–continua–

la prassi ogni mattina

La prassi ogni mattina è uscire di casa che il cielo è ancora tutto nero, e poi fare la mia mezzora di strada cantando le canzoni dei Travis con ampi sbracciamenti che prontamente si interrompono ai semafori per timore del giudizio altrui. Certe mattine poi giungo al lavoro che ho un calamento di palpebra coatto, un fenomeno così coatto e irresistibile, una cosa che non ci posso fare nulla ma sento la palpebra che mi scende e vorrei avere a disposizione quello strumentino perverso di Arancia Meccanica che ti tiene gli occhi aperti contro la tua volontà.

Questo problema della palpebra che crolla possiamo pure scherzarci sopra ma di fatto è un problema serissimo, anche se limitato alla prima ora, ora e mezza della giornata. Ci sono mattine che arrivo con certe palpebre di due chili l’una e vengo messo al centro di discussioni interessantissime su cose incomprensibili tipo il documento che si è perso, la firma che manca. Io davvero ci metto tutto l’impegno che posso, mi mordo la lingua per stare sveglio, mi do pizzicotti fortissimi sulle cosce.  Che poi il problema non è tanto stare sveglio, il problema vero sarebbero le palpebre, perchè a restare sveglio io sarei pure capace. Il problema sono le palpebre da due chili l’una: se non fosse scandaloso mi piacerebbe davvero poter seguire tutte queste interessanti discussioni con gli occhi chiusi facendo Sì Sì con la testa, come fanno certi preti quando ascoltano le confessioni dei fedeli. Sì Sì, certo certo. Sì Sì. Il problema poi è che a fare la faccia interessata e rilassata, diventa più difficile tenere le palpebre sollevate. Il problema è che mi trovo costretto a fare delle facce preoccupate, perplesse, una di quelle facce che devi aggrottare la fronte, perchè ho scoperto che in questo modo ci sono una serie di muscoli facciali in contrazione che ti permettono di tenere la palpebra sollevata come un impalcatura.  

Vabbè.
Poi cos’altro.

Non voglio che cade il governo.

Billigiò mi informa di un nostro conoscente che è entrato nella casa del grande fratello.

Poco fa al supermercato ho incontrato il sosia di Benicio del Toro e uno squatter scalzo e in cannottiera con la cresta fucsia. Io ho comprato le patate già tagliate per il forno e una cosa melmosa e gialla che non so cosa sia. L’attuale politica nel fare la spesa è questa: mi permetto un venti percento di sperimentazione sul totale e poi come va, va.

Speriamo che va.

Che poi mi chiedo se i preti che parlano con gli occhi chiusi gli ho incontrati solo io o se è un fenomeno comune.

Speriamo che va.

ogni giorno che passa faccio la sottrazione

Ogni giorno che passa faccio la sottrazione fra tutti i motivi che ho per rimanere a lavorare qui, e tutti i motivi che avrei per non rimanere. Il risultato, cerco di fare in modo che sia ogni volta positivo. Questa si chiama ostinazione positiva. Scriviamolo sulla lavagnetta: Ostinazione Positiva. Così ogni volta poi decido di rimanere. Purtroppo credevo sarei venuto qui a fare chissà cosa, mi ritrovo a fare il burocrate segretario, con la prospettiva di diventare capo burocrate segretario. E la colpa alla fine è tutta mia che ho capito male, mica è loro, la colpa. La colpa è mia. Scriviamo sulla lavagnetta di chi è la colpa: mia. 

Ogni volta cerco di bilanciare la delusione e la disillusione e l’umiliazione con i lati positivi. Il punto è che ci sono tutta una serie di lati positivi che mi arrivano addosso che per adesso l’idea di mollare viene pesantemente respinta. Mi dispiace per il lettore ma da ora in poi ste pagine diverranno anche una specie di taccuino dove segnare tutti sti lati positivi, che da quando c’è il blogghe ho perso tanti quaderni e taccuini mentre il blogghe mica è di carta, quello è difficile perderlo. Il blogghe resta lì. Dunque, lati positivi:     

– Ieri mattina c’avevamo una riunione che io mi sono presentato col taccuino ma poi dopo tre minuti di discorso abbiamo finito per brindare con un bottiglione di champagne e il capo ha pure fatto un regalino stupido a tutti i presenti.

