Giovani donne indossano cappotti Desigual, forse acquistati quel giorno che si sentivano più sbarazzine del solito, poi però escono di casa con la faccia triste ma indossando il cappottino colorato, che con la faccia triste, con il traffico e la mattina nuvolosa, non c’entra niente.

Dovessi mai essere intervistato da un giornalista di una trasmissione d’inchiesta d’assalto tipo Report, accetterei solo a patto di essere ripreso con le stesse identiche luci e inquadrature dell’intervistatore. E quindi esigerei – come il giornalista che mi intervista – di non essere ripreso in faccia da molto vicino, di non essere ripreso dall’alto verso il basso, di non essere ripreso con le luci sbagliate in faccia. Nell’era della comunicazione tutte queste cose possono – purtroppo – fare la differenza. Anche quando hai qualcosa di sensato da dire, farai la figura del deficiente messo in difficoltà.

osservo in un pub

Osservo in un pub ad un tavolo vicino la rappresentazione materiale di uno dei miei incubi: le uscite a bere qualcosa di coppia più coppia. Dopo i saluti iniziali lei parla solo con lei, lui parla solo lui, poi ognuno prende la parola al plurale dicendo sempre noi (visto che in quel contesto nessuno rappresenta se stesso ma solo la parte di un qualcosa plurale).

Andando avanti nel tempo si finisce per definirsi amici non per affinità fondamentali ma per similitudine di condizione, ci si frequenta anche per anni senza ricordare chi è che lo voglia veramente, forse soltanto uno del noi, l’altro invece accetta passivamente di sfracicarsi le palle, a volte lo rivendica bofonchiando guidando verso casa, nella testa pianifica di usare questo sacrificio come moneta di scambio per qualcos’altro.

Ad andare per mostre e per musei, non posso evitare di osservare – oltre alle opere – la gente che guarda le opere.

Il pubblico di una mostra o di un museo è un sottogruppo della popolazione generale che invece incontri per strada. Ovvero il sottogruppo che vuole andare a vedere una cosa del genere: per curiosità, perché gli piace, perché ci viene trascinato. E’ un filtrato selettivo della popolazione generale, e quindi interessante da osservare proprio per questo motivo. Tra l’altro l’illuminazione delle stanze e l’architettura delle stanze stesse aiutano a creare la sensazione che le opere d’arte non siano solo quelle in esposizione ma pure quelle umane che vi passeggiano a fianco. Di conseguenza mi distraggo e guardo loro, piuttosto che le opere.

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Poor listener

Una cosa  di me stesso che ho imparato in età adulta è che sono un poor listener. L’ho imparato da fatti oggettivi e da analisi comportamentali precisine e dettagliate alle quali mi hanno sottoposto.

Poor listener significa che perdo l’attenzione facilmente, che non ascolto con attenzione per lungo tempo. Teoricamente sarei in grado di farlo ma la mia testa non lo sopporta. Uno dei motivi principali è la mia intolleranza alla lentezza logica: è come se nella mia testa fosse montata una RAM particolarmente potente che non mi fa sopportare i flussi logici della maggioranza delle persone – della maggioranza, non di tutte. Quindi con la testa vado oltre giungendo a conclusioni in attesa delle conclusioni del mio interlocutore (quasi sempre identiche alle mie, mentre vorrei tanto essere sorpreso o smentito), oppure penso ad altro. Quasi sempre penso ad altro.

Però questo non è disinteresse. Anzi mi interessano molto le persone. Tutte le persone. Tanto che perdo l’attenzione anche perché – appunto – mi interessano le persone, sono curioso di loro, della loro figura, piuttosto che affascinato da quello che dicono.

E se quindi mi trovo – per esempio – in una riunione con una persona, e questa persona parla, allora mi capita di non ascoltare quello che dice ma di pensare ad altro provocato dall’immagine di questa persona che parla.

