Il sogno resta quello di uscire dal lavoro ed entrare in un bar, e nel bar trovarci gente che conosci abbastanza da scambiare due parole.

Non è sogno irrealizzabile in termini assoluti, perché alle volte succede.

Quello che vorresti è che accadesse sempre, soprattutto quando lo desideri tantissimo, soprattutto quando non hai pianificato niente per la serata. Vorresti che accadesse senza passare attraverso le complicanze di organizzare un bicchiere infrasettimanale tra persone con una carriera avviata. Fare la vita dei disoccupati, insomma, appena dopo aver finito di lavorare.

E saresti disposto anche a stare a sentire discorsi del cazzo – i discorsi da bar, appunto – e poi vorresti che a fare discorsi del cazzo fossero personaggi eccentrici, felliniani. Mentre lo desideri ti rendi conto che questo desiderio è una compensazione della vita lavorativa, trascorsa tra gente che ha passato la vita a migliorarsi (tipo te stesso) e gente che invece ti irrita perché non rispetta le aspettative minime per scaldare la sedia.

Ma fuori dal posto di lavoro le regole salterebbero: niente obiettivi da raggiungere, quindi va benissimo lo scemo di paese che racconta scemenze al bancone. E’ scenografico. E’ rilassante. Lui non ha niente da perdere; tu non hai niente da guadagnare.

Fare la vita dei disoccupati, ad ascoltare discorsi del cazzo, a pensare quanto è invecchiato chi ti versa la birra, a fare ragionamenti piccoli, a chiedersi se il pane di ieri è buono pure oggi.

vi danno fastidio

Vi danno fastidio gli intellettuali, vi danno fastidio i moralisti (e quindi la morale), vi danno fastidio i buonisti (e quindi la bonta’), vi danno fastidio gli scrittori, vi da fastidio l’immunologia, la chemoterapia, i piani a lungo termine, i trattati internazionali.

Ma non per diversa ideologia: vi danno fastidio perche’ non li capite. Per essere compresa pienamente, ognuna di queste cose richiede studio, oppurre richiede la capacita’ di analizzare il complesso, richiede familiarita’ con le astrazioni. Il limite non e’ necessariamente intellettuale: a volte e’ semplicemente prigrizia.

Allora capite solo la tassa sulle buste di plastica, i negri sulle barche, la restituzione di qualche euro di stipendio.

Tutti argomenti che possono essere giudicati sommariamente, anche in caso di moderata lobotomia: Si oppure No, Maggiore o Minore. Un rassicurante sistema binario dove gia’ i concetti di insieme o sottoinsieme generano frustrazioni. Ed in questo clima da seconda elementare, affonda tutto.

Si può anche assecondare il timore istintivo nei confronti delle razze diverse – ma pure lo schifo, perché gli istinti sono istinti – e a volte la gente ha istinti terribili. Uno può anche dire che nei quartieri pieni di immigrati si sta male. Che ci sono più reati. Che tanto i numeri dicono quello. Uno può avere paura delle altre religioni e dirlo apertamente.

Ma spingiamoci oltre e diciamo che uno può perfino credere – in modo totalmente antistorico e anacronistico – che le migrazioni debbano essere totalmente bloccate, e non accogliere mai nessuno. Perché historia magistra vitae per chi ha studiato, per gli altri invece stocazzo.

Ma quando uno sfrutta degli esseri umani in mare per ottenere dei vantaggi, allora si traccia una linea per terra e si deve decidere: o da una parte, o dall’altra.

Usare delle persone per il proprio vantaggio e’ come il rapinatore che punta la pistola all’ostaggio. Come il terrorista che danneggia innocenti nel nome di un’idea. Quando uno arriva addirittura vantarsene, di questo gesto disumano – come fosse un merito – per riscuotere applausi, allora questa persona e’ una diarrea. Quando uno specula sulla pelle di altre persone per ottenere consenso, sfruttando i limiti intellettuali o culturali o emotivi di chi non riesce ad elaborare giudizi più sofisticati della semplice dicotomia ‘immigrato si-immigrato no’, questa persona e’ una diarrea.

Non sono i politici sempre uguali. Sono gli italiani, sempre uguali.
Non sono i politici il problema. Sono gli italiani, il problema.

