scopro

Scopro interesse nell'osservare coppie che stanno insieme da trent'anni mentre ballano un lento, ma solo perché mi accorgo che sorridono e che hanno qualcosa da raccontarsi proprio in quel momento, e proprio quel raccontare le fa sorridere. Hanno ancora qualcosa da raccontarsi, e perciò sorridono, ecco cosa.

 

Che poi non sono loro, lo stupore é per me che me ne accorgo, visto che prima non me ne accorgevo. Adesso me ne accorgo.

 

Potessi scegliere, vorrei un capodanno tra gente che non conosco dove nessuno me lo fa notare – che è capodanno.

poi mi succede di questi tempi

Poi mi succede di questi tempi di avere espressioni facciali che forse invogliano a rivolgermi la parola. Io che sono sempre nell’angolo che ringhio senza fare rumore. Allora la gente mi rivolge la parola.

 

Lei e’ la nuova segretaria di uno dei posti dove lavoro. Ha cinquant’anni, un nome spagnolo ma una faccia e un accento britannico. Siede di fronte a me. Di solito le posso vedere la frangia mentre il resto del viso e’ nascosto dallo schermo del computer. Ci ritroviamo a parlare del ComeMai ci troviamo oggi li’ nella stessa stanza, con una finestra che da sull’autostrada e l’asfalto ghiacciato. Lei viveva in un’isola del sud della Gran Bretagna quando ha conosciuto il marito, uno che lavorava sulle navi, e che talvolta veniva sull’isola. Arrivando sull’isola ha incontrato lei, e se l’e’ portata via. Dopo dieci minuti di scambi di considerazioni sulla vita in Paese Basso, ci si possono permettere osservazioni piu’ dettagliate e metafore piu’ efficienti. Ogni volta e’ bello scoprire di essere compresi fino nel profondo di quello che vuoi dire. Non capire in generale, ma capire proprio quella sfumatura precisa che t’e’ venuta fuori in quell preciso momento. Che ti viene da considerare che conta quello, potresti parlare per tantissime ore solo a partire da quello.   

 

Dopodomani comincia il mio tour italico da Nord a Sud. Si comincia dall’andare a trovare il fu Cuggino Rasta a Milano – a proposito, si accettano consigli su cosa vedere, quali strade fare, in una domenica mattina muovendosi da Piazzale Libia per andare in centro – e poi di certo anche Roma. Ho voglia di vedere le cose che vedono quelli che ci abitano.

c'è una luce nel bagno di uno dei posti dove lavoro

C’è una luce nel bagno di uno dei posti dove lavoro, che mi guardo allo specchio e mi vedo verde.

Io le giornate che devo passare con la camicia nei pantaloni sono giornate che partono con lo svantaggio.

Poi scopro che nella palestra di uno dei posti dove lavoro – che abbiamo pure la palestra, a circa 60 metri dal mio studiolo, andando sempre dritto – scopro che hanno una luce diversa, sono meno verde di quello che credevo. Sembro pure più alto. Io sono alto, ma qua sono tutti alti, e quindi.

A pranzo scopro collega preciso che ha un millimetro di barba, penso che allora posso pure io magari crescermi sti due millimetri di barba, che senza millimetri di barba é come le camicie nei pantaloni, la giornata parte con lo svantaggio.

Io mi faccio calcoli del genere. Penso che ho sbagliato la considerazione, di poco prima, perché collega preciso è davvero preciso anche su altre cose, ha le scarpe molto lucide e gli occhiali senza la montatura (insomma quelli, come si chiamano?) quindi nel complesso il millimetro di barba non lo vedi nemmeno. Io invece ho la camicia che non la stiro bene, eppure mi impegno tantissimo.

Tornando a casa c’era un arcobaleno come quello dei cartoni animati, arcobaleno proprio come dice la parola – almeno per quanto riguarda l’arco, era un arco, il baleno non lo so ma dire pure quello – e mi immaginavo che avrei guidato fino a passarci di sotto.

E inseguendo l’arcobaleno pensavo si spendono tantissime parole su come e quanto si cambia, e  che la gente che si spaventa che cambia, e quanto cambia, e si meraviglia di ciò. Io troppo spesso mi meraviglio di quanto nonostante gli anni sto cambiando pochissimo. E’ una giovinezza patologica che devo mascherare ogni mattina.

uno se lo immagina da giovane

Uno se lo immagina da giovane, di entrare in un posto dove ti vedono e chiedono “il solito?”, al che tu rispondi il Solito senza incrociare gli occhi del tizio dietro al bancone. Uno se lo immagina da giovane per tutta la vita – a me doveva succedere in questo momento storico, in questa pizzeria italiana del Paese Basso, dove entro e quello dietro al bancone mi chiede se è il solito, e io rispondo “Sì”, oppure rispondo “il Solito” – se per caso sono in vena di usare due parole invece di una.