Mi distraggo speculando sulle cose che questa persona ama, su chi possa avergli stirato il colletto della camicia, o quando ha scelto quella gonna: che giorno era, con chi era. Mi distraggo pensando cosa i suoi genitori speravano diventasse, questa persona, quando era ancora piccola e piena di potenzialità. Mi distraggo pensando se la persona ne ha ancora, di potenzialità nascoste da qualche parte, o se e’ tutto già finito per lui/per lei. Mi distraggo pensando come potrà essere spendere molto tempo con questa persona, all’interno della stessa casa, se piacevole o spiacevole, e in entrambi i casi, in che senso, entro quali limiti. Quali saranno state le sue gioie più grandi, e quali motivi siano dietro alla sua soddisfazione del momento. C’e’ qualcosa che lo fa/la fa fremere davvero? Per cosa si incazza? Come sottolineava i libri da studente? Con la matita o con l’evidenziatore? C’e’ qualcuno che prova dell’interesse sessuale genuino nei suoi confronti? Cosa mangia a colazione? Resta con gli occhi aperti a pensare prima di dormire? Come saranno le sue mani da vecchio? Dov’era il giorno che ha imparato ad andare in bicicletta?

L’immotivata fila agli aeroporti

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Ai gate degli aereoporti, un’ora prima della partenza dell’aereo, trovi la gente in fila.

Gente in fila che ha nessun motivo di essere in fila. Non è che se lasciano la fila l’aereo parte senza di loro. No: l’aereo partirà dopo un’ora. O dopo venti minuti – il concetto non cambia. Il loro posto è assegnato. Non devono neanche combattere per la poltrona migliore: tutti i posti sono assegnati.

Al contrario, la gente avrebbe tantissimi motivi di non essere in fila. La fila è scomoda. Se hai dei bambini, quelli scappano e tu devi urlare e innervosirti. Alcuni dei tuoi bagagli vanno tenuti in mano o in spalla, e ti stanchi di più. Devi odiare il tuo vicino – anche lui inspiegabilmente in fila – che cerca di saltarti. In alcuni casi appena dopo il controllo ti rinchiudono in un recinto stretto in attesa di farti proseguire verso l’aereo. Se sei in fila, arriverai prima degli altri sull’aereo, che però non è un luogo comodo. Seduto in un sedile stretto di aereo dovrai osservare gente che passa con il pube vicino alla tua faccia.

Insomma se – invece di comportarti senza logica – semplicemente aspettassi l’esaurimento della fila e poi entrassi in aereo, ti risparmieresti tutte queste cose. Senza perdere nulla. Eppure la gente continua a fare la fila. Senza motivo. Perché fa la fila?

Dopo anni di osservazione e sconcerto, sono giunto alla conclusione che la gente fa la fila perché la gente fa la fila.

In altre parole, sono abituati a vedere gente in fila, e quindi si mettono in fila. Gli altri vedono la fila formarsi, e si mettono in fila. Tutto questo non ha senso, eppure va avanti così perché la gente non si fa domande. Oppure ha senso, se si pensa a quanto diffusa sia l’abitudine, o la tendenza innata, a non farsi domande.

(nella foto: immotivata fila ad Eindhoven, 30 minuti prima della partenza)

per aggiungere l’ennesimo capitolo

Per aggiungere l’ennesimo capitolo alla lista dei segni che ti fanno riconoscere i gruppi di italiani in vacanza all’estero, devi metterci pure che in un gruppo di italiani, se ti concentri ad osservare solo le donne del gruppo, intuirai che quelle stesse donne, una volta rimossi tutti gli orpelli, e in particolare pesanti tinture dei capelli, trucco robusto, complicate e griffate montature degli occhiali, al netto di tutto questo e di altri artifici variabili, potrebbero essere molto diverse da come appaiono. E’ la tua esperienza che te lo suggerisce. Questo tipo di bluff estetico non risalta in Italia quanto invece all’estero, dove sullo sfondo ci sono le mitteleuropee con un acqua e sapone talebano che pure quello può – spesso – avere degli effetti positivi ma pure – a volte – diventare orgogliosa sciatteria. In questo sfondo di acqua e sapone talebano, la ragazza italiana ti fa riconoscere immediatamente il gruppo di italiani in vacanza; o meglio, è il tuo occhio esperto che lo fa, intuendo lo spread che esiste tra quello che vedi e quello che realmente potrebbe essere.

