un videogioco

Da qualche anno per motivi familiari trascorro il periodo natalizio in un videogioco.

In teoria si tratterebbe di un luogo reale situato nella Grecia continentale appena al di sotto della Bulgaria e non troppo lontano dalla Turchia – e le influenze culturali di entrambi i paesi – una Grecia lontana dalle immagini delle cartoline con le casette bianche e le finestre in legno verniciate di blu.

Una Grecia lontana dallo stereotipo che ho deciso sia un videogioco. Ai bordi delle strade della prima periferia si accumulano carcasse di veicoli abbandonati, case semidiroccate, pensiline di autobus arrugginite appena di fianco a bar scintillanti e villette curate. Siamo ai confini estremi dell’Europa quando io che credevo i confini dell’Europa fossero quelli del mio paesello, con paesaggi, riti, forme del cranio, religioni e sgarrupamenti estetici balcanici che presi tutti assieme suggerirebbero che sei fuori dall’Europa, non fosse che geograficamente ci sei ancora dentro e che la moneta e’ ancora l’Euro – moneta che peraltro circola tantissimo.

Esistono due livelli di distanza con i personaggi che si muovono in questo ambiente: una lingua per me ancora largamente sconosciuta e la mancanza di argomenti di conversazione. A causa di questi due livelli di distanza sono giunto alla conclusione che le figure umane attorno a me sono solo degli avatar, esattamente come quelli di un videogioco, con i quali puoi interagire ad un livello molto superficiale ma restano comunque degli avatar. Osservo gli avatar mentre guidano scooter diroccati, senza casco esattamente come nei videogiochi, e che poi parcheggiano di fronte ad una delle sale scommesse di cui e’ infestata la strada principale del paesino, uno dei tanti passatempi dopaminici assieme alla nicotina per gli uomini ed ai programmi televisivi sensazionalistici per le donne.

Arrivati a questo punto della descrizione si potrebbe supporre che sono disperato per questo mio ciclico esilio natalizio: e invece No.

Gli ultimi giorni dell’anno sono diventati una vera vacanza dal mondo: trovo finalmente il tempo per letture, scritture ed epiche camminate ai piedi dei monti, anche se un paio di volte ho rischiato di essere sbranato da un branco di cani randagi. L’enorme tempo a disposizione e la mancanza di obblighi sociali mi permette ricerche e scoperte e di leggere tutto il leggibile su qualsiasi argomento – tipo scoprire la camminata nordica – oppure avere il lusso di non fare assolutamente nulla e attendere l’anno nuovo immobile all’interno di una crisalide dalla quale pero’ poi sbuca fuori piu’ o meno il bruco dell’anno prima, solo un piu’ riposato. In tutto questo, come fossero radiazioni da pianeti lontani, leggo i meme su internet sugli estenuanti cenoni e le frenesie dei regali e su cosa fare a capodanno.

Nei videogiochi sei sempre il protagonista e tutto parla di te.

E infatti mi trovo in una zona dell’Europa dove per motivi a me oscuri esiste un’ammirazione inspiegabile ed esagerata per qualsiasi cosa italiana anche se qui gli italiani non esistono, non hanno motivo di esserci: e’ l’unico posto al mondo dove non ne ho mai incontrato uno e quando spiego che io sono italiano non sembrano crederci veramente. I nomi degli esercizi commerciali o dei brand sono spesso in italiano: a volte hanno senso, a volte meno, come un negozio di vestiti per signore chiamato ‘Paranoia’, un set di valigie dal brand  ‘Artisti Italiani’ (come se in un supermercato italiano si trovassero dei salami italiani brandizzati chesso’, ‘filosofi greci’) o nomi eccessivamente didascalici come ‘Scarpini per Bambini’ per un posto che vende, appunto, scarpe per bambini, e dove ogni volta immagino di entrare solo per spiegare col ditino sollevato: eccomi qua, ebbeneSi’, sono italiano, e lo sapete che da noi gli ‘scarpini’ sono quelli da calcio, non le scarpe piccole per… ma poi lascio perdere, perche’ mica ti metti a discutere con degli avatar, giusto?

Ricordi quando da ragazzino

Ricordi quando da ragazzino al paesello con determinati altri ragazzini non riuscivi a stabilire un contatto che andasse oltre il ‘ciao’, ti chiedevi come fosse possibile. Con alcuni Si e con altri invece proprio No. Condividevi gli stessi ambienti, molte conoscenze in comune, eppure sentivi una distanza difficile da colmare. Poi si diventava piu’ grandi e si continuava a salutarsi per strada, a stringersi la mano con formale cordialita’, ma pur sempre una strana distanza o differenza. Provavi a fingere entusiasmo nelle conversazioni ma eri subito sopraffatto dalla noia o da una strana diffidenza della quale non riuscivi ad identificare le cause.