E poi mi giro dall’altra parte a mangiare, senza parlare con nessuno.

Osservo oltre al vetro giovani barbari che passeggiano in maniche corte perché il calendario ha suggerito loro che è il momento delle maniche corte, anche se poi i dieci gradi vigenti attualmente dal dietro al vetro li intuisci tutti, compreso il vento che schiaffeggia il petto alle giovani donne. Ché forse quella maglietta è stata appena acquistata, e allora.

E poi tu, cinese che condividi la stanza di questo edificio universitario. Io lo capisco che vuoi essere amichevole: sei straniero come me, sei in quella stanza insieme a me, e cerchi di attaccare bottone. Io lo capisco, inizialmente pensavo fossi gay (e mi facevi tornare alla mente quel coinquilino cinese gay dell’anno scorso, con un grosso neo sul petto glabro che lo notavo sempre per quella sua mania delle magliette scollate a V) poi dopo ho capito che invece No, epperò cosa vuoi che ti dica io, sociopatico come sono.

E poi non sei nemmeno cinese, sei del Taiwan, che per quanto mi riguarda non è neanche un luogo, io mi fermo al Made in Taiwan. E il tuo nome, inutile che me lo ripeti, non mi entra nella testa, con le consonanti tutte diverse, cerco di imitare il suono della tua voce, tu mi correggi ma poi io ci provo di nuovo con entusiasmo sempre minore e penso al caffè, quasi quasi mi faccio un caffè. Tra l’altro parti fra un mese e torni in MadeinTaiwan, e pure io volendo senza motivo aprirmi una cerchia di amicizie taiwanesi, tu parti fra un mese, e allora. Capisci che io ancora scambio email coi compagni di scuola che non vedo da tipo due anni?

E poi a metà mattina il riparatore di computer mi chiama al telefono per dirmi che il mio laptoppino è pronto. Parlerebbe in inglese, ma visto che ha imparato “une poco de italiano pe’ strada” allora vuole spiegarmi tutto in italiano de’ strada (ma in che senso per strada? Quale strada?). E io dico va bene, ma se parlo italiano lui non mi capisce, parla di “conneblessi del reggistrazione” e allora ci sono io, praticamente, che parlo italiano deficiente in corridoio, spiato dai barbari che passeggiano dopo l’ora di pranzo.

ho un

Ho un collega sempre molto felice. Di quelli che puoi definire “gioviali”, tenendo ben presente che “gioviale” vorresti fosse l’ultimo aggettivo del mondo da affibbiare a te stesso. Il collega pronuncia qualsiasi cosa, e poi ride. Inconsciamente vuole spingerti a ridere con lui della nullita’ del momento. Dunque puoi ridere oppure No.

Se ridi, é assurdo, visto che non c’e nulla da ridere. Se non ridi, é assurdo, perche’ mentre lui ride tu sei serio che passi oltre. Quest’ultima scena é accettabile solo nel caso delle sit-com americane, dove comunque ad un certo punto partono le risate registrate. Il meccanismo di “trascinamento coatto nella risata” ti appare cosi’ chiaro che finisci per odiarlo, anche se di fatto é una brava persona. Siccome intuisci la base di quel meccanismo (LO SO che non sei spensierato come appari, LO SO che ridi per compensare qualcosa, LO VEDO BENE che dietro ci sono le tue paturnie tirate sotto al tappeto) sei irritato e tra ridere e non ridere, finisci per sfoggiare contratture di una sola guancia che non dice niente. Lo fa con tutti, la sua fame di attenzione é abbastanza evidente. Gli altri si fanno trascinare, ma proprio perche’ non c’e niente da ridere, se ne escono con versi sbuffosi, la versione della risata meno dispendiosa di energia che esista.  

É che sono ancora giovane – mi viene da pensare. Un giorno sapro’ convivere con tutto questo. Cioe’ convivere con la visione chiara del meccanismo sottostante, e produrre pure io la finzione conveniente.