C’e’ un gioco che mi diverte di sti tempi, quando in una stanza entra una ragazza bella sopra la media delle ragazze, di quel tipo di presenza che rompe l’aria e che poi dopo in quella stanza l’atmosfera non e’ più la stessa.

Quando in una stanza entra una ragazza cosi’, mi sforzo di intercettare lo sguardo dei maschi presenti – di quelli che non possono fare altro che osservarla. E mi incuriosiscono soprattutto gli occhi di quelli più adulti, di quelli più incravattati. Osservo quanto deboli appaiano in quei momenti, quanto in un istante tutti gli orpelli di homo sapiens cadano a terra, e di come non resti altro che la scimmia nuda.

Fanno tenerezza – pure – perché osservano con insistenza per tanti secondi di fila, neanche ipotizzando che potrebbero essere scoperti a farlo, e quanto triste possa apparire questa cosa, tenendo presente la loro attuale posizione di dominanza nella formale gerarchia degli uomini.  Forse perché quando e’ stato il loro tempo  non hanno imparato a dissimulare, a spiare senza farlo vedere, ad scrutare come fanno i gatti. O forse perché non hanno più niente da perdere.

 

i belgi

I belgi ti sembrano tutti diversi l’uno dall’altro.

E questa è una cosa positiva – per te che guardi con occhi comunque da italiano. Perché vivendo all’estero hai capito una cosa: un popolo è tanto più diverso da te, quanto più gli individui di quel popolo ti sembrano tutti uguali.

E’ un concetto semplice ma fondamentale: se un popolo lo percepisco come moltitudine di individui tutti diversi tra loro, allora vorrà dire che in un certo senso io sono dentro, e vedo tutto da dentro. Se invece il mio cervello considera un popolo come un gregge di essere umani più o meno tutti uguali, allora vorrà dire che – rispetto a loro –  io sono fuori, e vedo tutto da fuori (sto quindi osservando qualcosa di troppo diverso da me).

Sembrerà poco interessante, o sembrerà interessante solo per chi come il sottoscritto vive in un posto altro da sé, e rimugina su queste differenze.

I barbari del Paese Basso – per motivi diversi – a parte poche eccezioni, mi parevano tutti uguali. La prova del nove della mia teoria appena partorita potrebbe essere la percezione che tutti noi abbiamo degli asiatici: a meno che tu non sia asiatico, per te loro sono tutti cinesi. Anche se non è vero. A prescindere.

L’italiano che non ha viaggiato pensa la stessa cosa dei tedeschi. L’italiano contaminato e mitteleuropeo invece non la pensa più – perché per lui già i tedeschi sono meno diversi. E del resto come ha scritto un disgraziato, per il salentino ortodosso e ignorante tutti quelli con un accento del Nord sono comunque “milanesi”.

Vabe’, quello che volevo spiegare mi si e’ accartocciato fra le mani mentre scrivevo, ma non mi va di tornare su a correggere.

Fossi una cassiera di una rosticceria o di una pasticceria o di una gelateria, particolarmente del Sud, particolarmente di quelle affollatissime ad agosto che devi lavorare velocissima, particolarmente di quelle affollatissime che ad agosto premi i pulsanti sulla cassa freneticamente per stare dietro alla massa di persone e ti si imperla di sudore il labbro superiore, fossi una di queste cassiere, a quelli che davanti alla cassa cominciano a perdere tempo con le cerimonie dell‘offro io, ma stai fermo che faccio io, ma non esiste faccio io, mentre intanto la fila dietro si allunga, fossi una di queste cassiere una volta ogni tanto impazzirei e giù mazzate con il cavatappi sulla testa da far schizzare il sangue fino al soffitto, tipo Cogne.