Hanno un politico ottuagenario, puttaniere e pregiudicato. Aveva portato l’Italia sull’orlo della bancarotta solo qualche anno fa, lo spread era altissimo, aveva ridicolizzato l’immagine degli italiani all’estero. E’ stato via poco tempo, poi è tornato: cresce nei sondaggi e ora lo danno al 16%.

Hanno un razzista separatista che diceva: ai giovani del mezzogiorno non va di fare un cazzo. Dice di volere difendere l’Europa cristiana ma predica valori contrari al vangelo. Si candida al Sud e lo applaudono. Gli operai lo votano, senza capire cosa vuol dire “flat-tax”. I sondaggi lo danno in crescita, ora al 13%.

Hanno i partiti del governo uscente. In 5 anni l’economia e’ cresciuta, la disoccupazione e’ calata, hanno approvato leggi sui diritti civili nonostante le ingerenze vaticane, difeso l’obbligo vaccinale. Pero’ siccome il leader del partito principale e’ antipatico e sbruffone, il gradimento cala nei sondaggi. Perché gli italiani votano per simpatia o per rabbia, raramente per ragionamenti razionali. Infatti quando hanno sostituito il capo del governo, mettendo al posto del leader del partito principale un altro ma meno sbruffone e con la faccia più simpatica (dello stesso partito, con lo stesso governo, con lo stesso programma) quest’ultimo e’ cresciuto tantissimo nei sondaggi, solo perché simpatico e garbato.

Hanno un ex presidente del Senato, siciliano, ex magistrato antimafia, che alla fine del suo mandato non voleva andare in pensione. Si e’ inventato che voleva mettersi a disposizione del Paese. Ma proprio mentre lo diceva, aveva la possibilità di candidarsi a presidente della sua Sicilia. Era perfetto: siciliano, antimafia, con esperienza, voleva mettersi al servizio del Paese. Pero’ correva il rischio di essere eletto e poi di lavorare per davvero. Ha preferito mettersi a capo di un partito senza speranza, che ha l’unico obiettivo di far perdere qualche seggio ai partiti di governo. Avrà una poltrona senza doversi prendere grosse responsabilità.

C’e’ il partito fondato da un comico. E’ riuscito a convincere gli italiani che se le cose vanno male non e’ colpa degli individui, ma “dei politici”. Il messaggio e’ efficacissimo perché de-responsabilizza e fa sentire migliori. Ha fatto credere agli italiani che loro – come popolo – sono migliori dei politici che li rappresentano e che loro stessi hanno votato. Poco importa se gli italiani sono gli impiegati degli uffici inefficienti, sono i furbetti del cartellino, sono i parcheggiatori in seconda fila, sono gli evasori fiscali, sono i cercatori di favori, sono la mafia, sono i posti di lavoro “grazie alle conoscenze”, sono i medici che visitano fuori dall’ospedale, sono i costruttori di case abusive, sono i baroni universitari, sono gli studenti che si fanno scrivere la tesi, sono i figli di papa’, sono il caffè senza scontrino, sono quelli che vendono il voto per dieci euro, sono gli ignoranti fieri di esserlo, sono i caporali nei campi, sono i costruttori di ponti che crollano, di scuole che crollano, sono il vigile urbano che fa finta di non vedere. Siamo un popolo che sprofonda perché non cerca di migliorarsi. Perché migliorarsi costa fatica.

Arriva il comico e dice: la colpa e’ dei politici, voi siete delle povere vittime immacolate. E loro ci credono. Parla di meritocrazia, e poi scelgono un capo che non e’ riuscito a prendersi una laurea in tre facoltà diverse, non sa parlare in italiano corretto e che prima della politica viveva con la paghetta del papa’. Raccontano tutto e il contrario di tutto. Ovviamente questo diventa il primo partito: non perché offre le ricette migliori, ma perché fa sentire gli italiani migliori.

ad un certo punto il trentenne muore

Ad un certo punto il trentenne muore di borghesia.