Una dinamica simile quando sei arrivato a Brussèlle. Con alcune persone sei riuscito immediatamente a stabilire una connessione mentre con altre invece No, anche se li frequentavi passivamente ma abbastanza regolarmente. Solo che ora – da adulto – notavi anche delle differenze concrete nello stile di vita. Per esempio si trattava di persone che non prendevano mai i mezzi pubblici, a volte celando lo schifo per la varia umanita’ che puoi incontrare su di un mezzo pubblico di una metropoli (dal pendolare standard al drogato alla studentessa all’immigrato eccetera) e a volte non celandolo affatto. Per esempio nella loro preferenza costante per locali pubblici che tanto pubblici poi non lo erano, causa selezione all’ingresso o per i prezzi piu’ alti e proibitivi per una fetta di popolazione. In anni di frequentazione non ti hanno MAI proposto di andare ad un concerto, e sospetti che non abbiano mai visitato nessuna delle sale concerti di questa citta’ – non le hanno mai nominate, peraltro.

Ancora oggi non riesci ad identificare la natura profonda di questa barriera con loro. Pero’ hai notato una cosa che accomuna sia i primi che i secondi, e da quando l’hai notata non riesci proprio a togliertela dalla testa: sia quelli del paesello ora diventati adulti sia i conoscenti ‘tiepidi’ di Bruxelles hanno votato Lega o Fratelli d’Italia o i loro omologhi europei.

Domenica

Lei mi chiede: vieni più tardi a pranzo con Cosa&Coso? Dai.

Le rispondo: lo sai che resisto cinque minuti con Cosa e mi fa piacere sia tua amica ma quello lì, Coso, proprio non lo sopporto. Anche volendo recitare: non ho argomenti. Ma se ci tieni vengo. E poi aggiungo: con quel Coso non solo non riesco a parlarci, ma poi da qualunque argomento si parta finisce sempre a blaterare di soldi, di investimenti, di quanto guadagna. Dice che con quell’investimento lì farà determinati guadagni, e ride. Più tardi mi scrive: abbiamo trovato un posto, siamo seduti, stiamo per ordinare, vieni? Vengo.

La bambina non vuole stare buona al suo posto – per fortuna, così almeno ho un diversivo, un appiglio. Ma poi purtroppo si calma. Alla prima frase di circostanza Coso tira fuori la brochure del suo nuovo progetto imprenditoriale con il quale, dice, farà tanti soldi, e che non sa se però abbandonerà l’attuale lavoro perché insomma, guadagna tanto (addirittura senza che tu gli chieda nulla, spara una cifra precisa tutto impettito, chissà come reagirebbe a sapere che tu potresti raccontargli una cifra più alta, che però non ti provoca lo stesso entusiasmo) ma tu ti limiti al minimo sindacale: eh, già, yes yes, I understand.

Sei lì passivo mentre ti avviluppa in parole che non ti interessano, in considerazioni che non ti causano nemmeno uno sbadiglio, lo lasci parlare mentre lo sguardo cade sulle ragazze sedute al tavolo poco distante, e rimugini – ancora una volta – sul tempo sprecato con gente che non legge romanzi. È una fissa degli ultimi mesi. Ci pensi continuamente. Sei convinto se uno legge romanzi non potrebbe mai trascinarti in discussioni meschine e bidimensionali e numeriche come questa. Ci avevi pensato appena qualche giorno prima, mentre in un’uscita tra uomini mentre le femmine restano a casa, quei altri due si erano persi in analisi sugli infissi del bagno, sul costo della manodopera. Ovviamente è un pregiudizio, non hai nessuna prova per dimostrare che sia come dici tu. Puoi solo portare la tua casistica personale: le persone a cui vuoi più bene leggono romanzi, quelle che vorresti avere più spesso attorno, quelle che ti mancano. E questo ti basta.

Hai un sussulto e decidi di esistere per qualche minuto. Chiedi a Coso: con due lavori ed una famiglia non avresti neanche un minuto libero! Esatto, risponde lui tutto contento, e ride (come quando parla di guadagni).

Lo incalzi: non hai paura di non avere tempo per una passione, per uno sport, per poter trascorrere del tempo a non fare niente? Pronunci queste cose troppo velocemente, in fondo dal tuo punto di vista stai praticamente parlando dell’ossigeno che ti tiene in vita, o dell’illusione di avere qualcosa – anche piccola, anche sporadica – ad interrompere la diarchia famiglia&lavoro. Ma lui non si scompone, non coglie nulla della tua apprensione e risponde tranquillo: il lavoro è la mia passione, e ride.

Ti arrendi e lo lasci parlare. Poco dopo racconterai a Lei che – come ampiamente previsto – Coso ha parlato di guadagni per tutto il tempo. Lei sarà sinceramente dispiaciuta, ti passerà una mano sul viso e tu ancora una volta odierai il fatto di aver visto le cose prima che succedano.

Sprazzi di piccole cose

La signora delle pulizie sarebbe l’unica persona con cui potresti parlare francese. Lei e’ pure cordiale e ti racconta i fatti suoi, il recente divorzio dal marito ubriacone sudamericano ed un possible nuovo amore, la dieta che pare funzionare, la scuola dei figli, domande genuinamente interessate sulla tua vita. Ma tu non soltanto parli malissimo il francese, soffri mentre provi a spiegarti costruendo frasi disastrate per grammatica e fonetica: ad un certo punto non ti interessa proprio lo small talk. Lo fai per gentilezza e certi giorni non hai il tempo di essere gentile. Quando arriva le apri la porta, le chiedi come va e poi torni a lavorare chiuso nel tuo mondo: sei diventato uno stereotipo di persona indaffarata e insensibile ai risvolti umani dell’esistenza? ti chiedi.

