And so this is Chicago

Colleziono figure di merda.

Leggo il numero della camera, 2862. Penso: secondo piano.
Poi penso: ma io sono già al secondo piano. Eppure non trovo la stanza. Torno dall’omone che mi ha fatto il check-in e chiedo, mostrando la tessera della stanza: secondo piano? Scuote la testa. Ma come, dico io, è 2862! Lui mi fa: indovina. Sono sfracicato dalla stanchezza, da un treno notturno e dalla neve. Non indovino, dico io.

Ventottesimo, mi sibila.

chicago

So this is America

Quando la signora mi ha chiesto come volessi il cheese sul cheesburger, ho esitato.
Lei mi ha imboccato la risposta: Ma Americano! Sei in America: allora americano, giusto? Giusto! ho risposto io, continuando a guardare comunque affascinato la partita di rugby di cui mai mai mai comprenderò le regole.

Credo che però il racconto debba partire dalla mattina. Entro in aereo e subito noto tanto spazio tra i sedili ed un ambiente molto pulito ed ordinato. Mi dico: meno male, se devo fare tante ore di viaggio, perlomeno starò comodo. Solo che non trovo il mio posto. Dopo due minuti di ricerca mi rendo conto che il mio posto è in tutt’altra zona dell’aereo, oltre una barriera fatta da steward gentili ed eleganti. A quel punto ricordo tutto: il mio posto è in business class. Non avevo prenotato io e perciò l’avevo dimenticato.

Ora, ci saranno quelli che già lo sanno cosa significa la business class dei viaggi intercontinentali. Bene: io non lo sapevo affatto. Di più: io non lo sapevo e poi tra l’altro viaggio tantissimo con Ryanair, al punto che per certe tratte le hostess mi riconoscono pure. Di più, gli americani esagerano sempre. E dunque dal mio punto di vista di pinolo e pivello mi sono stupito di tutto. In certi momenti ho dovuto copiare una signora mia vicina perché certe cose proprio non sapevano cos’erano, come funzionavano. Io che di solito leggo tantissimo in aereo, ho abusato di film americani, telecomandi e pulsanti, vino portoghese e sedili che diventano letti. Mentre ero sotto una coperta ho avvertito le turbolenze dell’aereo, ed erano turbolenze ritmiche, e quella sensazione di essere steso su qualcosa che vibra ritmicamente mi ha ricordato – solo chi lo ha provato può saperlo – le notti nelle cuccette dei treni disperati da Lecce a Bologna. Dopo alcune ore di viaggio mi ero già talmente abituato ad avere tutto sotto mano e pronto quando volevo e come volevo, che la semplice mancanza di una penna immediatamente a disposizione mi stava facendo innervosire. La parte meschina di me attendeva che George, lo steward simpatico e servizievole, venisse ad infilarmi una penna tra le dita già in posizione. Immediatamente.

Ad un certo punto ho vissuto un corto circuito personale osservando la mia vicina di viaggio americanissima – con cui avevo scambiato qualche parola prima del decollo – che si drogava sul suo schermo di sitcom americane, quel tipo di prodotto televisivo che conosco benissimo perché l’ho assorbito sin da bambino. Solo che io ero un bambino mediterronico e scalzo nella calura del Salento – e in tv c’erano le sitcom americane, totalmente diverse da me sudato e scalzo – adesso c’erano le sitcom americane e poi anche, giusto di fianco a me, una spettatrice identica alle protagoniste delle sitcom americane. Identica nell’aspetto e nelle movenze. Quindi automaticamente anche io ero nella sitcom americana mentre nel frattempo lo schermo mandava in continuazione sitcom americane. Dall’altra parte, il tizio seduto non era esattamente John Goodman ma ecco, se mi avessero detto che era suo cugino, ci avrei creduto. Un accerchiamento culturale improvviso.

E poi gli americani con quel loro lessico esagerato. Alla mia vicina e alla sua amica – due allegre signore periformi – dico il nome del paesino dove resterò per i primi tre giorni, sperduto nel nulla. Loro prima mi dicono che il mio inglese è “fenomenale”, che la giornata è “incredibile”, e poi che il posto dove andrò è molto, molto bello e interessante. Ah sì? rispondo io. E cosa c’è di bello da vedere? Vanno nel panico. Il centro commerciale, dice una di loro. Il centro commerciale, sì, ripete l’altra. E’ “fenomenale”, dice quella. Prima non volevo, poi ho pensato che avevo solo tre ore a disposizione e non potevo andare in altri posti. E poi ho concluso che antropologicamente, nulla sarebbe stato più interessante dell’immergermi tra gli americani nella provincia americana, proprio durante lo shopping natalizio.