Mi dicono Hai il Broncio, cos’é quel Broncio? Ma guardate che io sto bene, verrebbe da rispondere, Benissimo. Assolutamente Tranquillo. Quello che vedi é quello che sono in questo preciso momento storico, e mi rappresenta totalmente – peraltro, con gli occhi fissi sul monitor, che faccia dovrei avere? Anzi sai cosa? Sto Broncio mi pare onestissimo. Fierissimo del mio Broncio – se vogliamo dirla tutta – insomma

uno dei problemi principali

Uno dei problemi principali del lavorare, per quanto mi riguarda, e’ che riesci tanto meglio quanto piu’ costringi tutta la tua personalita’ dentro recinti di schiene dritte, saluti standardizzati, battute contenute. La considerazione che si fanno gli altri di te e’ proporzionale a quanto sei capace di restare discreto e contenuto. Certo, e poi quanto sei bravo e veloce sul lavoro eccetera eccetera. Ma l’apparenza conta perlomeno la meta’. Contano i risultati, ma conta pure se indossavi una camicia stirata, mentre raggiungevi quei risultati. Per il me stesso di oggi questo e’ abbastanza difficile, perche’ per me la vita sta tutta compressa proprio in quelle sbavature che non dovrebbero esserci, e che invece ci sono. Nelle osservazioni che ti vengono all’improvviso e che collegano cose che non c’entrano niente, e che pero’ dimostrano che c’hai uno sbriccicolio da qualche parte nel cervello che fa le capriole.

camera trovata

Camera trovata. Enorme botta di culo. Ho cambiato così tante volte casa, e ho messo così tanti annunci in giro, che alla fine un vecchio coinquilino di una delle mie case passate ha visto il mio annuncio su internet (titolo: “not possible to live under the bridge”) e mi ha chiamato. Aveva cambiato casa pure lui. Adesso viviamo di nuovo insieme ma in un altra casa. Mi è toccata in sorte la camera del suo uomo che è dovuto andare via dal Paese Bassoper un po’. Che culo. La camera è finalmente enorme, con tre enormi finestre che danno sul quartiere. Una delle ragazze che viveva qui non conosceva bene la camera. Quando l’ha vista è rimasta sconvolta, la voleva lei ed è scoppiata a piangere. Io non sapevo cosa dire, mi sono fatto da parte e mi sono interessato alle bollette scritte in barbaro appese in corridoio. Mio vecchio coinquilino che sarebbe poi il prototipo dell’uomo perfetto già descritto su queste pagine tempo fa. Ho rincontrato la sua pianta d’appartamento nella sua nuova camera. Io adesso non so voi, ma a me non era mai successo di conoscere una pianta, prendersi cura di questa pianta (per sei mesi, mentre lui era via in Spagna) dormirci insieme, poi andare via per quasi un anno e rincontrarla in un altra casa. Entrare in una stanza ed esclamare: toh, ma io ti conosco! Sei…sei la pianta! Ecco, sono queste le cose che mi succedono.

Ho scaffali ampi e un nuovissimo parquet. Se pure uno non trovasse motivi per guadagnare tanti soldi, almeno dovrebbe farlo per vivere in un luogo decente in un quartiere decente. Nei quartieri meno sfracellati pure le facce sono diverse. Pure le facce. Il modo di camminare. La gente va a correre con le cuffie nelle orecchie. Però sta cosa di spostarsi sempre, alla fine succede che non faccio più caso a tante cose, per esempio le chiavi di casa mi sono state date con un portachiavi di legno intarsiato che io ho preso e messo in tasca, senza chiedermi perché, senza chiedermi cos’é. Questo non lo fanno le persone normali, le persone normali lo sanno cosa hanno in tasca. Se glielo chiedi te lo spiegano (“l’ho comprato ad un mercatino in Nepal un giorno che pioveva in diagonale”) io invece prendo e metto in tasca. Me lo chiedessero, direi che ne so. Non lo so.

perdere il sonno

Perdere il sonno per troppe notti consecutive non mi fa bene. Poi succede di tirarmi su dal letto dopo l’ennesima notte, e non ho nemmeno la forza per muovere le dita. Eppure sto scrivendo, no? Dunque sono vivo. Eppoi, vivere in una micromansarda incastonata fra le tegole del tetto di una casa barbara – dove parte delle tegole sono state sostituite dal vetro delle finestre – significa che quando piove di notte è come se ti stesse piovendo direttamente sul cranio. Ieri tornando a casa ho visto un cowboy – giuro – seduto in salotto assieme alla padrona di casa, che bevevano un the. Poi ho aperto la porta e  invece c’era un filippino mai visto fino a quel momento, che si infilava le scarpe in corridoio. Era il fidanzato filippino di una filippina che avevo visto due volte. Una che le docce la notte se le fa tra l’una e le due, di solito le notti che non piove, così ho una uniformità continuativa di insonnia assicurata.

la babbiona tenutaria di questa casa

La babbiona tenutaria di questa casa mi fa impazzire. Raccolta differenziata, va bene, ci sto. Però santiddio, rendimi le cose umanamente possibili. Devo cucinare un pezzettino di carne e scartare un’insalata pronta? Sembra facile, non lo è. Metto il pezzo di carne in padella, e la confezione rimanente scopro che va buttata in un particolare scatolo segreto, che per trovarlo devi uscire di casa, andare in giardino, e allargare le pupille come fanno i gatti per vedere al buio, altrimenti il particolare scatolo non lo troverai mai.