La novità dell’anno: ti piace il freddo. Ricordi le nuvole ed il vento? Che prima erano un motivo sufficiente per restare chiusi in casa e maledire il mondo dall’altra parte del vetro? Adesso le camminate nei boschi fangosi ti appaiono persino più attraenti col meteo di merda. Nei boschi fangosi! Che’ andarsene in giro tra i faggi sotto i goccioloni, e’ una cosa che fai se c’e’ la passione che brucia sotto. Col cielo azzurro sono bravi tutti. Ti senti come le vecchine infastidite dalle chiese affollate a Natale.

Possiedi una gallina che fa le uova solo quando le permetti di uscire dalla gabbia. Le depone in angoli nascosti del giardino. Tu non te ne accorgi subito, dunque quando le trovi non sei sicuro che siano fresche oppure No. E non puoi cibare la tua famiglia con uova dal passato oscuro.

Torna da un viaggio di lavoro e tutta eccitata ti racconta: un ufficio bellissimo, e poi i colleghi tutti giovani, dopo lavoro si fermano a giocare a ping pong oppure vanno nella palestra annessa all’ufficio! Tu la fulmini con tre parole soltanto: non hanno figli? Si rabbuisce, proprio come succede a te ogni volta quando ti dimentichi che ora – perlamiseria – sei adulto.

il mondo in cui vivo

Il mondo in cui vivo e’ composto di persone nate in un luogo che poi hanno studiato in un altro ed oggi lavorano qui – ma spesso hanno lavorato anche in altri luoghi lontanissimi. Tutto per costruirsi carriere specializzate, per inseguire amori o per sfuggire al nulla dei luoghi natii. Nessuno ne parlerà, ma in questo mondo troverete altre vittime di questa pandemia.

E non perché hanno perso il lavoro.

Innanzitutto bisogna spiegare che il vivere altrove – il farlo per tanti anni – e’ il risultato di un equilibrio tra venti che soffiano in direzioni diverse. Il vento del luogo straniero in cui vivi (e delle sue opportunita’, della sua ricchezza, delle sue alienazioni) soffia in direzione diversa rispetto al vento del luogo di origine (gli amici di una volta, la famiglia, la stradina vicino al mare, gli incontri casuali in piazza). Quelli che non sopravvivono a questi venti cadono presto: alcuni resistono piu’ a lungo ma nel tempo che restano capisci gia’, da quello che ti raccontano, dagli occhi mentre parlano, che cadranno presto pure loro.

Quelli che sopravvivono sono in equilibrio tra venti diversi. La pandemia ha offerto loro di poter lavorare in remoto dai luoghi natii anche per lunghi mesi. Nonostante fosse evidente a tutti che la situazione fosse straordinaria, per alcuni di loro questo nuovo vento ha spazzato completamente l’equilibrio: un solo vento ha cominciato a soffiare fortissimo e soltanto in una direzione.

Conosco persone che pur avendo un contratto di lavoro con una compagnia straniera, vivono in Italia in maniera stabile – e hanno costruito nuove relazioni, acquistato beni, automobili, motociclette per andare al mare, fatto progetti. Sanno bene che lo scenario e’ temporaneo ma fanno finta di nulla. Non ne parlano. Oppure ne parlano cercando di convincerti che certamente qualcosa accadrà a cristallizzare questa loro condizione temporanea in definitiva.

Mentre li ascolti, consideri che in pochi mesi hanno fatto sciogliere quella scorza dura che si era creata tra loro e le complicanze del mondo. Sono rimasti nudi come certe lumache senza il guscio.

Mentre li ascolti, ti torna in mente quella frase di un romanzo che non ricordi il titolo, sul fatto che in tempo di guerra bisogna mangiare poco anche nei brevi periodi in cui si ha molto a disposizione, per mantenere lo stomaco pronto ai periodi in cui avrai di meno. Per evitare di soffrire più avanti.

anche questa domenica

Anche questa domenica sei rimasto a letto un po’ piu’ tardi visto che anni fa le dicesti: guarda che un ipotetico figlio non significhera’ dividersi le fatiche esattamente a meta’. Lei non soltanto rispose per me va bene ma addirittura mantenne la promessa, e quindi adesso quando la nana si sveglia alle 7 la maggior parte delle volte non tocca a te.

Le hai raggiunte verso le nove e mezza, fuori dalla finestra finalmente una domenica mattina con il sole a Brusselle; lei dopo averti detto buongiorno ha detto ora posso andare finalmente in bagno, te la lascio cinque minuti. Anzi qualche minuto in piu’, forse riesco addirittura una doccia. Dopo bagno e doccia, dopo il rito della nana che ti ruba frammenti di colazione, dopo un caffe’ tiepido perche’ farne uno nuovo non ne avevi voglia, dopo aver giocato con lei sul pavimento giochi faticosissimi, si e’ calmato tutto.

Quando la nana e’ andata a dormire, sua madre distrutta e docciata sul divano cercando una posizione comoda per dormire anche lei – giustamente, del resto glielo avevi chiesto tu di riposarsi adesso che il tornado era in camera sua. Solo che come al solito ti sei trovato ad un bivio: restare a fare da guardia a due ragazze che dormono nell’immobilita’ casalinga leggendo compulsivamente notizie e accartocciandoti su te stesso, consapevole che tra un paio d’ore il tuo umore sarebbe peggiorato forse irremediabilmente, oppure uscire a ricordarsi come e’ fatto il sole, a fare qualsiasi cosa, non avendo niente in programma da volere o dovere fare.