E quindi eccomi là, l’unico che in un Mall è occupato ad osservare le persone, invece che le vetrine.

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i belgi

I belgi ti sembrano tutti diversi l’uno dall’altro.

E questa è una cosa positiva – per te che guardi con occhi comunque da italiano. Perché vivendo all’estero hai capito una cosa: un popolo è tanto più diverso da te, quanto più gli individui di quel popolo ti sembrano tutti uguali.

E’ un concetto semplice ma fondamentale: se un popolo lo percepisco come moltitudine di individui tutti diversi tra loro, allora vorrà dire che in un certo senso io sono dentro, e vedo tutto da dentro. Se invece il mio cervello considera un popolo come un gregge di essere umani più o meno tutti uguali, allora vorrà dire che – rispetto a loro –  io sono fuori, e vedo tutto da fuori (sto quindi osservando qualcosa di troppo diverso da me).

Sembrerà poco interessante, o sembrerà interessante solo per chi come il sottoscritto vive in un posto altro da sé, e rimugina su queste differenze.

I barbari del Paese Basso – per motivi diversi – a parte poche eccezioni, mi parevano tutti uguali. La prova del nove della mia teoria appena partorita potrebbe essere la percezione che tutti noi abbiamo degli asiatici: a meno che tu non sia asiatico, per te loro sono tutti cinesi. Anche se non è vero. A prescindere.

L’italiano che non ha viaggiato pensa la stessa cosa dei tedeschi. L’italiano contaminato e mitteleuropeo invece non la pensa più – perché per lui già i tedeschi sono meno diversi. E del resto come ha scritto un disgraziato, per il salentino ortodosso e ignorante tutti quelli con un accento del Nord sono comunque “milanesi”.

Vabe’, quello che volevo spiegare mi si e’ accartocciato fra le mani mentre scrivevo, ma non mi va di tornare su a correggere.

Mi fanno un re praticamente sotto casa, io dico a tutti quando mai ricapiterà una cosa del genere– bisogna assolutamente andare a vederla, e poi una cosa del genere, non vado a vederla.

Vado a giocare a beach volley, invece.

Fino a stamattina da queste parti si aveva una regina italiana. Vedi? dico ad amica belgissima – si è messa a piangere dall’emozione, è evidente che non è di sangue barbaro come a voialtri.

Ma gli indigeni qui sono pochissimo nazionalisti, e in ogni caso surrealisti e folli. Un vicino di casa celebra il giorno di festa nazionale come da foto.

flag

ci sono parole #2

A proposito delle parole tradotte male di cui si e’ scritto, in questo periodo di terremoti va aggiunta pure la parola “palazzo” apprezzatissima all’estero e impiegata in contesti diversi a volte poco rilevanti. Si parla di terremoto? Allora sulla stampa anglosassone sono crollati “many palazzos“.

Ma poi anche, giusto per non dimenticarcene e per pareggiare, vanno ricordate le orde di italiani che usano “eventually” come se significasse “eventualmente”.

tristezza infinita

In questa intercettazione B. chiama il puttanone sudamericano. Ed è tutto abbacchiato B.,  prova a raccontarle  dei suoi problemi ma quella chiede dei soldi.

Poi il telefono passa ad un’altra sudamericana e pure quella chiede soldi. E’  depresso B., e non ha nessuno da chiamare quando è triste se non due che gli chiedono soldi, tutte e due in una telefonata di appena tre minuti. Quest’uomo ha cinque figli.

E’ un pomeriggio nuvoloso e sono a casa con una quasi influenza, forse uscirò solo per portare il vetro alla differenziata, e comunque penso che tutto è relativo. Tra poco arriverà M., non faremo niente di speciale perché ho la mia quasi influenza ma ecco, di nuovo: tutto è relativo. Quello che hai e che potrebbe sembrarti normale non lo è, soprattutto quando scopri questi scenari inaspettati di tristezza infinita.

questa mattina

Nella foto, questa mattina a Frankfurt, mamma giapponese scatta fotografia a figlia giapponese con addosso la maglia della squadra di calcio giapponese.