La parte cartacea va invece nel bidone della carta, che però si trova fuori dalla casa, dall’altra parte, quasi sull’asfalto della strada. Siccome in casa si cammina senza scarpe – è tassativo – allora devi metterti le scarpe, uscire fuori e gettare la carta nel bidone. Poi togliere le scarpe e correre alla padella, che sennò si brucia tutto. Quando hai finito di cucinare, l’olio dentro la padella non può andare nel lavandino, ma deve essere raccolto in un barattolino misterioso che poi lei spedirà al consorzio nonsocosa, che ci faranno nonsocosa. La padella può essere lavata – anche se le dico, perchè sulla confezione del detersivo ci sono questi due che dormono? È davvero un detersivo, dimmi la verità! – e la padella bagnata non può essere asciugata con lo strofinaccio che usano tutti (no cosa fai! mi dice) perchè la padella potrebbe essere ancora leggermente unta (allora è vero che non era detersivo!). Devo asciugarla con la carta. Cazzo, la carta! Metti le scarpe, esci fuori, togli le scarpe, torna dentro. L’insalata ha una confezione di plastica. Per fortuna il bidone della plastica è lì. Ma nella confezione c’è pure una piccola bustina di salsa. Mi fa un po’ schifo, ne uso solo due gocce e poi chiedo alla babbiona: e questa? Non vorrai mica buttarla, dice lei. La prendo io, può sempre servire, mi fa. Sì okay ma in futuro dove dovrei buttarla, seguendo le giuste regole di questa casa? Niente, non me lo dice perchè parla al telefono (e nel frattempo annusa estasiata il contenuto della bustina). Vorrei vomitare sul pavimento.  

Nella prossima puntata: troppi cinesi sotto un tetto. Non mancate.

annaffiare

E ogni tanto mi capita di pensare alla gentilezza ed alla disponibilitá come concetti astratti, e penso che vorrei averceli, questi concetti astratti, inculcati nella mia testa, e che non fossero affatto astratti. Che poi, invece di dire gentilezza e disponibilitá, sarebbe meglio dire bilancio negativo fra dare e avere, ovvero dare piú di quello che si riceve. Non so se riesco a renderlo chiaro, sto concetto del bilancio negativo.

La prima fase – peraltro involontaria – è stata quella di prendere pochissimo, prendere quasi niente, e su questo mi sono spinto anche troppo oltre, sconfinando largamente nell’eremitaggio, soprattutto negli anni passati. Poi è venuta quella di non ritenere scontato nulla di quello che si riceve, e poi dopo tutto questo dovrebbe arrivare la fase in cui si apre il rubinetto – lo si pulisce del calcare accumulato per l’eremitaggio di cui sopra – e si fa uscire piú acqua di quella che entra. Per adesso sto studiando le tubature, sto cercando uno sturalavandini adatto, e sto cercando di convincermi che non è importante dove e su chi si spruzza, l’importante è spruzzare. Annaffiare, che poi tanto qualcosa cresce.

La fase ancora ulteriore – quasi fantascienza, a sto punto – sarebbe quella di annaffiare, anche sapendo che non cresce nulla. Farlo per il gusto di annaffiare. Il giardinere ispirato e benevolo. Ma non montiamoci troppo la testa.

qui si scappa tutto il giorno

Qua si scappa tutto il giorno in preda alla frenesia. Questa cosa del lavorare e studiare significa che mi trovo a scappare tutto il giorno in preda alla frenesia. Mi porto addosso certe occhiaie che mi ricordano i tempi andati, e in tutto questo le mani non sono piú sufficienti a trattenere con me le cose che mi servono. Il me stesso di questi tempi – infatti – scappa sotto la pioggia con uno zaino appeso ad una spalla che gli rende la corsa sbilenca verso un lato, mentre una mano trattiene una busta e con l’altra una banana (dice che la banana fa bene all’umore) e poi siccome non ha piú mani, quell’importante articolo da leggere prima di sera se lo tengo in bocca, epperò siccome non ha mani per un ombrello l’articolo si bagna, eppoi mentre scappa cerca di prendere l’ombrello dallo zaino spostando la banana nella tasca del giubbotto (dice che la banana contiene serotonina, ecco perchè può aiutare l’umore) però infilando le mani nello zaino invece dell’ombrello tira fuori un paio di mutande, perchè stando tutto il giorno fuori casa ormai si porta dietro qualsiasi cosa.  