– Non devo timbrare alcun cartellino, entro ed esco più o meno quando mi pare. Non esco mai prima del dovuto per senso del dovere. Che bravo.

– Da un paio di giorni lavoro con l’ipod alle orecchie. Anche la mia capa fa così e pure la collega del tavolo avanti a destra. 

– C’è un gruppetto di persone che ogni giovedì lasciano tutte le carte sul tavolo, si infilano la tutina aderente ginnica e vanno a correre fra i boschi. Poi tornano con le guance rosse e ricominciano a lavorare. Con la tutina e le scarpette da corsa.  

– La città. Bella e rilassante. Gente con la faccia felice.   

  La città. Anche fosse brutta, non potrei mare tornare dove non sanno nemmeno raccogliere la spazzatura.

– A Bologna adesso sarei a distribuire cartoline oppure a fare il cameriere. 

– Pur volendo andare via: dove vado? Cosa faccio? Dove vado?  

– Essere costretti a svegliarsi presto la mattina che è ancora buio ti fa vedere le cose in modo diverso. Scegliere una direzione quando sei in vacanza per mesi che ti tiri dal letto a mezzogiorno è una cosa, scegliere una strada che devi tirarti su alle sette e lavorare tutto il giorno, è un’altra. E’ come se qualcuno ti prendesse per l’orecchio e ti dicesse: dai, su, scegli, fai, prendi una direzione, su’, fai presto, su’, veloce! 

E questo si chiama Bilancio Provvisorio.
E adesso da bravi, scriviamolo sulla lavagnetta: Bilancio Provvisorio.

ultimamente mi tiro su dal letto

Ultimamente mi tiro su dal letto che c’ho una porzione di cranio ricoperta di capelli ritti. Si drizzano solo da un lato – e generalmente questo lato cambia sempre – e non vogliono tornare giù. Devo passare la capoccia sotto il rubinetto dell’acqua calda, solo dal lato coi capelli rizzati. Questa operazione si chiama lo shampoo laterale, e l’ho inventato una settimana fa. Questo è l’elemento più tangibile dei miei sogni irrequieti e delle mie notti insonni.

Il pavone comincia a diventare un elemento preponderante di questo luogo. Il pavone davvero bussa alla finestra per farsi dare il pane. Il pavone davvero si ingozza con certi pezzi di pane che neanche il mio cane. Il verso del pavone – l’ho scoperto ieri mentre ero a colloquio con la mia capa – è un miao felino molto più acuto e stirato di quello del gatto. Ero di fronte alla mia Capa e all’improvviso da dietro la finestra: Miaoooooo!

Ora tu lettore diffidente dirai: eh, dici così per fare il simpatico, figurati se il pavone miagola. E invece No, giuro che è così. 

L’inquietudine di cui già detto qualche giorno fa resta inquietudine, però ci sto lavorando su. Gli elementi che mi aiutano in questo senso sono:

– La lenta costruzione di una Prospettiva. Sta cosa per adesso non la posso spiegare. Ci sto lavorando su, alla mia Prospettiva. Ci sono ricerche da fare sul webbe con la gola che si asciuga e la sensazione di averci la febbre. Ma ci sto lavorando su.
– Aver sbirciato quanti soldini riceve la mia Capa per una sola ora di consulto. Io a quella cifra non ci arrivavo neanche con tre settimane del caro vecchio lavoro di distributore di cartoline, e io sono il suo assistente, e queste son cose.
– La signorina.
– La consapevolezza che se non stringo i denti adesso, allora vuol dire che non valgo niente.

E comunque dalla regia mi avvertono che il pavone non miagola, bensì paupula.

seduto alla mia scrivania

Seduto alla mia scrivania – la scrivania che mi hanno assegnato al lavoro – guardo fuori la finestra un enorme pavone che mette il becco nel prato e un galletto con la coda rizzata che lo segue poco distante. Il pavone – mi viene da pensare – è proprio un uccello anni 80. Quelle piume, quei disegni. Avrebbe bisogno di un restyling ma è solo un uccello, purtroppo per lui.   