Sei uscito.

Se a Brusselle arriva il sole ad aprile diventa il posto piu’ bello del mondo. Le persone ti sembrano piu’ belle di quelle che passeggiavano due settimane prima nella stessa strada – ma sono sempre loro, giusto? – ora che gli alberi sono fioriti di fiori rosa densi e rotondi. In bicicletta vai a trovare uno dei pochi amici che oltre a dirti dai poi ci vediamo su WhatsApp poi si fa vedere veramente, uno di quelli che veramente ti chiama per capire se sei a casa visto che sta passando proprio in quel momento. Non ha figli – non puoi evitare di constatare – e passa pochissimo tempo con la sua compagna. Ecco perche’ lo vedi. Gli altri sono quasi tutti rinchiusi su WhatsApp. Hanno perso la chiave, non riescono ad evadere.

Al ritorno per strada conti gli esercizi commerciali falliti e quelli non ancora falliti ma impolverati. Affitti da pagare ogni mese. Noie impossibili da immaginare di quelli che non possono piu’ lavorarci. Arrivi ad un mercato ortofrutticolo in piazza. Siccome non ti serve nulla, ti aggiri tra i banconi per osservare i colori dei frutti e spiare le persone. Compri cose a caso, non necessarie e non autosufficienti per un pranzo. Mezzo chilo di albicocche dure fuori stagione. Un radicchio rosso. Una ragazza alta in tenuta da corsa, ancora mezza sudata, acquista mele e verdura e ti ricorda che a quest’ora al paesello i ragazzi si imbellettano per la passeggiata al mare sforzandosi in questo gioco del sembrare ricchi tanto in voga nella province del Sud.

Tornato a casa decidi di cucinare qualcosa col radicchio rosso consapevole che pero’ in teoria il radicchio piacerebbe solo a te. Solo che poi le tue femmine si avvicinano una dopo l’altra, e infine siete tutti seduti a tavola come negli stereotipi della domenica in famiglia. Un secondo dopo aver finito di pranzare la nana vuole andare in giardino, vuole correre sul prato, parlare in bambinesco trilingue alle galline, esige la tua attenzione, l’attenzione di sua madre. La luce e’ perfetta e vorresti fare una di quelle fotografie perfette dove loro sono bellissime e tu non ci sei perche’ scatti la foto  – ma visto che lo pianifichi, non ti riesce. C’e’ da gestire un eccesso di energia della nana, la prima idea sarebbe di portarla al parco vicino casa per farla stancare e poi provare a farla dormire. Ci provi.

Sulle panchine del parchetto i genitori osservano i pupi con espressione spenta. Quell’espressione l’avevi notata anni fa e avevi concluso con anni di anticipo che essere genitori doveva probabilmente essere un rompimento di cazzo indicibile (nel senso che non lo dice nessuno). Osservare quelle facce compulsivamente e le manifestazioni di rompimento di cazzo di quelli che ci sono passati prima di te ti aveva permesso di prendere le misure, di avere una visione realistica e non edulcorata della situazione: quando poi e’ toccato a te, ti aspettavi le peggio cose, e siccome eri preparato e pessimista, non ti sei mai ritrovato spaventato o sopraffatto o sorpreso. Piuttosto hai constatato la cruda realta’, senza alcun rimorso. Eri ben consapevole delle conseguenze ed anzi continui a stupirti di quelli che si ritrovano meravigliati dal rompimento di cazzo, perche’ non se lo aspettavano: e’ un lato positivo dell’essere ansioso, quello di immaginare e calcolare lo scenario peggiore in ogni situazione. A quelli che non se lo aspettavano, non glielo puoi mica dire.

Tornato a casa dopo un minimo sindacale di aiuto casalingo, ti sei abbandonato alla banalita’ del divano con un vino rosato e arachidi e la partita in tv. Piu’ tardi nel buio della camera da letto hai continuato a leggere Barack Obama fino ad ore tardissime, e quando succede ti sforzi di non spiare l’orario per poter credere – il giorno dopo – di aver dormito abbastanza.

appallottolare

Gli amici sarebbero secondo me quelle persone con le quali trascorri del tempo, costruisci dei ricordi, senza essere spinto da altro. Questo ‘altro’ sarebbe: le persone che frequenti perche’ hai bisogno di qualcuno con cui uscire (nelle fasi della vita in cui ti pare inconcepibile non uscire, e cacciare, e stancarsi ad uscire e cacciare); le persone che frequenti perche’ sono colleghi di lavoro e allora vabbe’, e’ un collega, dunque piu’ o meno un amico (non lo e’); le persone che frequenti perche’ si trovano in una fase della vita perfettamente combaciante con la tua, e quindi coppie di giovani coppie, oppure coppie di coppie coi bambini piccoli uguale, o grandi uguale. Eccetera.

Questi ‘altro’ prescindono da chi sei veramente tu e da chi sono veramente loro. Perche’ appunto c’e’ dell’altro a tenervi (momentaneamente) uniti. Se ci togli tutti questi ‘altro’ dovrebbe restarci l’amicizia.

