Dovessi mai essere intervistato da un giornalista di una trasmissione d’inchiesta d’assalto tipo Report, accetterei solo a patto di essere ripreso con le stesse identiche luci e inquadrature dell’intervistatore. E quindi esigerei – come il giornalista che mi intervista – di non essere ripreso in faccia da molto vicino, di non essere ripreso dall’alto verso il basso, di non essere ripreso con le luci sbagliate in faccia. Nell’era della comunicazione tutte queste cose possono – purtroppo – fare la differenza. Anche quando hai qualcosa di sensato da dire, farai la figura del deficiente messo in difficoltà.

Ci fossero forze NATO disoccupate, si potrebbe mandarle a lanciare bombe di pace su un programma che vedo in questo momento sulla televisione italiana – si chiama pechinoexpress – nel quale dei truzzi prevalentemente milanesi maltrattano poverissimi cittadini del sud est asiatico chiedendo di essere alimentati o ospitati gratis, smanacciando e smaniando in un inglese approssimativo come se si rivolgessero a delle bertucce, sputando disgustati i cibi locali a favore di telecamera. Qualcosa che va dritta al terzo posto fra le manifestazioni più beatamente razziste di cui sono mai venuto a conoscenza, appena dopo il colonialismo del 900 ed il turismo sessuale.

pattern

Le coppie di femmine che si trovano contemporaneamente single, e diventano amiche amiche amiche, escono sempre insieme, trascorrono tutto il tempo insieme, facciamo questo facciamo quello, vogliono lo stesso tatuaggetto all’henné, poi una delle due (o tutte e due) trovano un uomo – obiettivo goffamente celato fino a quel momento – e allora non sono più amiche amiche amiche, non sono più facciamo questo facciamo quello, si incontrano per caso in un bar sei mesi dopo si dicono ciao distratte.

mandare a fare in culo

Se penso alla vicenda della presunta omofobia del Sig. Barilla, sento un’irrefrenabile voglia di mandare a fare in culo tutti. Tutti indistintamente.

Mandare a fare in culo il Sig. Barilla ma non perché presunto omofobo, piuttosto perché così stupido da cascare nel tranello di giornalisti iene che non aspettano altro che la dichiarazione choc, per poi saltellare battendo le mani tutti eccitati e lanciare la notizia all’Ansa.

Mandare a fare in culo quelli che protestano e invitano a boicottare la pasta Barilla, perché non comprendono il significato di pubblicità: a questo punto mi chiedo perché non rappresentare anche i maschi sfigati nelle pubblicità di automobili (non hanno diritto pure loro ad essere rappresentati?), e anche le donne tarchiate nelle pubblicità dei cosmetici (non hanno diritto pure loro ad essere rappresentate?). Mandare a fare in culo quelli che “queste cose nei paese civili non succedono” perché non sanno quello che dicono. Tutti quelli che pensano – aderendo alla protesta, amplificandola, esasperandola – di aiutare il mondo omosessuale. E mandare a fare in culo me stesso che ne scrivo quando mi ero promesso di non farlo.

da morire

Un poco mi affascinano queste notizie di uomini che si suicidano per il dolore di rapporti che sono finiti male. O che stanno per finire male. L’ultimo caso ieri, una notizia piccola persa tra altre più importanti. Succede spesso.

E’ provato che sia tanto più frequente tra gli uomini. Fra tutte le possibili  interpretazioni, si potrebbe scegliere quella per cui certi uomini non sono in grado di gestire i sentimenti, e le perdite, che poi sarebbe lo stesso motivo dei delitti passionali quando le cose prendono una piega peggiore. Sarebbe pure un’interpretazione plausibile, quella della debolezza.  Oppure si potrebbe scavalcare tutte le spiegazioni e contemplare soltanto il romanticismo shakespeariano di questi romei che ad un certo punto, non ce la fanno.

distacco dal paese reale #2

Si e’ gia’ scritto qualche post piu’ sotto del blog Solferino 28 di Corriere.it dove vengono raccontate storie di ragazzi e mondo del lavoro. Se ne e’ scritto non perche’ queste storie siano particolarmente interessanti (alcune lo sono) ma quanto piuttosto per come i giornalisti “giovani” scelgono e trattano queste storie.