Muore ci cerimonie. Di cene passate a farsi i complimenti a vicenda con gli amici (che non sono davvero amici, anzi non lo sono quasi mai). Di foto delle vacanze. Di consigli sulle vacanze. Di consigli sulle tende da cambiare. Da accorciare. Di facciamo questo e quello già sapendo che non si farà nulla, e mentre lo dici e mentre lo ascolti sei concentratissimo a non far trasparire dall’espressione facciale che tanto lo sai – non se ne farà nulla – non mi interessa niente, e lo so che pure a te non interessa, lo diciamo tanto per dire e per traghettare questa conversazione altrove, perché se non parliamo di questo parleremmo del tempo che si e’ guastato, che e’ come non parlare di niente. Che e’ come ammettere di non aver niente di cui parlare. Voglio dire: lauree master e vite internazionali e parliamo del tempo? Piuttosto mi lancio dal balcone, piuttosto.

Muore di pulizia e ordine.

Muore anche perche’ si trova in un limbo tremendo: non sopporta la pulizia e l’ordine (riflesso diretto della pulizia e ordine mentale, quindi della morte) ma non sopporta neppure il casino, la cenere sul pavimento, i residui di patatine sul divano, i capelli lavati raramente, i semiadulti sdraiati nelle vite senza aspirazione e calzini spaiati come fossero matricole universitarie andati fuorisede per scappare a genitori oppressivi. Ne’ da una parte, ne’ dall’altra: nel limbo.

Intravedi da lontano (ma mica tanto lontano) il meccanismo perverso che porta certuni a farsi la decappottabile gialla per compensare nel mezzo del cammino della loro vita. Ci vedi un’attrattività nel ridicolo di questa soluzione, non fosse che e’ diventata stereotipo come il parlare del tempo.

Muore anche perché la bellezza del fare e condividere esperienze viene considerata improvvisamente una perdita di tempo – gli amici ci sono, ma sono presenze alla Patrick Swayze in Ghost. Non si può perdere tempo in cose inutili, tipo mandarsi affanculo in totale sincerità mentre si monta, chesso’, un tavolo, o si guarda una partita o si va a comprare un cacciavite, perché ci sono le vacanze da pianificare, vite sociali artificiali da innaffiare, le tende da accorciare, guerre civili domestiche da calmierare, inviti a cena da ricambiare.

Milioni di anni di evoluzione per giungere al vuoto pneumatico.

Tanto traffico e il semaforo sta per diventare rosso.

Automobilista lo sai benissimo che se adesso superi il semaforo, resterai bloccato al centro dell’incrocio, bloccando a tua volta tutti le altre direzioni.

Non esiste una legge che ti impedisca di farlo: tu puoi farlo. Ma la tua coscienza ti permette di farlo perché te ne stracatafotti del mondo. Tu passi perché puoi farlo. E poi quando resti bloccato al centro dell’incrocio e gli altri suonano il clacson – io no, io preferisco lo sguardo mortifero, sperando che si veda attraverso i finestrini – quando gli altri suonano il clacson tu indichi il traffico come per dire: non è colpa mia se sono bloccato qui, è il traffico che non scorre.

Tu sei fratello, figlio – o forse sei tu stesso – di quelli che in aereo abbassano lo schienale del sedile senza chiedere a chi siede dietro. Sei quello che se ti mandano un video su whatzupp in treno, tu devi ascoltarlo ad alto volume. E gli altri devono sentire. Anche se il video dura un minuto e trenta secondi (testimonianza diretta di tre giorni fa sul Londra Bruxelles). Sei la stessa persona. Sei quella cosa che mi raddrizza le giornate, a volte, quando mi sveglio col cruccio di essere forse troppo egocentrico. Mi sveglio e incontro te all’incrocio, in aereo, in treno.

E sto meglio.

nelle società evolute

Nelle società evolute si consuma tanta fiction succhiando da Netflix, ed in passato (o anche adesso, ma molto meno) si cercavano storie sulla carta dei romanzi. Ma di cosa parlano queste storie che troviamo nel cinema e sui libri? Parlano della vita delle persone. Però la vita delle persone e’ tutto ciò che rimane quando non si dorme e non si lavora. E quanto rimane di tempo quando non si dorme, non si lavora, non si corre dietro agli obblighi pratici?