 

Ché stasera a Frankfurt – quando io ero già andato via – si giocava la finale del mondiale di calcio femminile. Evento peraltro completamente ignorato dai media italiani.

 

Il primo goal americano è stato segnato non da un cerbero muscoloso accidentalmente di sesso femminile come un ignorante della materia si aspetterebbe, ma dall'attaccante Alex Morgan, che calciava benissimo con tanto di fermacapelli rosa sulla testa.

materia di studio

Dice che i NoTAV che si accapigliano in queste ore con botte fortissime non sono affatto gli abitanti delle zone dove vogliono far passare sta benedetta TAV, ma da molto lontano. Dice che arrivano da altre città d'Italia ma pure dalla Francia e dalla Germania eccetera eccetera. Dice che questi sono già conosciuti e che vanno ovunque dove ci siano mazzate. Sociologi e psichiatri di questo mondo, perché non vi fermate un momento e andate a studiare sto fenomeno interessantissimo di questa porzione di umanità che si dedica alla ricerca minuziosa dei posti dove trovare mazzate?

sapevàtelo

Nel 1958 Pierre Culliford stava pranzando con un suo amico.

 

Voleva chiedere al suo amico “passami il sale” ma si era dimenticato la parola “sale”. Noi diremmo passami il “coso”, che devo “cosare”. Lui invece disse passami lo “schtroumpf”. E poi continuò a parlare in francese con il suo amico sostituendo nomi e verbi con ““schtroumpf”, che poi più tardi si era trasformato in “smurf”.

 

Per esempio: dobbiamo “smurfare”, questa cosa mi “smurfa”.

 

In italiano “smurf” è stato poi tradotto con “puffo”. Pierre Culliford, nato a Brussélle e anche conosciuto come Peyo, è stato l'inventore dei Puffi. E ieri (sapevàtelo) è stata la giornata mondiale dei Puffi. Quanto a me, io più che altro sbadigliavo, ma ero ipnotizzato da Gargamella

solo stasera

Solo stasera il mio equilibrio psicologico torna a livelli accettabili. Sono stati giorni di scoperte che mai avrei pensato di scoprire, e di privilegi che non sapevo neanche esistessero. Tutto procede talmente smooth e facilitato che ad un certo punto ho creduto seriamente di impazzire.

 

E non è tanto per dire. L'ho creduto per davvero, di impazzire, con la macchina parcheggiata in una strada alberata, io dentro la macchina, fuori il sole, ed io nella macchina che parlavo al telefono con una delle tantissime persone che in questo periodo mi stanno “assistendo” a trovare la mia way.

 

Questa persona mi chiedeva che tipo di casa volevo, perché me l'avrebbe cercata lui, mi avrebbe preso appuntamento lui, mi ci avrebbe accompagnato lui, avrebbe guidato lui, mi avrebbe dato una consulenza lui. Ecco, adesso so che tutto ciò è normale – che succede a tutti – solo che io, nella mia auto parcheggiata al sole vicino agli alberi, ecco, io ero lo stesso che solo fino a pochi giorni fa viveva in una casa di drogati, e che aveva vissuto cose indicibili negli ultimi anni, tutte documentate su queste pagine da qualche parte – non mi va di cercare i links.

 

Per dire, due settimane fa nel lavandino ho trovato una pentola sporca piena di acqua e noodles, e dentro c'era un telefono cellulare e il collare del gatto.

 

E allora, questo cambiamento radicale in così pochi giorni all'inizio mi ha fatto piacere, poi molto piacere, poi ho cominciato ad avvertire uno strano nervosismo.

 

Quando sto per chiudere la telefonata il consulente mi chiede se ho un conto in banca. Dico che pensavo di aprirne uno il giorno dopo. Lui mi ferma subito e mi dice: mannò, mannò, facciamo tutto noi. Tu vieni solo a firmare.

 

Ecco, proprio lì ho creduto di impazzire.

 

Oltre la finestra c'è un piccolissimo prato e degli indiani che giocano a badminton. Se apro la finestra si fermano e mi osservano, quindi No, non è un sogno.

scopro

Scopro interesse nell'osservare coppie che stanno insieme da trent'anni mentre ballano un lento, ma solo perché mi accorgo che sorridono e che hanno qualcosa da raccontarsi proprio in quel momento, e proprio quel raccontare le fa sorridere. Hanno ancora qualcosa da raccontarsi, e perciò sorridono, ecco cosa.