comunque esiste un fascino abbastanza inesplorato

Comunque esiste un fascino abbastanza inesplorato – almeno per me – della grande citta’ in orario di lavoro. Girarci quando gli altri lavorano e tu invece No. Adesso Milano, ieri Bologna in ora di pausa pranzo: ieri ho deciso di trascinarmi il cadavere della valigia dal Pratello fino in Stazione a mano, niente bus, solo per spiare i lavoratori che prendevano caffè  nei bar. Quello che si dicevano. Le dinamiche etologiche di questi gruppetti o grupponi di persone che entrano ed escono dai locali, con gli uomini a fare la parte degli uomini, e le donne a fare le donne, gregarie nel gruppo, in attesa che gli uomini facciano strada. E’ tutto molto discoverychannel, anche se loro non lo sanno, li osservo come i leoni alla tv. E poi a Milano cerco disperatamente i fighetti rampanti, ne trovo pochi ma forse non ho spiato i luoghi giusti. Pero’ anche con quelli che ho scovato, c’e’ questo tic che hanno alcuni giovani uomini rampanti di tirarsi il colletto della camicia in fuori, con indice e pollice, non so se si capisce cosa voglio dire, questo tirarsi il colletto della camicia quando in pratica non serve, e’ la versione moderna della mano di Fonzie che passa tra i capelli.

quando ci sono due coppie

Quando ci sono due coppie di persone all'interno della stessa automobile – pensavo – puoi notare che esistono due categorie di esseri umani moltissimo distinte tra di loro. Quando ci sono due coppie all'interno della stessa automobile, esiste un tipo di persone che si siedono una coppia davanti e l'altra coppia dietro, e un'altra categoria di persone che invece si siedono maschi davanti e femmine di dietro. Sono due mondi diversi. Di solito riesco ad avere a che fare con quelli coppia avanti/coppia dietro, con gli altri sono abbastanza uncomfortable. Ma la cosa che mi sorprende ogni volta è che lo so prima come si siederanno, già lo capisco da come parlano, da come si vestono, come si siederanno nell'automobile. E ogni volta mi stupisco. 

le assistenti di volo

Le assistenti di volo sono tra i miei oggetti di analisi preferiti. Ne ho scritto altre volte, ne parlo sempre se qualcuno mi siede di fianco in aereo. Soprattutto quelle delle linee low cost.

 

Della loro condanna a vivere con gente che va a divertirsi, della peggior specie. Con gente che le incolpa di colpe che non sono loro. Di bambini che vomitano. Di gente che vola un'ora e per forza si deve mangiare il cazzo di panino col prosciutto stretto fra altri corpi e bambini che vomitano. Ma soprattuttto quel convivere continuamente gente che va in vacanza – soprattutto i gruppi rumorosi – per cui (concludo) si finisce inevitabilmente per odiare il genere umano, e in particolare il genere umano che si diverte.

 

Ieri sono stato costretto alla prima fila in aereo, e le ho potute controllare in ogni movimento.

 

Nei momenti morti, una assistente di volo che avevo già visto altre volte si siedeva in un angolo e non vista faceva il sudoku. Durante l'atterraggio parlavano fra di loro di smalto di unghie. E intanto pensavo: per loro siamo numeri. Per loro – giustamente – siamo pecore. Tutti questi esseri umani per loro non sono nulla. Abituate come sono a smistare esseri umani, come faranno poi nella vita privata ad interessarsi ad uno di loro? Siamo numeri, pensavo. E poi:

 

“Tu prendi spesso questo volo” mi dice la hostess durante l'atterraggio.

“Sì” dico io “è come un bus”.

L'ho preso tre volte quest'anno, tre volte andata, tre volte ritorno.

 

Ma la barriera ormai è rotta. Lo stargate fra me che penso a numeri e pecore e disinteressi privati e smistamenti di corpi umani, è rotta. Improvvisamente, nel momento preciso in cui mi davo del povero numero, non ero più un numero.

litigio all'italiana

Osservavo questo video girato oggi a Milano di gente che urla. Il contenuto non mi interessa.