Nel senso (e lo ripeto): questi sono giornalisti “giovani” che nella maggior parte dei casi hanno avuto una vita professionale comoda e lineare, senza spostarsi troppo da casa, senza particolari tribolazioni, e cosi’, appena leggono la storia di un ragazzo normale, considerano questa storia “straordinaria”. Il loro meravigliarsi offre una misura di quanto sono fuori dal mondo.

L’ultima prova e’ in questo articolo, dove la giornalista racconta la storia di Tommaso, architetto di 30 anni. La sua storia in breve: laurea con il massimo dei voti, due anni di lavoro in Marocco, poi lavoro Londra, prima in uno studio, poi in un altro.

Scrive la giornalista: “una storia che ha dell’incredibile“.

Ora, senza cominciare il solito pippone su quanti mila ragazzi nelle stesse identiche condizioni vedo ogni giorno, che hanno fatto quasi lo stesso, oppure di piu’, e di quanti ne so in giro a fare altrettanto, mi basta leggere la biografia della giornalista che ha scritto l’articolo:

Sono al Corriere da sei anni e da allora resto la giornalista piú giovane del giornale. Anche se il primato ormai scricchiola. Ho compiuto 29 anni a maggio, scrivo nella redazione spettacoli e sono felice di fare un lavoro in cui ogni giorno puo capitare qualcosa di diverso e inatteso. Spesso é anche qualcosa di bello.

Ora, Chiara, qui non si discutono le capacita’ e i meriti. Pero’ se sei nata appena dietro l’angolo di Milano, hai cominciato a lavorare a Milano appena laureata alla prima testata giornalistica italiana, e dopo 6 anni sei ancora li’, sei tu la storia “che ha dell’incredibile”, non chi va in giro cercando un buco in cui infilarsi.

a forza di andare e tornare al tuo paesello

A forza di andare e tornare al tuo paesello dell'estremo Sud, impari davvero cosa significa estremo Sud. Lo impari per davvero, mica per finta come quelli che ti parlano di sapori odori colori ritmi passione e cultura. Cazzate. Cazzate parzialmente vere, ma in grandi linee pur sempre cazzate.

 

Le mettiamo nella bocca di quelli del Nord quando parlano di Sud, così come noi terronici parleremmo di culla dell'umanità se andassimo a fare un safari nello Zimbabwe. E non so se fanno safari in Zimbabwe, non so se si scrive Zimbabwe.

 

Dicevo, impari cosa sono i dettagli del Sud.

 

Per esempio entrare in uno studio fotografico ché ti serve la fototessera e ci trovi sulle pareti le fotografie scattate ai matrimoni dal mastro fotografo. Queste sono evidentemente le migliori immagini scattate dal mastro e che vengono esposte per invogliare gli altri a farsi fotografare dal medesimo mastro fotografo. A parte l'aurea leggermente mariadefilippiana di molte delle espressioni facciali dei matrimoniati, la cosa che ti colpisce di più – e che ti fa moltissimo Sud – sono i matrimoniati con gli occhiali da sole. Solo ieri pomeriggio hai contato 6 fotografie enormi con gli sposi in occhiale da sole.

 

Lenti grandi, da insetto.

 

Quindi, non solo decidi di indossare occhiali da sole da insetto al matrimonio, non solo non ti accorgi che forse dovresti toglierle al momento delle fotografie, non solo pure la sposa tua le indossa e le sembra normale, non solo il fotografo non urla toglietevi quelle cazzo di occhiali da sole che vi sto scattando le foto del giorno si presume più bello della vostra vita – o perlomeno iconograficamente più significativo – non solo il fotografo poi scatta le foto, non solo non le butta nel cestino quando le rivede, non solo le stampa e i matrimoniati approvano, ma poi addirittura le foto vengono pure esposte come per dire, ragazzi giovani e fertili del circondario, questo è il modello per i matrimoniati a venire, questo è l'apice, a questo dovreste voi tutti aspirare. È l'apoteosi. Esco dallo studio inondato da una luce di consapevolezza estrema di estremo Sud, di kitch all'olio d'oliva e origano che non vi dico.

poi uno dice gli alieni

Dice che sono soltanto dettagli, pero’ esite una fetta di esseri umani che comprano camicie con il collo alto e la decorazione all’interno, il collo che svetta fuori dalla giacca coi fiorellini nella porzione interna.