 

Che poi non sono loro, lo stupore é per me che me ne accorgo, visto che prima non me ne accorgevo. Adesso me ne accorgo.

 

Potessi scegliere, vorrei un capodanno tra gente che non conosco dove nessuno me lo fa notare – che è capodanno.

milano

Milano non la conosco. Eppure ci vengo e avverto immediatamente una sensazione di familiare, di panettone e di canale cinque. I nomi delle strade e della metro li ho già sentiti anche se non ci sono mai stato. Ho speso più tempo a Parigi o a Colonia eppure queste strade sembrano strade di casa.

 

Il Corriere della Sera che leggo in un bar parla di fatti successi dietro l'angolo, e questa è una novità assoluta per me che sono contemporaneamente terronico ed espatriato. Nell'altra stanza del bar c'è la cumpa dei giocatori di biliardo stile AmiciMiei e guardandoli mi chiedo se pure io potrei un giorno.

 

Il Cuggino (fu) Rasta ha tenuto la sua festa di compleanno nella sua grande casa dotata di tre bagni. Le ragazze che cercano di accaparrarselo hanno tutte lo stessa luce negli occhi – lui se ne rende conto, epperò dice che ci posso fare se mi piacciono così. Mi racconta gli eventi della sera prima steso nel letto, con voce rauca snocciola liste di nomi femminili ma faccio confusione così che mentre ne nomina una nuova io mi immagino sempre la stessa.

 

Poi è in piedi davanti alla finestra che mangia frollini e dice serio: “ma sai, in fondo io sono l'ultimo dei romantici” ed io rischio seriamente l'infarto dal ridere.

 

Dormo in un hotel gestito da cinesi, il ragazzino alla reception mi chiama Laffaele. Io che coi cinesi in Paese Basso ci lavoro mi chiedo perché loro ce la fanno a pronunciare la R mentre invece qui fanno come nei film di Lino Banfi. Forse lo fanno per farci contenti.

 

In un negozio di abbigliamento del centro chiedo al commesso patinato e italianissimo dove posso trovare una cosa che cerco, quello seriamente mi risponde “downstairs”. Io penso che in fondo sono queste le cose che ti fanno sentire in provincia, come i negozi di saponi che inspiegabilmente li chiamano super sanity shop.

PapaRatzi sarebbe un coltissimo personaggio

PapaRatzi sarebbe un coltissimo personaggio, però poi se ne esce con cose del tipo:

 

gli omosessuali vanno rispettati come persone che "non devono essere discriminate perché presentano quelle tendenze. E tuttavia il senso profondo della sessualità è un altro. Si potrebbe dire, volendosi esprimere in questi termini, che l'evoluzione ha generato la sessualità al fine della riproduzione (…) "non per questo l'omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto".

 

Ste cose le senti raccontare pure in mezzo ad una strada. Chi te le racconta si sente pure intelligente quando afferma che l'omosessuale non è normale in quanto, per fare i bambini, serve un uomo E una donna.

 

Chi te la racconta è contentissimo e fiero, perché crede di aver trovato l'argomento definitivo, la spiegazione che fila, che non fa una piega.

 

Ma PapaRatzi, 'scoltami bene.

 

Gli omosessuali sarebbero contro natura e anormali se volessero fare i bambini – per capirci – mediante un rapporto anale. Se ci provassero in questo modo, allora sono d'accordo, sono assolutamente contro le leggi della natura. Ma non è così, PapaRatzi. Secondo te i preti omosessuali che si toccano fra di loro nei monasteri pensano a fare I bambini? No.

 

Tu dici: “l'evoluzione ha generato la sessualità al fine della riproduzione”. Giusto. Ma poi sai cosa è successo? Siediti che te lo dico: la sessualità ha sviluppato pure l'omosessualità. Solo che tu, PapaRatzi, in tutto questo non ci vedi un fine, e allora ne concludi che è contro natura.

 

Il fine esiste, solo che attualmente sfugge alla nostra comprensione. Ma guarda che è già successo eh: per esempio secoli fa i tuoi compari credevano che il Sole girasse attorno alla Terra – perché erano convinti di essere al centro dell'universo – poi hanno scoperto che non è vero. I tuoi compari credevano ad Adamo ed Eva – perché questo concordava con I loro schemi mentali – poi si è scoperto che invece le scimmie eccetera eccetera.