Ieri un benzinaio romeno parlava italiano e mi raccontava che lui è stato a Bormio, ecco perchè parlava italiano. Io masticavo chewing-um e pensavo ad altro, a tutt’altre cose che non c’entravano niente, mentre cercavo in tasca i soldi per pagare.

Lo scrivevo qualche anno fa

Lo scrivevo qualche anno fa sulla colonnina del blogghe: «Quando diventerò dolce e disponibile con tutti, allora andrò a fare il missionario in Burundi.». Poi ieri ho scoperto che il mio compagno di corso, quello che ci devo anche lavorare assieme, è proprio del Burundi. Come tutti gli africani in occidente che non siano rapper esagitati, veste abiti formali e rassicuranti. Io quando avevo scritto Burundi manco lo sapevo dov’era sto Burundi, e nemmeno adesso lo so, però la differenza è che adesso c’ho una faccia nera a due metri da me con cui devo discutere di problemi epidemiologici, senza farmi distrarre dall’interno roseo delle sue labbra.   

Oggi nell’ordine mi sono imbattuto con: il traffico criminale, la paura di non fare in tempo, la consapevolezza di non aver fatto in tempo, la consapevolezza di non sapere perchè dovevi fare in tempo, una sedia calda, una cosa giusta pronunciata al momento giusto, una canzone che la volevo cantare per forza anche non avendo alcuna voglia di cantare, la sorprendente capacità di rispondere a domande ovvie impostando la voce, la frenesia del lavoro al computer, la frenesia del lavoro al computer, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, una corsa sotto la pioggia con due panini caldi appena usciti dal forno in mano, la cazzo di frenesia del lavoro al computer, l’indecisione al reparto ortofrutta, una birra in lattina fredda ma non come la volevo io, poco pochissimo tempo per scrivere come invece vorrei scrivere.

sabato e domenica

Con uno sbadiglio esagerato ho sentito la mia mandibola scricchiolare e sono rimasto per qualche secondo con la bocca aperta. Ho ancora male.  

I treni olandesi partono in orario e arrivano in orario, però nonostante questa precisione si fanno comunque prendere sbagliati, e io ieri l’ho preso sbagliato – per esempio – e mi stavo facendo trasportare in luoghi che non so e che non volevo sapere. Ho smadonnato in italiano soffiando sui vetri, il mio vicino di treno ha sicuramente imparato qualche parola truce nella mia lingua, durante i quaranta minuti che siamo stati seduti assieme. Ho aperto il computer e per far passare il tempo ho visto il finale di 8 e ½ che dicono essere uno dei più grandi film di Fellini. Io sono ancora perplesso, ma con la mia cinefilia ritardata preferisco non esprimere giudizi. 

Ho trascorso una domenica a farmi prendere a schiaffi dal vento, nella nuova città della Signorina. Lei ha trovato casa, finalmente, e ha trovato una bella casa, con tanto di giardinetto per nani fornito di rose già sbocciate e di i gabbiani che si posano sul tetto. E l’altalena appena fuori dalla porta. E un canale navigabile con le barchette parcheggiate appena dietro l’angolo. E i cigni che ti guardano in cignesco dal bordo dell’acqua. Che poi capiamoci, i cigni: non una papera, i cigni. Tantissimi cigni. Che io vorrei fermare il primo che passa e dire: dì la verità, tu che lo sai, questo è un Truman Show e i cigni li avete messi apposta perchè sapevate che stavamo per arrivare. Dì la verità. Dimmi dov’è la telecamera. Dimmi dove devo guardare. Giochiamo a pubblicizzare la nuova varietà di Coca Cola? Guardo in camera e sorrido, ma dimmi dove devo guardare. E poi quando vado via dove li mettete tutti sti cigni? Voglio dire, scappano via se non li chiudete, no? No? Dimmi la verità.

Poi mi ha pure permesso di entrare nel suo hotel a cento stelle con i salotti in pelliccia di orso bruno e Sara Ferguson alla reception. Ho rubato la colazione e ho guardato case da milioni di dollari appena fuori la finestra. C’avevano i pacchettini mono dose di cereali al cioccolato. E tutto lo yogurt del mondo affondato nel ghiaccio. E fuori, di nuovo i gabbiani. Gliel’ho pure detto, alla signorina: prova a non ridere, vediamo se ci riesci. Vediamo se – contenta come sei in questo momento – riesci a non ridere. Non ce l’ha fatta. E adesso vediamo se riesci a ridere di più. E non c’è riuscita. Ferma immobile sul massimo possibile del sorriso, impossibile da smuovere.  Io a colazione ho mangiato troppi donuts al cioccolato con il succo d’arancia.