A volte mi chiedo se esista veramente. Sospetto che esista quando penso alle persone che hanno voluto restare in contatto con me negli anni, nonostante i miei difetti e involontarie sgradevolezze. Ed io con loro. Ma poi sospetto anche che non esista, quando osservo cosa succede a queste latitudini, in questa mitteleuropa di persone che incontro molto meno di frequente di quanto frequenti persone a migliaia di chilometri di distanza. Perche’ sono persi negli impegni di lavoro, o di famiglia, o di altri interessi. Ma saranno il lavoro, la famiglia, gli altri interessi, oppure sono io? mi chiedo. E perche’ quelli a migliaia di chilometri non si fanno annullare dalle loro famiglie e lavori e interessi? C’e’ qualcosa nell’aria a queste latitudini che toglie la voglia di amicizia disinteressata e avulsa dalle contingenze? Oppure diventare adulti significa questo?

Non lo so.

Ma nel frattempo combatto contro l’aridita’ che queste considerazioni potrebbero provocare come difesa. E allora sono contento di rimanerci male, se investo del tempo nei rapporti che poi si rivelano sterili. Ha un sapore dolce, questo rimanerci male. Mi appallottolo questo sentimento nella testa, lo invio per posta immaginaria alle persone a cui voglio bene nonostante l’assenza e poi mi dico che se lo provo, allora vuol dire che sono ancora umano.

chi e’ messo peggio?

La domanda e’ chi si trovi – oggi – in una situazione psicologicamente migliore. Domanda retorica, ovviamente.

Quelli che ‘Andra’ tutto bene’, quelli che dai ce la faremo, quelli ottimisti. Quelli che festeggiamo la fine del 2020 e diamo il benvenuto al nuovo anno che sara’ certamente migliore. Quelli che bisogna pensare positivo.

Oppure i cinici razionali. Quelli che sono noisamente attaccati ai fatti. Quelli che visti da fuori sono percepiti come pessimisti ma che poi sono semplicemente oggettivi. Che non si entusiasmano in assenza di elementi concreti.

Di fronte alla prospettiva di tanti mesi di attesa, ed una luce del tunnel che non si capisce bene quanto sia lontana: chi e’ messo peggio?

Hai paura che No

In foto: il mio angolo di lavoro preferito in questi mesi. Mai avrei pensato di trovarmi nella mitteleuropa a lavorare con metà faccia illuminata dal sole. Le brevi pause a respirare aria fredda sul balcone, ad aprire la gabbia delle galline e osservarle mentre grattano il prato. La routine monotona e rassicurante consuma le giornate in fretta. E le settimane in fretta. E si perde cognizione del tempo. Da quanti mesi non faccio quella cosa, non vedo quella persona. Non lo so.

Noi che in questa guerra siamo caduti dalla parte fortunata, che abbiamo un posto sicuro dove stare, viviamo in case dove non ci si odia, abbiamo un lavoro solido che diventa addirittura più piacevole durante la pandemia, ci ritroviamo addosso tristezze che il pudore non ci fa raccontare. Perché come ti dicevano da bambino devi pensare a chi sta peggio di te. E tu stai bene, anzi benissimo.

Ma poco prima che tutto questo travolgesse la tua vita avevi già concluso che non riuscivi a sopportare un’esistenza nella quale devi farti bastare il mondo del proprio lavoro o della propria famiglia. Le interazioni col mondo influenzate e incanalate dai colleghi che poi a volte vengono catalogati per inerzia come amici, anche se l’unica cosa che avete in comune è l’aria che respirate. Dalla famiglia e dalle sue incombenze quasi sempre materiali: sposta quello, ricordati di questo, rimettiamo a posto, fai questo che intanto io vado al supermercato. Gli incontri con altre famiglie che hanno generato prole di pari età, con i quali – nonostante le migliori intenzioni – i discorsi finiscono sempre a parlare di loro, della prole. Quella dedizione profonda al tuo bozzolo familiare che se ce l’hai allora ti abbandoni al vortice e te ne senti riempito; se invece non ce l’hai, ti assale un senso insopportabile di incompiutezza. Senti le giornate consumarsi tappando un buco dietro l’altro e non sei d’accordo, ti chiedi se davvero non ci possa essere dell’altro, sei frustrato ma non puoi spiegarlo a nessuno, perché provi tutto questo e allo stesso tempo non metti in dubbio l’amore che ti tiene unito a loro. Perché insoddisfazione e amore possono benissimo coesistere, anche se i film questa cosa non la raccontano mai.

E se già lo pensavi prima della guerra, oggi hai paura che la guerra possa peggiorare tutto. Renderci ancora più autosufficienti nei nostri rispettivi bozzoli da spazzare via qualsiasi voglia di cercare stimoli al di fuori. Gli investitori comprano in Borsa i titoli di questo nuovo stile di vita, consapevoli che saremo sempre più dipendenti dai nostri metadoni di netflix e whatzupp. Droghette capaci di darci che sia successo qualcosa di umano in giornate durante le quali non è successo proprio niente. I nuovi surrogati di interazione sociale ti permettono di mettere in pausa, di ignorare il messaggio, ti offrono cioè il controllo totale degli input: e allora non sai se – con le nostre soglie di tolleranza drasticamente ridotte – potremo tornare ad annoiarci davanti ad una birra ascoltando discorsi del cazzo senza possibilità di mettere in pausa.