Osservavo i movimenti degli urlatori. Che' non c'e' solo la lingua e i pensieri, ci sono pure movimenti tipicamente italiani. Per esempio nel litigare. Esiste questo modo tipicamente italiano di urlare durante un litigio che consiste nel:

 

1) urlare qualcosa in una direzione/verso qualcuno 

2) girarsi dall'altra parte come per andare via

3) rigirarsi e tornare nella direzione di prima, e urlare di nuovo 

 

Questa sequenza viene ripetuta tre o quattro volte dalla signora coi capelli castani nel video. E davvero questo Far-Finta-Di-Andare/E Poi Tornare e' un movimento che io in vita mia ho visto solo in Italia.

 

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impressioni del recente viaggio in Italia #1

L’Italia e’ il paese del mondo con in assoluto il piu’ alto numero di femmine coi capelli tinti. Era certamente gia’ cosi’ quando ci vivevo anche io, in Italia, ma non ci ho fatto mai caso.

Se non ci fossero tutti questi capelli tinti in Italia – tutti sti biondeggiamenti, rameggiamenti, colpi di sole – sarebbe molto piu’ chiara la nostra natura di razza mescolata ai mediorientali e nordafricani. Sarebbe molto piu’ chiaro qual’e’ la mescolanza di sangue che ci circola davvero nelle vene, che’ quando ti trovi qui in Paese Basso e vedi certe turche per strada ti paiono uguali uguali a certe persone che conosci in Italia – molto piu’ somiglianti delle barbare, perlomeno – solo che non capisci dove sia la differenza principale. Te lo dico io dove sta: nei capelli. Che’ loro li portano o coperti dal velo, oppure non tinti – che senno’ il padre le scoppia di mazzate, evidentemente.

Comunque, in Italia ho passato il tempo a calcolare percentuali di capelli tinti su crani femminili. Le percentuali variano da un minimo (minimo!) del 50-60 % ad un massimo di 100% in certi bar di Roma Termini. Probabilmente la maggiore concentrazione  di capelli tinti in quelle zone e’ da correlare con la vicinanza all’epicentro di questo fenomeno (gli studi televisivi dei programmi di mariadefilippi) anche se non ci sono prove definitive a riguardo.

(e i capelli tinti e altre tante belle cose saranno l’argomento della puntata di "Ma Come Fanno i Benzinai" in diretta con il sottoscritto, oggi a partire dalle 20, come quasi ogni venerdi’, su RadioFlo)

dopo ore di nervosismo

Dopo ore di nervosismo pessimismo e ragionevole fastidio, dopo aver perso tempo fra lavori stradali che io mica posso evitarli, i lavori – ché i cartelli cento metri prima sono scritti in barbaro, porcalamiseria – dopo aver cercato parcheggio per mezz’ora, sono entrato incazzatissimo nell’ufficio anagrafe per cambiare il mio indirizzo ufficiale, e incazzatissimo mi rivolgo al receptionist. Lui ha una camiciola estiva e una faccia cioccolato, e sorride e preme un bottone e sorridendo mi da’ il biglietto e mi dice: Per Gli Indirizzi, Vai Qui. E sorride. Ed io mi ricordo improvvisamente di lui, della mia prima volta all’ufficio anagrafe un anno prima, e di lui che pure quella volta era sorridente e gentile, e quella volta – come questa volta – pareva avesse appena cominciato la giornata, e invece erano le otto di sera. A vederlo così gentile e sorridente ho pensato: questo qui sorride solo quando arrivo io, come in un Truman Show lui sorride solo al mio passaggio. Ed ho pensato, se fosse così, sarebbe davvero incredibile. E poi un momento dopo ho pensato, forse non è un Truman Show, forse lui ha sorriso a tutti, ogni giorno di questo lungo anno, a tutti quelli che come me – probabilmente meno di me – sono arrivati incazzati al suo sportello. Ed ho pensato, se fosse davvero così, allora sarebbe ancora più incredibile.

sono impegnato in questi giorni

Sono impegnato in questi giorni a fare il Cicerone a porzioni della mia famiglia arrivate qui in Paese Basso. Ho misurato lo stupore, il numero di Oooh, e la classifica momentanea vede al primo posto le biciclette – in particolare le biciclette in giro per le strade anche quando piove – , il verde sfrenato (che però è uno stupore accentuato dallo sbalzo Paesello mediterronico in piena siccità vs Paese Basso immerso nell’acqua) e infine il numero sconfinato di pecore e mucche ai lati delle strade. I quartieri a luci rosse non entrano in classifica.