Rimane pochissimo tempo. Ne rimane sempre meno. Quindi rimane pochissimo tempo per la vita.

Se il tempo per la vita si restringe, aumenta di conseguenza il bisogno di vivere la vita attraverso le storie degli altri. E pazienza se sono finte, se sono attori e personaggi inventati dei libri. Queste storie sono il metadone della vita. Il sostituto triste e scintillante della vita che non viviamo.

di attentatori

Anche l’attentatore di Manchester non sembrava affatto una persona felice di stare su questo pianeta. Avete visto la faccia?

Il problema non sono i terroristi che arrivano sotto forma di migranti in Europa (cioè non e’ la loro presenza a creare automaticamente e direttamente il problema); il problema sono le migrazioni che creano troppe famiglie di immigrati che sopravvivono disagiate ai bordi delle metropoli, dove crescono ragazzini rancorosi nei confronti del mondo che li circonda.

Perché il mondo che li circonda non li ha mai adottati veramente – con quelle facce da extracomunitari che c’hanno. Con quei nomi da extracomunitari che c’hanno.

L’odio nasce spesso da una ammirazione inconfessata. Che siccome non può essere soddisfatta diventa frustrazione e poi infine odio. E poi voglia di far male. Tanto morire costa poco, con la vita di merda che si ha. I ragazzini frustrati che entrano nelle scuole americane a fare stragi per vendicarsi di bullismi e isolamento fanno la stessa cosa, solo che c’hanno nomi americani e non hanno bisogno di costruirsi le bombe, ché tanto possono prendere il fucile del papà.

Perché probabilmente questo ragazzino che viveva vicino al palazzetto dei concerti, a quei concerti con quelle ragazzine libere e bionde sarebbe voluto andarci, e invece viveva nel ghetto di extracomunitari come lui. E le ragazzine bionde le poteva solo osservare da lontano.

Bisogna quindi accelerare sull’integrazione? Evitare gli isolamenti? Sono belle parole queste, ma se il bambino biondino preferisce l’amico biondino per giocare al parchetto, o per la festa di compleanno, non si può obbligare l’amico biondino ad accettare egualmente l’amichetto Abdul.

Poi quando l’amichetto biondino crescerà, ci saranno leggi per evitare le discriminazioni, per esempio a scuola o sul posto di lavoro. Ci saranno giornalisti che insisteranno sulle storie di integrazione riuscite bene e taceranno su quelle uscite male. Ma sara’ comunque un’integrazione di forma e non di sostanza. Quanti anni ci vorranno per un’integrazione di sostanza? Boh, a guardare gli afroamericani, 500 anni non bastano.

E nel frattempo?

E nel frattempo niente. Siamo qui a farci un’opinione.

E ve lo dico, fatevi un’opinione adesso, prima che una bomba scoppi più vicino a voi. Fatevela ora, quando potete essere ancora vagamente obiettivi. Perché siamo nell’epoca del “prima o poi” e bisogna essere pronti.

Una delle cose più tristi che ho visto negli ultimi tempi è una foto su facebook questa mattina.

Ci sono tre coppie che festeggiano San Valentino. Lo si capisce dai tovaglioli a forma di cuore. E altre cose a forma di cuore sul tavolo. Sono seduti tutti e sei allo stesso tavolo. Stanno festeggiando il San Valentino insieme. Invece che non festeggiarlo – qualunque cosa voglia dire festeggiarlo – hanno deciso di festeggiarlo insieme. E sono seduti assieme allo stesso tavolo. I tre uomini da una parte del tavolo, le tre donne dall’altra parte.

Con i tovaglioli a forma di cuore.

Ad un certo punto si comincia a perdere interesse nelle persone – nelle persone in generale, non di persone nello specifico – oppure si sgonfiano slanci ed entusiasmi nell’incontro di persone nuove. E pazienza: non e’ colpa delle persone e nemmeno colpa tua. Piuttosto e’ il risultato del fatto che dopo aver incontrato tantissima gente nella tua vita, da un certo punto in poi cominci ad incontrare doppioni di persone già conosciute: doppioni di discorsi, di sorrisi, paure e aspirazioni, e modi di accavallare le gambe.  Gli altri sono speciali – e noi stessi siamo speciali, purtroppo – soltanto nella limitatezza delle nostre esperienze. L’ampiezza ha tanti fascini, ma distrugge lentamente la nostra presunzione di peculiarità a botta di esperienze di nuovi incontri.