Hai paura che No, ma vorresti che Sì.

Ah non vi aspettavate una seconda ondata?

Ah non vi aspettavate una seconda ondata? Eppure le autorita’ sanitarie ve lo avevano detto, gli accademici vi avevano avvertiti. Gli esperti si contraddicevano? Non e’ vero: gli esperti delle autorita’ sanitarie e gli accademici rispettati dalla comunita’ internazionale hanno detto sempre le stesse cose. Avete presente i tanto odiati ‘professoroni’? Avevano ragione loro. Ma poi giornali e Tv hanno scovato quei pochissimi che dicevano il contrario, hanno acceso i microfoni sotto al loro naso e dato visibilita’ alle opinioni bizzarre di chi – senza quelle opinioni bizzarre – sarebbe rimasto nell’oblio mediatico. Dalla seconda ondata che non ci sarebbe stata (https://bit.ly/3m9ufTF e https://bit.ly/3kmzU8e) al virus ‘clinicamente morto’ (https://bit.ly/3m86vPR).

Perche’ i media seguono la tendenza di questi anni: per raccogliere consenso bisogna dire alle persone quello che vogliono sentirsi dire. La verita’ e’ scomoda, non ti fa crescere nei sondaggi e ti abbassa l’audience. La verita’ ti spiega come siamo tutti responsabili, nessuno escluso, e che non esistono nemici esterni da accusare delle nostre disgrazie.

E’ che siamo tutti abituati a crisi circoscritte

E’ che siamo tutti abituati a crisi circoscritte temporalmente. Attacchi terroristici, terremoti, lutti. Qualcosa che succede in modo traumatico, e poi lentamente le conseguenze dell’evento sbiadiscono.

I cervelli e i media non sono abituati a reazioni calibrate sul lungo termine. E quindi, davanti al rischio di contagio i cervelli funzionano come sempre: la consapevolezza del rischio di contagio e’ il trauma iniziale, ed al trauma iniziale seguono immediatamente reazioni emotive anche esagerate. Poi gia’ dopo qualche giorno si comincia a dire: vabbe’ dai, e’ ora di tornare alla normalita’.

Ma questo ‘tornare alla normalita’’ ha senso quando l’evento traumatico e’ circoscritto nel tempo come il terremoto, l’attacco terroristico. Il rischio di contagio durante un’epidemia non segue lo stesso sviluppo: dopo una decina di giorni dal ‘trauma’ i rischi sono identici al primo giorno, se non aumentati. Quindi gli inviti al ‘ritorno alla normalita’ in questi giorni semplicemente non hanno supporto fattuale e razionale. Si passa in pochi giorni dal troppo al troppo poco. Non esiste logica nel chiudere le scuole una settimana a causa del rischio di contagio e discutere di riaprirle due settimane piu’ tardi perche’ ‘e’ ora di tornare alla normalita’’.  Viene chiamata voglia di  ritorno alla normalita’ quando in realta’ – a parte le difficolta’ logistiche ed economiche dei blocchi – il desiderio e’ quello di ignorare i fatti perche’ i fatti sono preoccupanti. Stessa dinamica che si osserva nella ricezione dei messaggi sul global warning.

Ah ma tu la pensi cosi’ perche’

Dopo essermi riprodotto, mi sono tornati in mente quelli che negli anni passati mi hanno detto cose del tipo ‘Ah ma tu la pensi cosi’ perche’ non hai figli’. Col messaggio sottointeso che dopo aver avuto figli avrei cambiato radicalmente il mio modo di pensare.

Ecco vorrei rivolgermi ad ognuno di loro per dire: non ho cambiato idea. Le cose che pensavo prima, le preferenze che avevo prima, sono ancora qui con me. Forse voi avete cambiato totalmente il vostro sistema di pensiero, siete diventati delle persone diverse (e la sensazione e’ che vogliate aggiungere, delle persone migliori?) dopo esservi riprodotte. Io invece purtroppo No.

Non me ne faccio neanche un merito: e’ solo una constatazione fattuale. Credo sia una caratteristica delle persone ansiose e riflessive quella di osservare gli altri, e proiettare le esperienze degli altri su se stessi: pensi a come reagiresti tu, a cosa proveresti tu, a cosa diresti, cosa sceglieresti, se ti trovassi nella stessa situazione.  Non hai davvero bisogno di vivere sulla tua pelle ogni esperienza per comprenderla (se sei ansioso e riflessivo). Quando invece sei dotato una personalita’ meno allertata, puoi davvero stupirti di avere meno tempo a disposizione, di avere nuovi timori sul futuro, nuove pulsioni di protezione. Ma solo dopo che ti succede. Prima, non ci pensi nemmeno. Ecco, la differenza sta nel fatto che l’ansioso ci pensa continuamente, a tutto. E quindi immaginate la sofferenza interiore nel sentirsi trattare con sufficienza (ah ma tu queste cose adesso non le puoi capire…). Sono ormai esentato da questo tipo di commenti – anzi ci si aspetta che distribuisca in giro il sunto della mia radicale mutazione interiore – pero’, ecco, tenete presente che li’ fuori ce ne sono altri, come ero io fino a pochi mesi fa.