 

Tu PapaRatzi non devi usare le tue conoscenze limitatissime – peraltro mutuate dalla scienza non dalla religione – per dire cosa va bene e cosa No. Quella è la Natura: osservala e apprezzala per quella che è. Moriremo tutti senza sapere un sacco di cose, e i posteri a rileggere le nostre sciocchezze si pisceranno sotto dal ridere.

cose che uno non ci pensa

Insomma, c’è gente che davvero lavora in una cosa che si chiama “human resources”.

Cioè, che poi non è colpa loro. Perchè c’è gente che prima di loro ha deciso di chiamare questa funzione “human resources”. Quindi è colpa di quelli che c’erano prima.

Che tu la leggi in inglese, e suona assurda. La rileggi in italiano, “risorse umane” e su quell’“umano” ti vengono in mente i reperti arecheologici umani, I teschi nei musei, I plastici che compri il primo numero in edicola con il modellino dei polmoni .

Risorse umane. C’hanno ragione loro, eh, ché di quello si tratta. Il nome è onesto. Però tu ugualmente pensi ai teschi umani, e al fatto che se esistono le risorse umane allora ci sono le risorse bovine. Le risorse gallinacee. E infatti ci sono, ma non le chiamano così.

dopo venti giorni

Dopo venti giorni di mancata automobile per mancanza di targhe, eccomi di nuovo sulle quattro ruote. E il Paese Basso e’ in assoluto il luogo dove ti rendi conto che la macchina certe volte non serve. Io poi vengo dal paesello del Salento dove pure per fare cento metri si prende la macchina, e quando ti capita di muoverti a piedi ti senti come Keanu Reeves in Matrix che esce dalla realta’ virtuale. Va bene, solo per dire che la macchina anche se non ce ne rendiamo conto e’ un lussissimo, una cosa che se ti fermi a pensare, e’ incredibile. Poniamo che devi spiegarlo ad uno che viene da Plutone. C’e’ sto parallelepipedo smussato di acciaio e plastica e vetro – gli diresti – che e’ mio perche’ ci infilo la chiave, e lo uso per muovermi in giro, e occupa un determinato volume di spazio del nostro mondo e gli altri (che pure sono uguali a me) se anche non lo fossero contrari (al fatto che io occupi una porzione di volume del  mondo con plastica e acciaio) non potrebbero farci nulla che tanto io lo faccio lo stesso. E poi pensa – diresti al Plutonese – che in ogni macchina ci sono tipo 5 posti eppero’ 4 di questi sono quasi sempre vuoti. Quelli tre di dietro praticamente sempre a meno che non ti sei riprodotto. A proposito, come vi riproducete voialtri su Plutone? Eccetera eccetera.

ha cominciato prima lui!

Criticato per lo scherzo alla cancelliera tedesca Angela Merkel,
Berlusconi rivela così l’origine del cucù.
"Non è un’invenzione mia" spiega il presidente del Consiglio
– me l’ha fatto una volta Putin a San Pietroburgo
e io l’ho fatto alla Merkel".

Intanto ieri sono andato a votare. E chi se l’aspettava sta cosa? Arrivata la scheda a casa, presentato in scuola deserta, ottenuto mia scheda-lenzuolo – possibilitá di sgraffignare liquerizie gommose dal presidente di seggio – e poi colorato cerchietto con pastello colore rosso in cabina elettorale. Erano anni che non votavo, mi trovavo sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Stavolta invece, facilissimo. La strana sensazione di avere votato come un cittadino barbaro (per eleggere un deputato europeo barbaro) non si riesce purtroppo a descrivere.

allora praticamente

Allora praticamente succede che mi distraggo un momento ed esce fuori sto Gino Flaminio, che lasciando perdere tutta la storia che racconta (pure interessante per carità) è la conferma ulteriore che questa storia è stupenda, che non ti lascia mai tre giorni senza un colpo di scena, e che il nome Gino Flaminio – prendiamo un momento in esame il nome, dimentichiamo tutto il resto – mi ricorda  vai a capire perchè Gino Pilotino, anche se sto gioco io non l’ho mai avuto, ne  ho solo subito la sigla televisiva con la musichetta irritante, e meriterebbe davvero di diventare un nome cult, il nuovo Luther Blisset di noialtri.