Esistono.

Eppero’ non c’é nessuno tra le mie conoscenze italiche ed estere che lo faccia. Cioe’, queste persone esistono per davvero, ci sono le prove, eppure non ho nessun contatto con loro. Non ho il numero di telefono ne’ l’indirizzo email di nessuno di questi. Eppure esistono. Sono tra noi. Poi uno dice gli alieni. Poi uno dice che sono solo dettagli, poi uno dice il colore della pelle, la religione, la politica, e si dimentica delle camicie.

gli italiani quando li incontri

Gli italiani quando li incontri in gruppo non essendoci più abituato, hanno gli occhi dolci da volpe. Dolci, ma pur sempre da volpe. Li guardi in faccia e di colpo ti ricordi tutto, da dove vieni e con chi hai vissuto fino a qualche anno fa. Ti ricordi di quella signora che in cucina preparava il cenone di capodanno con le amiche, seminando battute truci e poi guardando gli altri negli occhi per vedere se ridevano, che è una cosa tantissimo italiana. L’italiano ha un sapore particolarissimo, solo che fino a quando ne sei circondato non puoi conoscerlo. Queste stature medie, questi capelli scuri oppure tinti, e questi cappottoni da Alaska quando non serve. Il trucco delle ragazze. Le bestemmie. E la sensazione, quando ti ci trovi in mezzo, di essere dentro una gita scolastica. Tu che quando le gite scolastiche le facevi credevi che quell’atmosfera fosse dovuta all’età; son dovuti passare vent’anni per capire che non c’entra l’età. Non c’entra niente.

Al No B Day di Amsterdam ci sono poi passato. Tardi ma ci sono passato. Mi ha fatto piacere vedere che non ci fossero speciali bellicismi da parte dei presenti. Tutto tranquillo. I giapponesi facevano le foto. Cantavano Bella Ciao, sti ragazzini – ché di ragazzini per lo più si trattava – e vai a capirne il motivo. Ogni motivo che provo a darmi non mi da pace. E lo cantavano tutti assieme, non è che prendo l’estremo per ridicolizzare il gruppo. Tutti assieme. Rimane il fatto che non si migliora se governa uno oppure un altro, ma si migliora solo se si evitano fazioni di ultras, e se si ha la pazienza, dopo una giornata a cantare Bella Ciao che non c’entra nulla, di leggersi i giornali pure nelle pagine di Economia, o interessarsi ai riassunti dei disegni di legge, facendolo senza pregiudizio e con tranquillità. Qualcuno lo farà anche, ma in quella allegria caciarona ci ho anche rivisto i miei compagni di scuola delle occupazioni, così felici di urlare al corteo, così sbadiglianti quando arrivavo con le fotocopie del decreto da leggere almeno una volta per capire di che cosa si trattava quella legge che portavano in giro scritta sugli striscioni. E c’è sempre tanta tanta confusione, in quella che viene vista come la parte positiva del Paese, e invece è sempre la stessa sotto diverse bandiere (a volte sempre le stesse) che si muove tra la consapevolezza di alcuni e la tanta confusione di altri. Tantissima confusione. Quando ieri al No B Day di Amsterdam qualcuno ha urlato che il povero Cucchi, fosse stato ancora vivo, sarebbe venuto anche lui, pare che nessuno abbia alzato la voce per lanciare un vaffanculo da spaccarsi le tonsille.

non ricordo di averne parlato ma se ne parla lui

"…dovrebbe essere istruttiva per i sociologi di queste cose l’iniziativa di Ralph Lauren di produrre polo e camicie in cui il logo è diventato enorme, pacchiano e deturpante: ma è evidente che c’era un problema di clientela insoddisfatta della scarsa visibilità del marchio. E infatti da due anni vanno fortissimo, in giro. Almeno tra gli italiani, vil razza firmata…"

rubato da Sofri Luca, "Sulla felpa che noi portiam"

qua si insiste con la storia dell'invidia

Qua si insiste con la storia dell’invidia di cui già qualche giorno fa. Adesso si mette a parlare il brizzolato tecnico di macchine supervelocissime. Secondo lui tutta sta storia che il signor S.B. si invita a casa donnine nude e le riempie di soldi e braccialetti e poi – per farle stare buone e zitte – le piazza a lavorare con gli amici suoi, è tutta invidia. “Invidia per la gente che ce l’ha fatta”, dice il brizzolatissimo.