Però in estate verrò a controllarvi tutti – sostenitori accaniti e privi di dubbi del referendum – per vedere se nelle vostre automobili che vanno a petrolio tenete l’aria condizionata accesa oppure il finestrino abbassato.

Tra le piccole cose da annotare in questo periodo.

Una sciarpa lavata a tua insaputa, e che ti torna indietro con un profumo diverso. L’accettazione sincera del fatto che “a volte sei in testa/a volte resti indietro. La corsa è lunga e, alla fine, è solo con te stesso”.  Questa cosa di avere a volte in casa della roba cucinata il giorno prima. Il tizio che vende polli arrosto rotondi nel mercatino di quartiere del venerdì.

Il fatto di avere un mercatino sotto casa il venerdì. Con la mortadella e il polpo marinato e la scamorza affumicata. Che lo ripeti sempre col dito indice alzato, vivessi a Liverpool, non ce l’avresti. Non sei mai stato a Liverpool, ovviamente, ma non per questo smetterai di dire così.

Quella volta che sei riuscito a svegliarti col buio per andare a correre. Ok poi tre giorni dopo – per altre ragioni – ti sei ammalato e non l’hai fatto più, però una volta l’hai fatto, e sei stato abbastanza furbo da scattare una foto a futura memoria, per ricordarti che è possibile.

L’esserti svegliato troppo presto stamattina – prima delle cinque – senza motivo, essere devastato di stanchezza ma senza nervosismo.  Il tantissimo vento che hai preso in faccia.

I posti della tua vita sono quelli in cui vivi, mentre immagini come sarebbe vivere altrove. Le persone della tua vita sono quelle che hai attorno, mentre ipotizzi come sarebbe condividere il tempo con altre, e ne recrimini l’assenza. Il lavoro della tua vita è quello per cui ti impegni ogni giorno, e i giorni all’improvviso diventano anni senza accorgersene, mentre ti chiedi se forse dovresti cambiarlo. Il sapore della tua vita sono le difficoltà che ti fanno diventare una persona migliore, mentre nel frattempo desideri un’esistenza vita più facile.

E in fondo va bene così, incluse tutte queste domande, purché tu riesca ogni tanto a fermarti a respirare l’istante, e avere la consapevolezza che quell’istante che comprende tutto, è la tua vita. Averne la consapevolezza, e non sottovalutare niente, non minimizzare niente, ma celebrare tutto, e dare importanza a tutto, perché quello che ti scorre sotto gli occhi è davvero tutto: una mano che tocca il tessuto della tasca e accartoccia lo scontrino, la pioggia sul naso, la fame quando arriva ora di cena, l’attesa ad un semaforo, il tuo respiro quando sali le scale per tornare a casa.

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Celebriamo le feste con un classico esempio di immotivata fila da vacanze di Natale. Nella foto, l’aeroporto di Fiumicino, ed una fila per un volo Alitalia cominciata quaranta minuti prima dell’ingresso in aereo. Nessun bagaglio verrà imbarcato in stiva, a rimarcare la totale inutilità della fila.

Con spirito cristiano, forse per penitenza, la gente ama soffrire.
Buon Natale.

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Le cose che ho imparato

Le cose che ho imparato in questi giorni di Bruxelles “blindata” causa terrorismo sono almeno due.

Ho imparato sulla mia pelle che i giornalismo è fondato sull’esagerazione. Ok è risaputo, ma qui l’ho visto concretamente. Non si tratta di esagerare la realtà dei fatti raccontando falsità (si fa anche quello). Si tratta piuttosto di decidere di raccontare alcune cose e non altre. Per esempio in questi giorni di allerta i giornalisti hanno cercato selettivamente di raccontare determinate storie e non altre. Per esempio, ho trovato un giornalista alla ricerca di madri che avessero deciso di accompagnare i loro figli a scuola personalmente in automobile piuttosto che farli andare da soli coi mezzi pubblici, causa terrorismo. E’ chiaro che su una città intera alcune madri abbiano preso questa decisione. Ma cercare selettivamente queste madri (ancora prima di sapere che esistano), per poi produrne un servizio televisivo, non vuol dire informare.