Al lavoro – perchè adesso abbiamo cominciato con sto benedetto lavoro – condivido la stanza con altri personaggi che perlopiù non ricordo come si chiamano, ché i primi giorni sono di assestamento e nelle prime ore già ti dicono tanti nomi che li dimentichi praticamente all’istante. Nella mia stanza c’è il fratello di James Blunt che se non è il fratello allora è il cugino, e un capetto con gli occhi a mandorla con un cervello da sette chili e mezzo che è sempre contento e lavora anche mentre mangia. C’è pure un italiano coetaneo e gentilissimo che se non fosse stato per lui, adesso non potrei usare neanche la posta sul computer. Per fargli percepire la mia gratitudine l’ho riaccompagnato a casa in macchina per evitargli la biciclettata di quindici chilometri nel freddo della madonna.   

Posso bere tanto caffè e tante tazze di the quante ne voglio, al lavoro, e nessuno protesterà mai perchè pare che sia un mio diritto. Ho pure una sedia comodissima che scivola con le rotelle. Se poi vogliamo parlare del lavoro, cosa dire del lavoro. Cosa dire. Qualche ora fa avevo un umore nerissimo che avrei voluto mollare tutto per vendere frittelle per strada, poi mi sono calmato. Poi di nuovo mi hanno infilato in una riunione che ho capito il 3% di quello che hanno detto ma non se ne è accorto nessuno, ché io sono bravo a sfoderare le facce interessate e concrete senza alcun fondamento. Poi all’uscita volevo di nuovo scappare piangendo col pavone sotto braccio. Poi però sono rimasto.     

Il destino degli indecisi in fondo è questo: se non sai scegliere un lavoro, è il lavoro che sceglie te, e a quel punto c’è solo da stringere i denti e tenere botta. Con l’espressione “tenere botta”  si capisce bene che io – seppure tanto terrone – ho vissuto tanti anni al nord. E questa ultima digressione è solo un artifizio stilistico per cambiare argomento all’improvviso ed evitare di cadere in considerazioni lacrimevoli. Fregati.  

già so che a scrivere queste righe

Già so che a scrivere queste righe, farò una foto di me stesso che di sicuro avrò voglia di tornare a curiosare nei tempi a venire, quando non so ancora se il blogghe esisterà ancora, quando forse avrò una faccia diversa e pensieri diversi.

E allora voglio ricordarmi che oggi ero un ragazzo con una felicità intermittente, con le mani che tremano per notizie in arrivo e una storia da raccontare. Quindi mi rivolgo al me stesso di domani e gli dico: sappi che oggi eri felice e tremante, e che hai passato la scopa a tirar via la polvere dal pavimento del corridoio, e che hai un letto con le lenzuola disfatte e un paio di scarpe troppo consumate ai piedi per il tanto camminare, e una foto sulla scrivania di una persona a cui vuoi bene. Oggi c’eri tu, le tue ansie ondulatorie e le cose che hai fatto negli anni per arrivare fino a qui, tutte appiccicate sulla faccia a lasciarti un odore che a volte è forte e a volte meno, e alcune piccole cicatrici asfaltate dal passare del tempo. Oggi sei contento di te stesso – anche questo lo pensi in modo ondulatorio e incerto – e ti abbracci con questa consapevolezza come fosse una compagna di strada che comunque resterà sempre lì a gioronzolarti attorno.

Due giorni fa sei stato in un Paese pieno di biciclette e canali d’acqua, sei sceso dall’aereo appallotolando il quotidiano che ti raccontava tutte le schifezze della tua nazione. Lo hai lasciato sul sedile per farlo portare via alle hostess bionde e corpulente. Hai visto cose, potresti spendere qualche parola in più per spiegarti meglio, ma la sostanza è che hai visto cose. Hai visto strade con quasi nessun lussuoso macchinone, molti meno di quanti ne vedresti in mezzora passeggiando nel tuo paesello, e hai parlato con persone disponibili al punto da farti vergognare. Hai avuto parole di incoraggiamento senza chiedere nulla, e hai visto coppie di anziani tenersi per mano, e giovani biondi che avevano già un pargolo da sistemare sul seggiolino della bici. 

Ma senza girarci troppo attorno, la cosa è questa.

La cosa è che tra poco qui si lascia tutto e si va via. C’è da fare tanti pacchetti e caricare la macchina, poi dire ciao a Bologna e salire su in Olanda dove ti aspetta un lavoro, e felicità intermittenti e ansie ondulatorie proprio come hai fatto fino a qui. Ci sono cose da  fare e cose per cui preoccuparsi, e tanto vento in faccia da prendere.

La cosa – signorimiei – è questa, e adesso qui si comincia a cercare la corda da tirare per far scorrere il tendone rosso sul palcoscenico.