Trattateli bene.

moralista

L’aggettivo ‘moralista’ ha un’accezione negativa solo nelle vostre teste bacate. Sul dizionario ‘moralista’ è chi “per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione”.

Se alla testa bacata risulta difficile capirlo, questo significa – concretamente – che il moralista non ruba perche’ lo ritiene sbagliato in base a valori astratti. Il non-moralista invece non ruba perche’ ha paura della punizione. Se non c’e’ punizione, o se e’ sicuro di non essere scoperto, il non-moralista ruba.

Il non-moralista e’ fondamentalmente una testa di cazzo (butta le carte per strada, fotte il prossimo, parcheggia in seconda fila) ma sotto sotto e’ consapevole di esserlo, perche’ i principi morali sono innati dell’uomo come in concetti di bene e male. Quindi un po’ ne soffre, quindi un po’ si sente inferiore. Allora per difendersi dai sensi di colpa, il non-moralista si e’ inventato la definizione di ‘falso moralista’: cioe’ decide arbitrariamente – lui che non segue nessuna morale perche’ pensa solo ai cazzi suoi – che quelli che seguono principi morali in realta’ fanno finta. Che sono ipocriti. Lo decide lui, per stare meglio.

Teste di cazzo.

ipocriti

Da bambino venivo trascinato in chiesa, e visto che ero obbligato alla presenza domenicale, ascoltavo attentamente i passi del Vangelo, le omelie dei preti.

Sbadigliando, ma ascoltavo.

Avevo gia’ deciso di non interessarmi alla religione, ma da otto-novenne quale ero, ero comunque costretto alla presenza. E allora ascoltavo.

I passi del vangelo, le omelie dei preti, esprimevano principi etici che in gran parte condividevo. Rispetto, misericordia, generosita’, l’integrita’ morale, il senso di comunita’, il fare del bene senza averne nulla in cambio. L’amare il prossimo tuo come te stesso. E se non proprio come te stesso, perlomeno ‘quasi’ quanto te stesso. O almeno amarlo un poco. Il non nominare Dio invano: che per uno non religioso come me, si traduceva in un ‘evita di parlare a cazzo di cane’.

Ma ascoltando tutto questo pensavo: come puo’ tutta questa gente che mi circonda ascoltare i passi del vangelo, dire Amen, tornare a casa? Io lo so, IO LO SENTO, che non vivono secondo questi principi.

Dalle vecchine che spettegolano tutto il giorno, alle madri che crescono figli egoisti, ai ragazzi prepotenti e incivili che vengono in chiesa solo per aspettare le femmine all’uscita. E che poi alla fine si sposano in chiesa per fare contenti i genitori. Sono io che mi sbaglio, oppure questa e’ tutta una gigantesca ipocrisia?

Oggi a distanza di anni, l’unica consolazione e’ che non mi sbagliavo. Era, in effetti, tutta una gigantesca ipocrisia. Come tanta gente ascolta le canzoni alla radio senza badare al testo, tutti quelli che ricordavo seduti sulle panche delle chiese non ascoltavano le parole pronunciate dai preti.

Abbiamo un ministro feciforme che bacia ‘invano’ un crocifisso in conferenza stampa, e i ‘fedeli’ non si rivoltano contro ma anzi apprezzano. Abbiamo una societa’ dove il 70% preferisce che i disperati affoghino in mare piuttosto che salvarli per evitare di vederli sbarcare al TG mentre cenano la sera.

Sia chiaro, vogliono che affoghino: e questo vuol dire acqua che ti entra nella bocca e poi va nei polmoni, nessuno a cui aggrapparsi, vedere tuo figlio che affonda, o non vederlo perche’ e’ notte, e infine morire con lui, nel migliore dei casi.

Per pulirsi la coscienza adottano teorie complottiste parlando di scafisti, traffico di umani, invasioni, di ‘finti’ buonismi, di euri che se vanno al disperato africano poi non vanno al terremotato. Tutte scuse, perche’ e’ sempre piu’ facile credersi sgamati che ammettere a se stessi la propria natura egoista.

‘Ero straniero e non mi avete accolto’ diceva il Matteo (25,43) citato nelle chiese dove ancora entrate a sposarvi per salvare le apparenze.

e giuro che

Talvolta ti vengono in mente ragazze che conoscevi, o le incontri per caso, o le vedi da lontano, e che sai hanno avuto un figlio. E pensi: questa secondo me è diventata una di quelle che se vado a spiare le foto sul su profilo, ci troverò le foto di lei, dei suoi bambini, o di lei con i bambini, e quasi nessuna foto recente del padre.

E giuro che poi vado a spiare sperando di sbagliarmi. E giuro che poi ci resto male perché quasi tutte le volte, non mi sono sbagliato.

Non ci si deve stupire

Non ci si deve stupire dell’abusato termine “buonista”. Pare assurdo ma e’ tutta una questione di prospettive.