è tutto da vedere

Se vogliamo fare una vita roack and roall, e se vogliamo cominciare oggi, allora basta metterci d’accordo, ho detto alla Signorina fresca emigrante come me, appena arrivata qui in Paese Basso. Adesso anche tu c’hai un lavoro da queste parti – le ho detto – e siamo diventati vicini di casa. Adesso c’hai un lavoro da queste parti, e davvero chi lo avrebbe mai detto. Tu lo avresti mai detto? Io non lo avrei mai detto. Nemmeno nella mia più selvaggia fantasia, avrei potuto immaginarlo. Ma adesso siamo qui, ed è tutto da vedere.  

Che poi cosa intendi per vita roack and roall, fammi capire bene?  

Intendo esattamente quello che stiamo facendo: lasciare tutto, tapparsi il naso e ricominciare da un’altra parte. Ho sentito dire che mantiene giovani. Tra l’altro noi siamo ancora giovani, e quindi insomma, meglio di così si muore.  

No, non morire, altrimenti mi offendo.    

Ma insomma dicevo, lasciare tutto e ricominciare: ti va? Perchè a me va. Ho una voglia di problemi da risolvere e nuovi lavandini che perdono acqua, che non ti dico. Davvero, non scherzo. Eppoi di padroni di casa con strani tic facciali, e nuove fermate di autobus, e pizze al taglio da mangiare per terra la sera del trasloco. Voglio dire, tutte queste cose, piuttosto che non provarle più, io preferisco avercele di nuovo. Questo vuol dire roack and roall. Vuol dire che non dovevamo per forza venire fino a qui, eppure ci siamo. E siccome ci siamo, allora balliamo. Roack and roall, appunto.         

Poi succede che nel centro città si cerchi un posto per farsi un panino, ma nel frattempo la squadra nazionale del Paese Basso sta strapazzando la Francia agli europei, e quindi non c’è nessuno disposto a fabbricarti un panino. L’alternativa sarebbe spostarci in Danimarca, ma è un attimo fuori mano, preferirei restare nei paraggi. Facciamo un pollo al turco sotterrata di maionese, e poi si torna a casa. L’azienda ti paga l’albergo cento stelle, posso venirci a fare la pipì che mi scappa? Ti giuro mi scappa, non ce la faccio a guidare così fino a casa, dall’altra parte della nazione.      

No no, non ti faccio entrare che sennò quelli dell’albergo cosa devono pensare? Niente, che saliamo un momento in camera, cosa devono pensare? No no, sono appena arrivata, e qui nessuno deve pensare male di me. Va bene, allora niente pipì nel bagno dell’albergo a cento stelle, resto qui nel parcheggio ad aspettarti, con le gambe strette a non farmela scappare. Tira pure un vento freddo, porca miseria, e questo peggiora le cose. Certamente fra le cose da raccontare, un giorno, ci sarà pure questa, ci sarà quella volta che rimasi con le game incrociate strette in un parcheggio di albergo a cento stelle, per fare in modo che nessuno potesse pensare male di te.
Roack and roall, appunto.

ho trascorso gli ultimi quattro giorni

Ho trascorso gli ultimi quattro giorni ad un congresso di capoccioni scientifici ad Amsterdam. Io non c’entravo quasi nulla lì dentro, ero solo stato invitato dal capo, e allora ci sono andato. Certe volte penso che va bene il contesto internazionale interessante, però poi tutta questa internazionalità – soprattutto prolungata per quattro giorni di fila – finisce anche per farmi venire la nausea. Se vedo un altro giapponese io stamattina potrei anche vomitare. Sti giapponesi che si addormentano durante i convegni e fanno le fotografie a tutte le cose come nei film che prendono per il culo i giapponesi. Sti benedetti giapponesi, che insomma capiamoci, vengono dal Giappone, mica dal paese qui dietro l’angolo: intraprendono sti viaggi lunghissimi e poi si svegliano presto in albergo per venire in tempo al convegno, e poi una volta seduti in poltrona si addormentano. Che ti verrebbe da infilargli la penna nelle orecchie. Cazzo dormi, che vieni dal Giappone?                             

Eppoi noi tutti delegati – che c’avevo scritto delegato pure io di fianco al mio nome – siamo stati caricati su di un battello che ha attraversato lentamente tutti i canali di Amsterdam. Uno spettacolo. Le case galleggianti, le papere coi pulcini di papera. Ci hanno riempito di pessimo vino bianco sudamericano e io ho ho preso a fiorellate la mia collega che non riusciva ad aspettare che il battello si fermasse per accendersi la sigaretta. Le fiorellate sarebbero i colpi con i fiori sulla fronte, perchè avevamo tutti un crisantemo in regalo sul nostro banchetto del battello. Anzi non erano crisantemi, erano gerbere, io li confondo sempre.                    