La vicenda che non se ne puó fare a meno

Questa é la vicenda che non se ne puó fare a meno, che se uno ci si mette a guardarla, puó trovarci tutto, la spiegazione definitiva per tutto. Adesso il B. si arrabbia perché su Repubblica hanno pubblicato dieci domande sulla storia della minorenne. Si arrabbia B., e dice che questa é tutta invidia. E infatti i sostenitori in giro per la rete ripetono molto spesso la identica cosa: è tutta invidia. Un considerazione, allora:  

L’invidia. Prendiamo quel tipo di persone che quando formuli la critica, quelli ti rispondono che la tua è tutta invidia. Attenzione che non é cosa da niente, perché questa risposta divide di netto due mondi. 

L’invidia sarebbe dovuta a qualcosa che non hai e che vorresti avere. Mentre la critica che fai é per un sistema di valori tuo interno, perché usi questo sistema di valori interno per guardare il mondo. E se trovi qualcuno o qualcosa nel mondo che cozza fortemente col tuo sistema di valori, allora analizzi, emetti un giudizio (che si basa sul tuo sistema di valori interno) e quindi in pratica critichi. L’invidia, detta in modo rozzo, é un attacco di tipo quantitativo (“vorresti avere quasta cosa, che non hai, e allora parli perché sei invidioso”) quando invece la critica é una mossa di tipo qualitativo (“fai/sei diverso da come io credo si debba essere/fare”). Fra chi si muove nel mondo usando i criteri Piú e Meno, e quelli che conoscono altre direzioni possibili. Uno che ha fatto le scuole direbbe che è un problema di sovrastrutture. Ma lasciamo perdere. Questo ragionamento comunque divide le persone agli antipodi. Se il tamarro – per fare un esempio – sfreccia con la sua decappottabile in pieno centro, spaventando i pedoni, rombando al semaforo, clacsonando quando serve, tu che hai un sistema di pensiero qualitativo lo criticherai perché si sta comportando secondo te in un modo che non dovrebbe, che non va bene in un contesto civile. Lui, sapendosi criticato, penserá che la critica è dovuta alla voglia matta che hanno gli altri di essere al posto suo, sulla decappotabile fresca di autolavaggio, a clacsonare e rombare fra la gente. Ecco perché chiunque ti accusi di invidia – e su ste pagine è successo tantissime volte – é sempre meglio lasciar perdere, perché nel momento in cui qualcuno tira fuori l’invidia, a quel momento si stanno parlando due lingue diverse.   

Gli accenti sbagliati – è bene ripeterlo di tanto in tanto – sono dovuti alle tastiere sballate di queste parti.

mi era successo di vederlo tante volte

Mi era successo di vederlo tante volte alla tivvù e perciò era come esserci stato, ma invece non c’ero mai stato. Così ieri per la prima volta quasi per caso mi sono trovato nel mezzo del gaypride di Amsterdam. Le ballerine con i tutù fucsia si agitavano a bordo delle barche,  e la musica era quella che ti aspetti da un gaypride. Le ballerine e i travestiti muscolosi sfilavano sfoggiando i colori dell’arcobaleno, mentre tra la folla – mano nella mano – si aggiravano tante discrete coppie gay, molto meno colorate e molto più silenziose. Ho visto passare una coppia di lesbiche tabagiste coi capelli ingelatinati, e poco dietro una madre e un padre fricchetoni che ballavano sguaiati di fronte alla carrozzina della loro figlioletta.

Mi è sembrato di capire – ma non ne sono sicuro – che i coloratissimi ballerini e le ballerine della parata non sono tutti gay, o almeno una buona parte non lo sono affatto. Soprattutto le ballerine. Il gaypride dovrebbe essere – ma non ne sono sicuro – una festa che lambisce soltanto il tema dell’omosessualità, per essere piuttosto una celebrazione dell’estremo, che però si annulla immediatamente in quanto di estremo c’è davvero poco – se non qualche culo e qualche mammella – perchè la manifestazione è circoscritta sia per spazio (da qui a qui passando da lì e lì) e tempo (il tale giorno alla tale ora) e condizione (tutti assieme vestiti tutti uguali). Se ci togli la trasgressione, se minimizzi quello dell’omosessualità, resta qualcosa che ieri pomeriggio, sotto una pioggerellina di agosto, inciampando fra le bottiglie di spumante lasciate sull’asfalto, non sono sicuro di aver capito.