Ho imparato che se il terrorismo serve a creare paura, funziona. La gente effettivamente ha paura. Non solo: la gente ha anche paura di ammettere di avere paura. Ho visto gente che vive qui da vent’anni raccontare di non uscire di casa a causa del freddo. Nell’inverno più caldo della storia. Ho imparato che la gente ha paura e non combatte per nulla: la gente si nasconde nel proprio guscio e attende la pace. Evidentemente ci hanno riempito la testa con parole come “la nostra cultura” e “libertà”, ce le hanno ripetute così tante volte che poi – queste parole – hanno perso il loro significato originario.

Combattere per la nostra cultura e la nostra libertà – in quei giorni – significava semplicemente non chiudersi in casa, avere il coraggio di essere in un bar: la nostra cultura era rappresentata materialmente dal bicchiere di birra davanti a noi. Chiudersi in casa – suona retorico, lo so – significava non combattere, ammettere la sconfitta. Ancora prima della paura (della codardia?) sono rimasto stupito dall’apatia. Com’è possibile, mi sono chiesto notando meno gente per strada, che non sentano l’obbligo civile di essere presenti per strada proprio adesso, che non vogliano celebrare la loro cultura e libertà con un bicchiere di birra? Com’è possibile che non si sentano sfidati e non reagiscano? Ci dovrebbe essere più gente in giro, ancora più del solito, piuttosto che meno.

Mentre scrivo tutto è tornato normale, e anche questo non ha senso. Perché come la paura era largamente irrazionale, anche il dissolversi della paura, semplicemente dettata dallo scorrere dei giorni piuttosto che da una reale diminuzione del pericolo, è pure quella totalmente irrazionale.

la guerre

Quando all’una di notte ho incrociato dei ragazzi correre tutti nella stessa direzione, appena vicino casa a Brussélle, il primissimo pensiero (e questa è la prima volta) è stato che ci fosse un problema, uno di quelli di cui parlano alla TV.

Poi invece correvano per non perdere l’autobus.

Essenzialmente questo è l’unico impatto della massima allerta di cui si parla alla TV. E se vogliamo dirla tutta, l’altro impatto è che ho trovato parcheggio davanti ad una pasticceria dove di solito non ne trovo. E che dopo aver prenotato un ristorante venerdì sera – in una zona dove se non prenoti non ti siedi – quando sono arrivato c’era solo un tavolo occupato. Ok, e mettiamoci pure il tizio con il mitra incontrato ieri pomeriggio aprendo il portone di casa.

Quindi al netto di tutto quello che si legge sui giornali, la guerra, per ora, praticamente significa trovare posto al ristorante.

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senza neanche la voglia di tradurmi

It will happen again.

Masses of frustrated poor people live in the suburb of all the big capitals. They cannot live the life they wish, the life they see others can live. They cannot afford it, or they are just rejected because of their name or exotic appearance.

The vast majority have a specific ethnic and religious background: but this is not an ethnic or religious issue, this is a social issue. They have the same nationality, but they are segregated in the poor and ugly suburbs. They wear Gucci hat. They are hostage of humble jobs. Their mothers clean the urine from the toilets where the “others”, the luckier, work and live.

So the frustration and hate grow in their mind. The religion is just an excuse to release the frustration and hate. They have nothing to lose, so it is easier to give the life away, and to believe in a paradise with tons virgins waiting for you. So it is easier to find identity in something else. Unfortunately religions (all the religions) cannot be banned from the world. Yet. Stop interviewing the “moderate muslims” in TV to remind the public there are differences and we should not generalize: you are completely missing the point.

But if the objective is the terror, if the hate is against this life style, then we know what to do. The weapon in our arms is to insist even more in enjoying beauty of what is available in a free world. Exercise the beauty of music, art, food, the beauty of freedom of going out, of using your body in the most immoral ways. Exploit all the possibilities to generate happiness for you and the others around you.

If everyone keep doing this, terror is not terror anymore.

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