E poi ci hanno scaricato in un capannone enorme con un palco per concerto, e c’era una cena organizzata con così tanto cibo che non sono riuscito nemmeno a guardarlo tutto. Non mi andava di scegliere. E poi c’era il toro di quelli che fanno le sfide alla televisone che inizia a roteare e si deve cercare di non cadere, e poi donne vestite in stile ottocentesco con le parrucche bianche, e una signorina che distribuiva gelati travestita pure lei da cono gelato. Una palla di ferro che scendeva dal soffitto, si apriva e dentro c’era una signorina vestita di bianco che cantava sospesa nel vuoto. E camerieri che continuavano a portare da bere, ed io che in tutto quel cibo ho deciso di darmi alle pannocchie di granoturco lesse senza sosta, che per me terrone sono una fra le cose più esotiche che esistono.              

In tutto questo casino ho pensato che sei mesi fa non conoscevo nessuna delle persone con cui oggi parlo ogni giorno, eppure queste persone con cui parlo ogni giorno sarebbero la mia vita di adesso. L’ho spiegato alla collega, e lei mi ha guardato strano. Gliel’ho spiegato: il battello che va in giro per Amsterdam, le palline di gelato, e tutte queste facce, e questi giapponesi. E queste novita’. Non ha capito. Il punto è che le cose cambiano, e ad una velocità tale che se fra sei mesi dovesse cambiare tutto a questa velocità allora potrei aspettare di trovarmi dappertutto, anche a prendere un caffè da un mio amico calzolaio di Praga. Perchè capiamoci, io non ci sono mai stato, a Praga. Ma se va avanti così potrei diventare anche il sindaco di Praga. Oppure qualcos’altro. Vai a capire cosa.

i coinquilini

I coinquilini mi invitano a vedere in tivvù un reality show del Paese Basso – c’ho ancora le borse della spesa mentre me lo chiedono – un reality show che non ho capito bene come funziona, ma pare che c’è uno che vomita nel letto dell’altro, oppure qualcosa del genere. Dico No, no, grazie, che io c’ho da guardarmi cose colte al computer. Loro mi dicono: ma stasera è la finale. Io dico Ecco Appunto, se proprio dovevo vederlo, dovevo cominciare dall’inizio, ma così che senso ha? Non credi – gli dico al mio coinquilino alto e atletico, eh, non credi? E intanto infilo l’insalata nel cassetto basso del frigorifero già sapendo che me la rovinerà ghicciandola tutta.     

Che poi l’ho già detto, tutti bravi ragazzi qua dentro, al limite sono io che faccio sempre lo schivo. Che faccio sempre il solitario.        

Solo non capisco l’Equina, la mia vicina di camera con cui divido il bagno: perchè mi lava sempre il tappetino del bagno? Voglio dire: è solo un tappetino da bagno. Non è vicino al cesso (qui il cesso non è nel bagno, il cesso è nella stanza del cesso) il tappetino sta semplicemente lì sotto il lavandino. Non è che ci piscio sopra, capiamoci. Non ci piscio sopra, cara Equina, e allora mi spieghi perchè lo lavi ogni santa settimana? Non è sporco, e in quel bagno ci stiamo pochissimo, e tu ci stai molto più di me, e non è sporco: perchè lo lavi sempre? Voglio dire: se fai così poi mi sento sporco. E io non sono sporco.      

Il tuo uomo, al limite, con le firme nel cesso in stile Rudy l’Ivoriano, potremmo parlare di lui. Ecco allora, come la mettiamo con lui? Proprio tu, che c’hai le tue collanine di perle e il tuo lampadario di plastica a forma di lampadario ottocentesco di cristallo. Non so se rendo l’idea, quel tipo di lampadari principeschi da castello, solo più piccolo e di plastica. Tu con i tuoi tacchi perenni e il tappetino del bagno pulitissimo, poi c’hai il ragazzo che lascia le firme in stile Rudy l’Ivoriano.

sta diventando un rito

Sta diventando un rito quello di trascorrere il giovedì pomeriggio a scarpinare per la città – il giovedì i negozi restano aperti fino a tardi ed è un po’ come una festa di paese – e poi concludere il tutto con una cena a base di wok di noodles e pollo, da consumarsi alternativamente una volta con la forchetta e una volta con le bacchette. Mangiare nella scatola di carta con le bacchette fa tanto agente FBI di un telefilm americano che ha ordinato qualcosa dal cinese. Nel frattempo, nelle cuffie ho le lezioni di storia in poadcast, e così mentre cerco di infilzare il frammento di zucchina ascolto la polemica scatenata nel mondo cattolico sulla sfarzosità della basilica di San Pietro.