Dalla prospettiva dell’egoista, del povero di spirito che non prova empatia, dalla prospettiva misera di colui che pensa solo al proprio ritorno personale, del bifolco della macchina parcheggiata in seconda fila che blocca l’ambulanza, della lavatrice rotta scaricata in campagna, da quella prospettiva insomma, pare inconcepibile che altri esseri umani possano provare dei sinceri sentimenti di compassione, di empatia, di dolore pensando al dolore degli altri. Che siano davvero disposti a rinunciare a porzioni di proprio benessere per trasferirlo a chi affoga nel mare di gennaio. Che siano disposti a rinunciare a qualcosa seguendo concetti impalpabili tipo la coerenza a valori etici. La loro intera esistenza e’ fondata sulla sacra legge del fottere il prossimo, del fottere lo Stato. Non sono cattivi per scelta. Sono cattivi perche’ ignoranti come la merda. E per loro un pensiero o un’azione politica fondata sulla generosita’ senza guadagno pare impossibile.

Pare inconcepibile: credono che sia tutto un bluff. E infatti non solo usano la parola ‘buonista’ come fosse un insulto, ma dicono proprio finti buonisti. Finti. E questa e’ la prova definitiva di quello che passa nelle loro teste: ‘finti’. Perche’ non e’ possibile che sia vero.

quelle che seguono

Quelle che seguono sono considerazioni di una banalità forse sconcertante.

I soldi non fanno la felicità, ma d’altra parte senza soldi la felicità è più lontana.

E fin qui ci siamo.

Epperò la mancanza di soldi ha un vantaggio: ti mette davanti ad una mancanza tangibile, a cui sono associate altre mancanze tangibili: probabilmente non c’è un lavoro, e quindi non c’è una casa confortevole, e quindi non ci sono le cose che vorresti nel frigorifero, non ci sono ipotesi di viaggi etc.

Puoi dare a queste mancanze la colpa di eventuale pomeriggio di insoddisfazione che ti salta addosso all’improvviso. Quando tutte queste mancanze non sono più mancanze (hai il lavoro, hai la casa, nel frigorifero ci metti quello che vuoi, quanto ne vuoi) allora quel pomeriggio di insoddisfazione è tutto tuo. Non puoi dare la colpa a niente. E’ una produzione purissima e indiscutibile di te stesso.

Non puoi dire “ah, ma se riuscissi a fare quel viaggio che ora non posso fare, sono sicuro che sarei meno triste”. Quel viaggio lo puoi fare. Fallo. Ma non lo fai, perché ora lo sai: non è quello il punto.

Sono considerazioni di una banalità forse sconcertante perché si può rifare lo stesso (banale) ragionamento sostituendo i soldi con un amore, con un’aspirazione.

Benedette mancanze. Benedette attese.

perché camminare #1


Se non mi si fosse ristretto il tubo tra la vita e le parole sulla tastiera, dovrei raccontare delle cose concrete che mi succedono. Come per esempio i miei quasi 100 km a camminare nel golfo di Trieste, completati tra ottobre e novembre, fatti tutti con Lei. E invece non viene naturale farlo. Allora per stimolarmi la voglia di scriverne, decido di scriverne per convincervi a farlo.

Fatelo.

Innanzitutto di cosa si parla. Si tratta di camminare da città a città, per 4 ,5, 6 ore al giorno. Dormire in un hotel. E il giorno dopo ripartire. Il tutto da ripetere per qualche giorno.

Ah, come il camminodisantiago?

No. Nessun percorso che si trova sulle guide. Anzi, il percorso potrebbe addirittura essere brutto, scomodo, difficile da giustificare. In alcuni punti purtroppo potresti ritrovarti a camminare al bordo di una superstrada, o lungo una terribile zona industriale, in un giorno di pioggia senza tregua – come infatti ci è successo arrivando a Trieste. Però la bruttezza inaspettata condivide qualcosa con la bellezza inaspettata: sono cioè proprio inaspettate. Non sai cosa trovi dietro l’angolo, dopo il prossimo chilometro. Un bidone della spazzatura, una collina verde, un topo morto, un bar di drogati. L’inaspettato ha davvero il sapore della vita per quella che è davvero, piuttosto che la vita come te la programmi. Cioè – e lo sapete, mica ve lo devo dire io – sono molto più vita la collina e il topo morto di quanto non lo siano una foto sotto la Torre di Pisa.

Ah, tipo trekking?

No. Niente montagne o percorsi sterrati. Strade di paese, periferie. Centri di città. L’attrazione di questi percorsi non la riesco a spiegare: però credo che sia la voglia di calpestare le strade d’Italia, per me che non vivo in Italia, e di misurare ogni metro di Italia, e farmi sorprendere dalla bellezza e dal calore dell’Italia insignificante.

E quindi perché camminare?

<CONTINUA>

Registriamo un ulteriore cambiamento.

Se prima per ogni decisione complicata trascorrevo giorni, ma anche mesi, a ragionare, nel tentativo ambiziosissimo di prendere una decisione di cui fossi convinto completamente – riuscendoci quasi mai, devo dire, o restando convinto solo temporaneamente – ora prendo decisioni senza esserne convinto.

Molto punk, molto irresponsabile.

Ma tutto questo deriva dalla consapevolezza che tanto una decisione convinta non la prenderò mai: e il tempo che passa ad attendere di convincermi è vita. Sono mesi o anni di vita. Quindi si fa e poi ci si pente – forse.

Si fa.