Che poi: invidia?

A parte quello che si è già detto su questo concetto distorto e pretestuoso dell’invidia, poniamo il caso fossi invidioso. Allora, io adesso sono invidioso, giusto? Benissimo. Vuol dire che se lui, l’oggetto della mia invidia, fa il puttaniere, allora voglio farlo pure io. Benissimo. Posso fare il puttaniere? Mah, aspetta un momento che controllo i quattro soldi che ho da parte. Non sono granchè, ma direi di Sì. Del resto da queste parti sarebbe anche legale. Per capirci il puttaniere riesce a farlo chiunque si trovi qualche decina di euri in tasca e una mezzora da spendere. Allora, visto che posso, vado a fare il puttaniere?
No.
E dunque?
Qualcuno a sto punto dovrebbe spiegarmi la mia invidia, perchè io da solo non ce la faccio.     

che poi diciamola tutta

Che poi diciamola tutta, l’integrazione fra culture diverse é una bella parola, ma poi in pratica anche un bel casino. Insomma, vada pure per le culture diverse, ma mentre faccio ticchi ticchi sulla tastiera qui fuori c’é un mondo che in teoria sarebbe multiculturale (no, davvero, tu guardi ste facce dai colori diversi e pensi: cacchio che multiculturalitá…);  un mondo in teoria di giovani multiculturali – non c’è bisogno di andare lontano, basta uscire da questa stanza e spiare nell’atrio di questa universitá – dove peró nella sostanza i pallidi gialli olandesi sono in gruppo coi pallidi gialli olandesi, gli abbronzati sono con gli abbronzati, cinesi coi cinesi eccetera eccetera. E stiamo parlando di ragazzi tutti nati qui, di seconda o di terza generazione. E d’altra parte non potrebbe essere altrimenti, ché se tu sei iraniana, di solito tracagnotta e c’hai il velo sul cranio – e spesso anche un lungo monociglio che ti taglia orizzontalmente la faccia – poi hai voglia a parlare di integrazione (che, come detto, é una bellissima parola) se poi ti ritrovi in mezzo a dieci coetanee tue peró gialle pallide alte due metri e con le guance rosee.

Te lo dicono alla scuola materna, che siamo tutti uguali, peró a parte le parole (bellissime, come detto), un ragazzino  di sangue nordafricano, anche se nato nel Paese Basso, o a Cernusco sul Naviglio, avrá sempre addosso quella inquietudine e scaltrezza e modo di guardarsi attorno come una volpe che attraversa la strada di notte – cosa ci vuoi fare? é nel sangue – e se lo metti in mezzo a quattro pari suoi con la faccia da Kings of Convenience, calmi e posati, tu vuoi che quello poi si senta a suo agio? Allora é pure comprensibile che vada a cercarsi altri quattro simili di seconda o terza generazione per formare il gruppetto di scugnizzi con cui andare a farsi i giretti in centro (come infatti fanno, e poi li trovi nell’autobus che parlano perfettamente la lingua del posto, ma che lo stesso di autoghettizzano in gruppetti pseudopatriottici). Il fatto é che certe volte le differenze esteriori sono eccessive, ed il massimo che si riesce ad ottenere é il rispetto della multiculturalitá, la pacifica convivenza, ma quanto a mescolare le persone, quello pare molto piú difficile, perché ci sono monocigli e ricciolini corvini che hanno potenza di gran lunga superiore a tante altre belle parole (che restano comunque bellissime, sia chiaro).

facebook, il manifesto

Premesso che un iscrizione a Facebook non è da escludersi, ma solo in un ipotetico futuro, se mai Facebook dovesse diventare indispensabile alla mia vita su questo pianeta.     