L’altro giorno al mercato dei fiori di Amsterdam ho visto due coppie di italiani, italiani riconoscibilissimi. Il primo maschio portava a tracolla un enorme borsello rettangolare di Louis Vouitton, condito da cappellino e occhiali da sole. L’altro maschio, il maschio dell’altra coppia, al a tracolla, portava lo stesso identico borsello.

una delle caratteristiche dell'emigranza avanzata

Una delle caratteristiche dell’emigranza avanzata, come è quella che vivo, consiste nell’ignorare i tuoi connazionali che incontri per caso in terra straniera. L’emigrante immaturo invece si meraviglia nello scoprire che quello davanti a lui é italiano. Aaahh, italiano pure tu! ti dice. Aaahhh, e di dove? E cosa fai qui?!? E dimmi dimmi, e senti senti. E bla bla. 

L’emigranza matura porta invece con sé il giudizio. Non c’é motivo di meravigliarsi degli italiani incontrati in giro. Anzi, ci si ignora tranquillamente. C’è per esempio questa pizzeria al taglio a due passi dall’università, gestita da italiani. Il titolare è un gradino sotto alla bonanima di Mino Reitano, quanto a italianità, e poi lui e i suoi compari lo fanno proprio apposta, sorridendo e ammicando, ciarlando a voce alta, con quegli “occhi allegri da italiano in gita”, con certi ricciolini in testa, certi nasi. Qui posso ordinare tranquillamente in italiano, e se ordino in italiano la risposta “tre euro e cinquanta” mi viene formulata in italiano. Ma loro sono abituati a queste schegge italiane di passaggio, e io pure mi sono abituato a fare la scheggia, dopo tutti sti anni, per cui non sci i dice nient’altro se non Ecco il Resto, e ognuno poi fa la sua strada, io con la pizza in bocca, loro a strofinarsi le mani sul grembiule. 

Poi fra gli altri c’è questo pizzaiolo che non deve parlare con nessuno, lui fa solo le pizze. È più giovane degli altri, e lo hanno messo davanti al forno a fare le pizze. Da sempre considero il pizzaiolo – soprattutto quelli organizzatissimi, che devono solo strappare il biglietto e prendere manciate di mozzarella dalle coppe – una professione intellettuale. Non per la fabbricazione delle pizze in sé, ma per l’automaticità dei gesti, ché io ne sono certo, a fare tutto il giorno quei gesti sicuramente si finisce per pensare tanto, e chissà cosa, e chissà quali pensieri ti provoca il contatto quotidiano con le olive e le scatole da montare ogni volta con quei gesti sicuri. E comunque c’è questo pizzaiolo, che sta lì a fare la pizza, quelle poche volte che parla esibisce un accento siciliano intatto. E davanti al forno ha un’enorme vetrata che da’ su uno spiazzo dove passano tutti i giorni le studentesse bionde suine di questa università del Paese Basso. Lui le osserva, siciliano, e strozza l’impasto della pizza con le dita. Credo che sia ormai assuefatto a questa vista continua – ogni giorno si alza e ne vede passare a centinaia – e io lo guardo, e penso a quelle tigri degli zoo che dietro il vetro appena arrivate ruggiscono ai visitatori, poi ancora e ancora, e infine si abituano, e quando il millesimo visitatore urla con lo zucchero filato in mano, quelle al massimo tirano fuori la lingua per leccarsi il naso. E poi lo guardo, e così siciliano a pelle scura, mentre fuori ci sono le nuvole e i vichinghi a passeggio, e mi pare pure un orso polare che lo hanno portato in uno zoo dove non c’entra niente, lo hanno portato, chessò, a Cosenza.  

Poi finisco la pizza – sempre di frettissima – infilo le cuffie anche quando so che non ascolterò nulla, e vado via.