Alessia Fabiani invece si è laureata, tanti auguri. Quel prato che si vede sullo sfondo, non vorrei sbagliarmi, ma sembra proprio quello a Milano dove ho inseguito il Cuggino Rasta con una bottiglia di spumante il giorno della sua laurea.

fra le cose che non si possono spiegare

Fra le cose che non si possono spiegare c’è la gioia di avere il confine italiano distante un migliaio di chilometri, e cioè distante quel tanto che basta ad andare in giro in bicicletta ascoltando rino gaetano e morricone nelle cuffie, per sentirsi italiano come pare a te. Perchè io alla fine sono contento di essere italiano, è solo che non mi piacciono gli effetti collaterali.  

Però sono contento, eh. 

Poi sgusci in fra le stradine del centro e devi fermarti un momento perchè c’è l’ingorgo delle biciclette e non si passa più: proprio in quel momento c’è Rino che canta «Ma a tolto il cane/ Escluso il cane /tutti gli altri son cattiviii» e tu ti ritrovi improvvisamente ad abbracciare una ragazza bionda con una collana di fiori attorno al collo che tiene in mano un cartello con la scritta “Free Hugs”. Una ragazza bella che non l’avresti detto mai – a vederla da lontano – che potesse puzzare così tanto di cipolla. Ma le cose per conoscerle veramente devi esserci vicino. E in generale il senso di queste quattro parole, e il succo della sensazioni di questo mio pomeriggio a scarpinare per la città, è che le cose per capirle veramente ci devi essere dentro. Per cui non chiedetemi come sto, venite a toccarmi la fronte di persona, venite a guardarmi negli occhi, e poi fatevi un’idea.


Comunicazione interna per il me stesso fra dieci anni: Non ti ricordi cosa hai comprato coi soldi del tuo primo stipendio? Un paio di pantaloni kaki in offerta a 25 e 90, forse troppo corti ma del colore giusto. Poco prima una commessa obesa è venuta a stanarti in camerino perchè il negozio stava chiudendo. All’uscita sei stato schiaffeggiato dall’odore della Loempia vietnamita, una cosa fritta di verdure e pollo che avevi provato una settimana prima. Non ti era piaciuta, ma già sapevi che l’avresti riprovata per poi poterlo raccontare in giro.

tutto questo vivere facile

Tutto questo vivere facile – dicevo qualche giorno fa – fa venire pure degli interrogativi. Tutto questo benessere e questa disoccupazione nazionale al 2 per cento, e questo direttore di banca simpaticone che ti accoglie col caffè e si fa tante risate con te mentre ti apre un conto che non dico nemmeno quanto poco costa solo per non suscitare nervosismi. Tutte queste cose. Tutti questi giovani pieni di salute e affabili. Ti si pongono degli interrogativi. Tutti questi ragazzi che incarnano l’ideale del giovane studente, alto biondo in salute, la felpa col cappuccio e i jeans sdruciti.

L’iconografia cinematografica e pubblicitaria del giovane studente corrisponde a questi ragazzi che vedo ogni giorno. Siamo cresciuti con queste immagini nei telefilm e negli spot, pero’ poi ti sei trovato a vivere con personaggi diversi, diversi proprio fisicamente. Sei cresciuto fra i GiulianiSangiorgi mentre l’iconografia ti proponeva le facce nordiche dei modelli del Postalmarket. Ti sei trovato a crescere con personaggi come questi (e pure gli hai voluto bene) che Bologna ne è piena, oppure vecchietti in anticipo con le giacche Belstaff e la cintura, o ragazze vecchie in anticipo con il trucco pesante e le borsette firmate. Adesso c’hai tutto attorno la gioventú come te l’hanno fatta vedere sui giornali, ragazze che se fossero nate al tuo paesello adesso starebbero a tirarsela in un bar patinato esaminando in prospettiva le carriere dei possibili pretendenti, qui te le ritrovi col berretto di lana che scappano in bicicletta bagnate di pioggia e con gli orli dei pantaloni sporchi di grasso.  

Ma dicevo, tutta sta facilita’, poi finisce che ti fai delle domande. 

Perchè sei cresciuto in tutt’altro mondo, dove le cose sono aspre e l’erba è secca. E cosa succede a buttare un pesce di acqua salata in un laghetto di acqua dolce, tu ancora non lo sai. Le prospettive sono buone, ma ancora non lo sai. E allora finisce che ti fai delle domande. Perchè sei cresciuto nella melma con prospettive di melma, e tutta questa facilita’ non l’avevi messa in conto.