Premesso che parlare di Facebook non è cosa da poco, perchè significa parlare di comunicazione e di quello che sta diventando oggi la comunicazione, e di come tutto questo influenzi la nostra concezione di comunicazione (per noi che esistevamo anche prima di Facebook) senza contare che questo sarà più o meno il modello di riferimento per quelli che verranno dopo di noi (perchè non sapranno com’era la vita prima del social networking).        

Dichiaro che la mia opposizione a Facebook è dettata dai seguenti motivi:

Se non ci fosse, non ci sarebbe assolutamente bisogno di inventarlo.         
FB non aggiunge niente a quello che già c’era. Vuoi comunicare con qualcuno in particolare? Vuoi comunicare col mondo? Oppure solo con una ristretta cerchia di amici? Bene, hai la mail, Skype, Messenger, i blog (privati, o pubblici), gli spazi web gratuiti, i siti per caricare fotografie e video, siano essi privati o pubblici. Te li scelgli tu, come piacciono a te. La differenza è che con FB è tutto integrato in una sola cosa. Che poi vuol dire, in altre parole: ci sono molti più vincoli. Ma soprattutto: è un bisogno che ti è stato proposto. Non ne avevi bisogno, poi te lo hanno proposto ed hai pensato: cacchio, ne ho proprio bisogno! Lo voglio! Come i telefoni zeppi di optional che poi alla fine non usi. Non ne avevi bisogno, ma poi lo hai comprato lo stesso perchè era troppo bello. E adesso con FB i vostri dati sono tutti lì, non più sparpagliati nella marea di internet, ma belli incasellati e pronti per la consultazione. Contenti voi.        

Io di amici ne ho al massimo, ma proprio volendo stare larghi, una quindicina.           
Con FB invece si raggiungono le centinaia, se ci si lascia andare a considerare “amici” anche vecchie conoscenze, colleghi e il fratello della fidanzata della zia morta vent’anni fa in Lussemburgo. Una cosa bella di FB è che pure non essendo iscritto, posso vedere chi sono gli amici delle persone che conosco. Ed io so benissimo che alcuni fra quelli che vedo non sono nemmeno lontani conoscenti. Alcuni proprio si odiano. Il numero di “amici”, poi,  è una delle prime informazioni che ti danno, e sta sempre lì in evidenza.. Tizio ha tanti amici, mentre Caio qualcuno di meno, ma promette bene. Nasce il sospetto che per il Facebokkiano diventi una gara ad accumularne sempre di più. Nella mia vita normale non mi sono mai posto il problema di pensare quanti amici ho – tranne in questo momento – o quante persone conosco. È irrilevante. È qualcosa che fa parte dei telefilm americani, dove si parla della ragazza pon pon “popolare” confrontata con la “sfigata” che sta sempre nell’angolo che ha solo due altre amiche sfigate come lei.       

Ma che fine hai fatto? E come stai? E dove stai? Ma pensa te.      
E poi niente più. Voglio dire, puoi pure ritrovare il vecchio amico che non sentivi da dieci anni – questo lo concedo, può succedere, che bello – ma quanti degli amici ritrovati ti eri impegnato a cercare? Chi cerca trova: tu hai cercato? Li hai aggiunti ai tuoi amici perchè FB ti ha fatto nascere il bisogno di «cercare amici perduti» o davvero ci avevi provato in passato, di ristabilire un contatto con loro, e non ci eri riuscito? E quando li hai trovati, hai poi ristabilito un rapporto con loro oppure ci scambi frasi smozzicate in chat? Li hai poi chiamati al telefono, questi amici ritrovati? E adesso vi sentite come prima o è stata solo una carrambata di una sera? E se è stato solo un momento – ma magari No – però adesso questi mezzi sconosciuti verranno a spulciare ogni giorno nelle tue cose, e allora quello che scriverai, le fotografie che metterai, saranno influenzate da questo sbirciare, che per alcuni è anche compulsivo.             

Affezionato a certi ricordi, non mi va di barattarli con nulla.     
Ho pochi amici, alcuni li raggiungo con la voce via internet, mentre alcune persone – che ci sono cresciuto insieme – non le vedo quasi mai. Ci rivediamo una volta all’anno, oppure meno, e ogni volta, quando succede di reincontrarsi sono sinceramente felice di avvicinarmi a loro, di incrociare il loro lo sguardo, della pacca sulla spalla che ricevo, di quella che do,  dell’odore che riconosco e che riporta immagini agli occhi, della mezza ruga che scopro sulla faccia, e di tutto quello che è stato e che ho cristallizzato da qualche parte nella testa. Mi piace il reincontrarsi, mi ricorda la trama di Due di Due, mi pare giusto che le cose vadano così, e se proprio non è giusto – se anche potrebbe andare diversamente – mi piace che nella mia vita vada proprio così, che ci siano questi momenti. Mi piace ascoltare il racconto dei cambiamenti, riconoscere le espressioni facciali mutate nel tempo ma che in un certo senso sono sempre quelle. Mi piace poi dirsi Ciao che tanto prima o poi ci si rivede, e invece già lo sai che passeranno mesi ma anche anni, però comunque la prossima volta sarà bello uguale. Magari si può cancellare tutto questo tenendosi in contatto continuo (con relativo aggiornamento fotografico) e nessuno garantisce che sia sbagliato – fatelo pure, voi Facebookkiani – ma io ste cose voglio tenermele così come sono, e voglio sapere che negli anni potrà essere ancora così.              

Il tempo che porta via.           
Ore e ore. Va bene, tu invece lo sbirci solo una volta al mese. Però si dice in giro che FB porti via molto tempo, e che scateni un atteggiamento compulsivo trascinando verso la dipendenza. Se ho tempo, scrivo. O corro, o leggo. O studio. Soprattutto leggo. Mi manca solo diventare dipendente di un giochino succhia tempo.      

Siamo soli.            
Questo è un concetto filosofico: noi siamo soli, e saperlo fa un po’ male. È una cosapevolezza che si cerca di tappare con le pezze che si hanno a disposizione. La socialità compulsiva, le amicizie morbose – una volta era ciondolare al bar – adesso i messaggini, il social networking, il chatta chatta. Per alcuni queste sono solo delle pezze. Sono solo un rimandare il momento della consapevolezza, oppure per lenire il dolore di questa consapevolezza. Sono molte meno ore da soli con noi stessi, le ore che non va di sopportare. Gli amichetti virtuali, il plin plin dei messaggi che arrivano in chat, tutto questo aggrapparsi ostinatamente agli altri, sono analgesici che funzionano finchè ci credi. Io cosa posso farci, non ci credo. Non ci riesco. Cosa posso farci.           

+961% solo nel 2008, ma si sgonfierà.          
Però intanto siete stati i cerini di questa fiammata. E siete pronti per fare i cerini della prossima che prima o poi arriverà.  

ecco perchè poi preferiscono il cloro dei parchi acquatici

I giornali cominciano a mandare le immagini dei Vips al mare. Io da salentino non posso fare a meno di notare come il mare in cui i Vips si immergono sia praticamente uno schifo di brodo. Una minestrina di fango. Ricchi come sono, famosi come sono, vanno ad immergersi in acque torbide e melmose che non riesci a vederti nemmeno i piedi. E la spiaggia color terra, poi, che tristezza.

ma come minimo, proprio

Siamo tutti d’accordo che accoltellare un figlio perchè gay non è una bella cosa. Però sto benedetto figliolo non era soltanto gay, ma aveva pure lasciato gli studi per fare il modello. E non solo aveva deciso di fare il modello, ma dopo mesi di foto spedite alle varie agenzie, per sua stessa ammissione “non aveva ancora ricevuto alcuna risposta”. Ora, suo padre non era un professore di semiologia, era solo un pregiudicato palermitano, e si fa a presto a dire che certe cose vanno risolte con il dialogo, ma se sei un pregiudicato palermitano incapace delle parole forse – non dico una coltellata – ma almeno cinque dita stampate sulla faccia ti vengono come minimo naturali.